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Gesto, Forma, Colore
Mostra collettiva di 14 artisti del panorama nazionale. Non è morta l’arte così come non è morta la pittura – e questa rassegna in qualche misura ne è una riprova.
Comunicato stampa
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Prometeo, “colui che conosce con anticipo”, che per primo manipola la tecnica per dar vita a nuove forme, per piegare la sorda fissità della materia. Colui che impiega le potenzialità della tecnica per plasmare forme che sappiano dare speranza agli uomini.
Ma il “provvido” Prometeo, figlio del titano Giapeto, ha un fratello, Epimeteo, che invece è “imprudente” ed apprende le cose con ritardo. E, secondo la ricostruzione di Karol Kerényi, le figure dei due fratelli non possono essere considerate separatamente: l’impiego della tecnica, a dispetto delle nostre intenzioni, può produrre risultati discordanti. Dipende dalle nostre capacità di comprendere il fine per il quale siamo disposti – o necessitati – a ricorrere ai dispositivi della tecnica.
Certo, Prometeo ama gli uomini, e grazie al proprio dono-sacrificio (intelletto ed abilità) consente loro di abbandonare lo stato ferino per inoltrarsi in un contesto denso di insidie: la civiltà.
Comunque sia, una volta ingannato, Zeus non si limita a punire Prometeo in modo esemplare: alla punizione si associa la comparsa di una figura seducente, capace di “dispensare ogni dono”: Pandora. Mendace e seducente, infida e bella, Pandora costituisce una sorta di contrappasso sia della generosità di Prometeo, sia della lentezza di Epimeteo.
Un trio di personaggi curioso, Prometeo, Epimeteo e Pandora; un contesto mitico che comunque sembra informarci della complessità di relazioni che di dispongono tra tecnica, talento e inganno. Ed in fondo la storia stessa della produzione delle forme, delle forme in cui l’arte si manifesta, è la storia dell’intrico nel quale un soggetto – l’artista – deve cercare di districarsi, del glomerulo che deve cercare di districare.
Con quali strumenti? Gesto, colore, forma. Forse “segno”, colore e forma. Sono gli strumenti che investono quella relazione, che si dispongono tra talento e abilità; che originano le “figure” e le “icone” attraverso le quali le arti visive si aprono al nostro sguardo.
Figure e icone che, tuttavia, non sempre, non necessariamente risultano “opportune”, autentiche. E questo accade nel momento in cui la figura prometeica, il talento, la capacità di interrogare e di nominare il “mondo”, viene sacrificata al culto della tecnica, al puro dispiegarsi di un’abilità fine a se stessa, che crede che ogni bellezza risieda in quella ripetizione capace di generare solo inganni.
Nessun giudizio e nessuna redenzione ci attendono. Il gioco è fatto e ormai c’è poco da fare.
Poco, ma forse in un mondo destinato a dissolversi c’è ancora una misura che resiste, un “programma” che attraverso tentativi ed errori cerca di rendersi evidente, di prendere corpo. E le arti visive sono parte integrante di questo “programma”.
Non fosse altro per l’indicazione che Jean-Luc Nancy ci invita a considerare: a dispetto di tutto, ci sono ancora dei soggetti cui è riservato un “dono”, una dote da esibire, amorevolmente, ma necessariamente: gli artisti, vittime incolpevoli di un singolare paradosso. L’artista è per eccellenza colui che è dotato, e «chi è dotato mette in mostra un paradosso; non ha fatto nulla per ottenere il dono, non è, dunque, debitore di nessuno, ma non lo deve neppure a se stesso e, in un certo senso, è in obbligo a tutti nell’esercitarlo: perché, da lui, ci si aspetta che lo metta in opera. Possedere un dono senza farne nulla è una sorta di tradimento: tradimento di se stessi e, per prima cosa, degli altri». Il “dono” si impone, si mostra e si espone. E’ inalienabile nella sua intima essenza di sicurezza insicura, di certezza imprevedibile, di precisione non calcolata.
Ma questo “programma” di cui i “dotati” sono portatori è solo una questione di tecnica? Di ripristino del “mestiere”? Di esibizione di un’abilità?
Guai a confondere l’arte con la tecnica attraverso la quale essa – l’arte – si compie e trova “corpo”. Siamo al dunque: l’arte oggi può ancora beneficiare della consolante cornice narrativa che la presentava come stadio di un’incessante evoluzione? La discussione che ormai da anni ci accompagna sulla “morte dell’arte” non ha forse a che fare con il venir meno di quelle cornice narrativa? Chi siamo? E, soprattutto, come parliamo?
Se un tempo l’artista – ed in modo forse particolare la declinazione pittorica del suo gesto – aveva come scopo quello di “ritrarre” il mondo nel modo in cui esso si presenta ed i suoi oggetti così come si presentano al nostro sguardo; se poi, con il “modernismo” le attenzioni si spostano sulle condizioni della rappresentazione (l’arte è soggetto di se stessa) e sui metodi di una disciplina per poterla radicare più saldamente nella sua area di competenza (almeno questo era il pensiero di Clement Greenberg); ora, in quella che, a torto o a ragione, viene definita condizione “post-moderna”, sembra che lo scopo dell’arte sia quello di mettere in discussione la propria natura.
Non è morta l’arte così come non è morta la pittura – e questa rassegna in qualche misura ne è una riprova. Il nodo che ci fronteggia, concettualmente, analiticamente, criticamente, è la mutazione complessiva della cornice all’interno della quale l’esperienza artistica viene maturando da almeno un ventennio.
Niente è più rassicurante, ma forse solo perché della complessità che ci fronteggia abbiamo una grande paura. Ma la complessità va abitata e non fuggita. Bisogna starci dentro e sentire come si muove. L’artista ormai opera ai margini del caos e qualcosa di quel caos inesorabilmente si prolunga fino al gesto che l’artista compie.
In una “società dello spettacolo” che celebra i propri trionfi effimeri e superficiali diventa quasi necessario esplorare le pieghe creative, le zone franche, in cui quella complessità si manifesta. In cui intravedere vie di fuga, nuove libertà, in cui scoprire che c’è ancora un soggetto in grado di avere risposte quando ancora non sono state formulate in forma compiuta le domande.
E, ci piaccia o no, il talento è proprio questo. Ed il compito dell’artista è quello di scalarlo, il talento; di scoprirne i limiti.
Ma il “provvido” Prometeo, figlio del titano Giapeto, ha un fratello, Epimeteo, che invece è “imprudente” ed apprende le cose con ritardo. E, secondo la ricostruzione di Karol Kerényi, le figure dei due fratelli non possono essere considerate separatamente: l’impiego della tecnica, a dispetto delle nostre intenzioni, può produrre risultati discordanti. Dipende dalle nostre capacità di comprendere il fine per il quale siamo disposti – o necessitati – a ricorrere ai dispositivi della tecnica.
Certo, Prometeo ama gli uomini, e grazie al proprio dono-sacrificio (intelletto ed abilità) consente loro di abbandonare lo stato ferino per inoltrarsi in un contesto denso di insidie: la civiltà.
Comunque sia, una volta ingannato, Zeus non si limita a punire Prometeo in modo esemplare: alla punizione si associa la comparsa di una figura seducente, capace di “dispensare ogni dono”: Pandora. Mendace e seducente, infida e bella, Pandora costituisce una sorta di contrappasso sia della generosità di Prometeo, sia della lentezza di Epimeteo.
Un trio di personaggi curioso, Prometeo, Epimeteo e Pandora; un contesto mitico che comunque sembra informarci della complessità di relazioni che di dispongono tra tecnica, talento e inganