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Francesco Acca / Mikele Ceppi
Lo Studio S. Agata de Goti apre i suoi suggestivi ambienti in pietra all’incontro-scontro dell¹opera di due artisti di diversa età, esperienza e destinazione: lo scultore Francesco Acca ed il director Mikele Ceppi.
Comunicato stampa
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Il primo, il cui curriculum vanta personali e collettive allestite presso locations internazionali, espone lavori dedicati a figure classiche della vita di sempre (prostitute, amanti, madri…) e non “…mimetizza i suoi esseri tra gli altri, ma li accompagna verso la loro stessa idea di definizione senza adeguarli alle circostanze. Li priva del vizio dell’apparenza per dotarli della comodità del vero che l’uomo ha così tanta difficoltà a permettersi”.
Ceppi, giovanissimo regista postromantico che ha vinto premi cinematografici e stampato “L’artista della vita moderna” piaciuto ad Abel Ferrara, realizza le sue opere riproducendo su tela immagini impeccabili (quelle del libro citato) come se estratte da tre perfetti percorsi filmici visionari e onesti che “…stabiliscono un contatto diretto con l’esperienza persa nei secoli e comunque ancora qui, oggi, truccata e travestita, fatta e costosa, scura e periferica, piena di riferimenti tutt’altro che casuali”. Un cinema fermo che non smette di muoversi nonostante la costrizione della tecnica utilizzata.
Con il supporto critico di Stefano Elena, l’evento a due proposto in questa nuova sede romana vuole soddisfare il desiderio di dialogo espresso dalle figure coinvolte e valutare l’attendibilità di una diversa ricerca artistica che si augura di tornare presto a proporsi nel bel mezzo di quel mondo stimolante ed attraente chiamato Rione Monti.
Ceppi vs Acca (così è se vi pare).
Assistere a differenti e distanti interpretazioni di uno stesso sinonimo di vita rende incerti.
I lavori di Ceppi e di Acca (sono cognomi veri) risultano tra loro -in estetica, ispirazione, tecnica, affettività e forma- spaventosamente inavvicinabili; improponibili in coppia.
Grazie a questo nasce un dubbio: perché due interpreti dell’attualità dovrebbero risultare inavvicinabili, improponibili in coppia, se decidono di avvicinarsi e proporsi in coppia?
Se le loro abitudini di vita sono talmente possibili e quasi letterarie da potersi incontrare scontrandosi?
Abituati a un destino “testa o croce”, all’inevitabilità di una scelta tra le poche a disposizione, le due differenti e distanti interpretazioni di cui sopra sembrano legare proprio perché discutono la possibilità e suggeriscono il modo.
Il loro immaginare immagina senza volerlo: si attesta, propone, disegna e designa in assenza di preventivi di spesa umorali. Quando nasce l’idea è già impressa o scolpita, lavorata anzi, spontaneamente apparsa come una teoria indiscutibile.
Poi c’è il resto.
La prostituta.
Acca ama il mare di qualsiasi stagione e spesso gli entra dentro per rendere meno platonica la relazione e per appropriarsi delle naturali forme umane che i sassi sommersi riescono a ricordare.
Quasi un hobby rassicurante e lontano da tutti per i fine settimana se H non lo frequentasse con l’abitudine intermittente e aperiodica della necessità, della dipendenza. Un rapporto vero e proprio che deve mantenersi nel tempo perché quelle forme pronte, quelle sagome che trattano la morfologia di un territorio bagnato, inquieto e parallelo non si allontanino dall’adeguatezza del contesto di pertinenza, quello umano. Sembra un dovere passionale che sfida le fobie miste di Lovecraft e di tutti coloro che agli abissi imputano la responsabilità senza respiro di un ignoto mai risolto, solo edulcorato dalle visite documentaristiche televisive che rincorrono l’impatto e non il pathos.
Tra prostitute, donne, sorrisi, intimità, amanti e madri, lo scalpello tirato a riva di Acca segue i contorni delle pietre raccolte rispettandone i suggerimenti estetici, le ombre sussurrate; completandone le apparenze strutturali attraverso l’aggiunta scultorea scavata che lascia emergere la completezza interpretativa del logorio ondeggiante di un mare che guarda, ricorda, riproduce, porta giù…
Quelle femmine lisce e levigate sembrano ondine rimaste sepolte, trattenute dall’acqua salata che toglie aria e custodisce modellando di giorno in giorno, pazientemente, sino a restituirle imbastite perché acquistino nuova vita e immagine. H le riconosce e subito raccoglie, attratto dalla loro indefinibilità anagrafica e dalla fermezza dei ricordi fisionomici sui quali opera secondo la personale rilettura di quei soggetti umani.
La cooperazione, tra Mare e Acca, prepara oggetti d’arte sciolti, forse ancora in formazione come se clonati, a volte presenti a metà -con un solo occhio, bocca assente, segni asimmetrici- per confermare che l’uomo è troppo raramente completo, continuamente in attesa dell’alter ego, del siamese disperso o della fierezza integrale. Screaming Mad George, artista di effetti speciali cinematografici, creava per Brian Yuzna esseri umani molli in continua evoluzione che se distratti rischiavano di dimenticare uno dei propri doppi (occhi, seni, narici). Non servivano, ma erano previsti dalla specie e ci si aspettava che fossero lì.
H al contrario non mimetizza i suoi esseri tra gli altri, ma li accompagna verso la loro stessa idea di definizione senza adeguarli alle circostanze. Li priva del vizio dell’apparenza per dotarli della comodità del vero che l’uomo ha così tanta difficoltà a permettersi.
Nell’opera di Acca l’identità non c’è, resta nell’ombra o dietro, l’ha tenuta il sotto del mare. Anzi, è rimasta indietro mentre il corpo e il bisogno correvano sudati verso un tentativo, una possibilità oppure un modo.
La puttana.
Ceppi c’è nato, vicino al mare. Quello del rave, della pasticca calata allo scadere dell’ora d’ordinanza, del turismo da tendenza, della poetica del perfect day alterato. Di quel divertimentificio che arriva fino all’alba, Ceppi conosce le ambientazioni, i costumi e le aspettative; quanto -sostanzialmente- compone parte della vita moderna.
Per questo chiama il suo progetto espositivo-editoriale “L’artista della vita moderna”, dove moderno è, proprio secondo la definizione di Baudelaire, “…il transitorio, il fuggitivo, il contingente…”.
Ceppi gira tre corto (metraggi) su tela; monta films veri e propri destinati alla stampa su carta, prima, e su tela più tardi. Racconta “i drammi attuali”, come dice lui, “religione, prostituzione e perversione; droga e amore di contorno”, ma visto che il contorno arriva sempre a stomaco pieno, non riesce a mitigare l’indole gradevolmente nervosa di Ceppi nei riguardi dei tre discorsi chiamati, appunto, drammi.
Lo indispettisce soprattutto l’approccio approssimativo e del “sentito dire” con il quale si è soliti avvicinare questi argomenti portanti, quando lui lo fa attraverso William Blake (“Morte di una fata”), un viaggio in treno (e soggiorno) di due giovani viziati (“I miei tre giorni a Parigi con una prostituta”) e il costruttivismo cyberpunk (“L’androgino in riva al lago”), utilizzando inquadrature visionarie, alternative, romantiche e, soprattutto, disilluse. La verità di Ceppi è quella che urlavano Genet (“Non mi faccio illusioni. Parlo nel vuoto e nel buio, tuttavia, magari soltanto per me, voglio ancora insultare coloro che insultano”) o il Charles Manson che parla al processo (“Questi bambini prendono molti stupefacenti perché voi gli dite di non farlo” e “Okay, se voi foste veri mi andrebbe bene, ma voi non mi sembrate veri. Voi mi sembrate un composto di ciò che qualcuno vi ha detto che siete. Voi vivete per le opinioni degli altri e mostrate il dolore sul vostro volto, non siete sicuri di come siete e vi chiedete se sembrate a posto”), aggiornata dettagliatamente e senza peli sulla lingua (forse altro).
Anche la sua, di verità, è quindi espressa liberamente nel tentativo di suggerire un’altra possibilità e un nuovo modo. Non disturba, Ceppi. Non dissacra, non provoca e non sporca: filma, crea story-board fatti di realtà ormai compromessa anziché disegno, stabilisce un contatto diretto con l’esperienza persa nei secoli e comunque ancora qui, oggi, truccata e travestita, fatta e costosa, scura e periferica, piena di riferimenti tutt’altro che casuali. Sempre coperta dai momenti delle abitudini che rendono la vita stessa un momento abituato e nascosto, molto breve, tant’è che, dice Manson, “…non passerà molto tempo prima che vi uccidiate tutti da soli, perché voi siete tutti pazzi”.
Sul fatto che li siano anche Ceppi e Acca, pazzi, non piove neanche dopo il giorno dei morti, ma ne godono e vanno fieri, della loro follia che li porta a guardare dietro la compostezza schizzata, a raffigurare momenti di distrazione che dimenticano un occhio o ripongono il rasoio per non finire in galera, a descrivere la preparata agonia in cui milita con sempre maggior perfezionismo chi preferisce non discutere. Che, addirittura, li porta ad avvicinarsi e proporsi in coppia.
Stefano Elena
Ceppi, giovanissimo regista postromantico che ha vinto premi cinematografici e stampato “L’artista della vita moderna” piaciuto ad Abel Ferrara, realizza le sue opere riproducendo su tela immagini impeccabili (quelle del libro citato) come se estratte da tre perfetti percorsi filmici visionari e onesti che “…stabiliscono un contatto diretto con l’esperienza persa nei secoli e comunque ancora qui, oggi, truccata e travestita, fatta e costosa, scura e periferica, piena di riferimenti tutt’altro che casuali”. Un cinema fermo che non smette di muoversi nonostante la costrizione della tecnica utilizzata.
Con il supporto critico di Stefano Elena, l’evento a due proposto in questa nuova sede romana vuole soddisfare il desiderio di dialogo espresso dalle figure coinvolte e valutare l’attendibilità di una diversa ricerca artistica che si augura di tornare presto a proporsi nel bel mezzo di quel mondo stimolante ed attraente chiamato Rione Monti.
Ceppi vs Acca (così è se vi pare).
Assistere a differenti e distanti interpretazioni di uno stesso sinonimo di vita rende incerti.
I lavori di Ceppi e di Acca (sono cognomi veri) risultano tra loro -in estetica, ispirazione, tecnica, affettività e forma- spaventosamente inavvicinabili; improponibili in coppia.
Grazie a questo nasce un dubbio: perché due interpreti dell’attualità dovrebbero risultare inavvicinabili, improponibili in coppia, se decidono di avvicinarsi e proporsi in coppia?
Se le loro abitudini di vita sono talmente possibili e quasi letterarie da potersi incontrare scontrandosi?
Abituati a un destino “testa o croce”, all’inevitabilità di una scelta tra le poche a disposizione, le due differenti e distanti interpretazioni di cui sopra sembrano legare proprio perché discutono la possibilità e suggeriscono il modo.
Il loro immaginare immagina senza volerlo: si attesta, propone, disegna e designa in assenza di preventivi di spesa umorali. Quando nasce l’idea è già impressa o scolpita, lavorata anzi, spontaneamente apparsa come una teoria indiscutibile.
Poi c’è il resto.
La prostituta.
Acca ama il mare di qualsiasi stagione e spesso gli entra dentro per rendere meno platonica la relazione e per appropriarsi delle naturali forme umane che i sassi sommersi riescono a ricordare.
Quasi un hobby rassicurante e lontano da tutti per i fine settimana se H non lo frequentasse con l’abitudine intermittente e aperiodica della necessità, della dipendenza. Un rapporto vero e proprio che deve mantenersi nel tempo perché quelle forme pronte, quelle sagome che trattano la morfologia di un territorio bagnato, inquieto e parallelo non si allontanino dall’adeguatezza del contesto di pertinenza, quello umano. Sembra un dovere passionale che sfida le fobie miste di Lovecraft e di tutti coloro che agli abissi imputano la responsabilità senza respiro di un ignoto mai risolto, solo edulcorato dalle visite documentaristiche televisive che rincorrono l’impatto e non il pathos.
Tra prostitute, donne, sorrisi, intimità, amanti e madri, lo scalpello tirato a riva di Acca segue i contorni delle pietre raccolte rispettandone i suggerimenti estetici, le ombre sussurrate; completandone le apparenze strutturali attraverso l’aggiunta scultorea scavata che lascia emergere la completezza interpretativa del logorio ondeggiante di un mare che guarda, ricorda, riproduce, porta giù…
Quelle femmine lisce e levigate sembrano ondine rimaste sepolte, trattenute dall’acqua salata che toglie aria e custodisce modellando di giorno in giorno, pazientemente, sino a restituirle imbastite perché acquistino nuova vita e immagine. H le riconosce e subito raccoglie, attratto dalla loro indefinibilità anagrafica e dalla fermezza dei ricordi fisionomici sui quali opera secondo la personale rilettura di quei soggetti umani.
La cooperazione, tra Mare e Acca, prepara oggetti d’arte sciolti, forse ancora in formazione come se clonati, a volte presenti a metà -con un solo occhio, bocca assente, segni asimmetrici- per confermare che l’uomo è troppo raramente completo, continuamente in attesa dell’alter ego, del siamese disperso o della fierezza integrale. Screaming Mad George, artista di effetti speciali cinematografici, creava per Brian Yuzna esseri umani molli in continua evoluzione che se distratti rischiavano di dimenticare uno dei propri doppi (occhi, seni, narici). Non servivano, ma erano previsti dalla specie e ci si aspettava che fossero lì.
H al contrario non mimetizza i suoi esseri tra gli altri, ma li accompagna verso la loro stessa idea di definizione senza adeguarli alle circostanze. Li priva del vizio dell’apparenza per dotarli della comodità del vero che l’uomo ha così tanta difficoltà a permettersi.
Nell’opera di Acca l’identità non c’è, resta nell’ombra o dietro, l’ha tenuta il sotto del mare. Anzi, è rimasta indietro mentre il corpo e il bisogno correvano sudati verso un tentativo, una possibilità oppure un modo.
La puttana.
Ceppi c’è nato, vicino al mare. Quello del rave, della pasticca calata allo scadere dell’ora d’ordinanza, del turismo da tendenza, della poetica del perfect day alterato. Di quel divertimentificio che arriva fino all’alba, Ceppi conosce le ambientazioni, i costumi e le aspettative; quanto -sostanzialmente- compone parte della vita moderna.
Per questo chiama il suo progetto espositivo-editoriale “L’artista della vita moderna”, dove moderno è, proprio secondo la definizione di Baudelaire, “…il transitorio, il fuggitivo, il contingente…”.
Ceppi gira tre corto (metraggi) su tela; monta films veri e propri destinati alla stampa su carta, prima, e su tela più tardi. Racconta “i drammi attuali”, come dice lui, “religione, prostituzione e perversione; droga e amore di contorno”, ma visto che il contorno arriva sempre a stomaco pieno, non riesce a mitigare l’indole gradevolmente nervosa di Ceppi nei riguardi dei tre discorsi chiamati, appunto, drammi.
Lo indispettisce soprattutto l’approccio approssimativo e del “sentito dire” con il quale si è soliti avvicinare questi argomenti portanti, quando lui lo fa attraverso William Blake (“Morte di una fata”), un viaggio in treno (e soggiorno) di due giovani viziati (“I miei tre giorni a Parigi con una prostituta”) e il costruttivismo cyberpunk (“L’androgino in riva al lago”), utilizzando inquadrature visionarie, alternative, romantiche e, soprattutto, disilluse. La verità di Ceppi è quella che urlavano Genet (“Non mi faccio illusioni. Parlo nel vuoto e nel buio, tuttavia, magari soltanto per me, voglio ancora insultare coloro che insultano”) o il Charles Manson che parla al processo (“Questi bambini prendono molti stupefacenti perché voi gli dite di non farlo” e “Okay, se voi foste veri mi andrebbe bene, ma voi non mi sembrate veri. Voi mi sembrate un composto di ciò che qualcuno vi ha detto che siete. Voi vivete per le opinioni degli altri e mostrate il dolore sul vostro volto, non siete sicuri di come siete e vi chiedete se sembrate a posto”), aggiornata dettagliatamente e senza peli sulla lingua (forse altro).
Anche la sua, di verità, è quindi espressa liberamente nel tentativo di suggerire un’altra possibilità e un nuovo modo. Non disturba, Ceppi. Non dissacra, non provoca e non sporca: filma, crea story-board fatti di realtà ormai compromessa anziché disegno, stabilisce un contatto diretto con l’esperienza persa nei secoli e comunque ancora qui, oggi, truccata e travestita, fatta e costosa, scura e periferica, piena di riferimenti tutt’altro che casuali. Sempre coperta dai momenti delle abitudini che rendono la vita stessa un momento abituato e nascosto, molto breve, tant’è che, dice Manson, “…non passerà molto tempo prima che vi uccidiate tutti da soli, perché voi siete tutti pazzi”.
Sul fatto che li siano anche Ceppi e Acca, pazzi, non piove neanche dopo il giorno dei morti, ma ne godono e vanno fieri, della loro follia che li porta a guardare dietro la compostezza schizzata, a raffigurare momenti di distrazione che dimenticano un occhio o ripongono il rasoio per non finire in galera, a descrivere la preparata agonia in cui milita con sempre maggior perfezionismo chi preferisce non discutere. Che, addirittura, li porta ad avvicinarsi e proporsi in coppia.
Stefano Elena
19
novembre 2004
Francesco Acca / Mikele Ceppi
Dal 19 novembre all'otto dicembre 2004
arte contemporanea
Location
STUDIO SANT’AGATA DE’ GOTI
Roma, Via Di Sant'agata Dei Goti, 27, (Roma)
Roma, Via Di Sant'agata Dei Goti, 27, (Roma)
Orario di apertura
Dal lunedì al sabato h. 17-20
Vernissage
19 Novembre 2004, h. 19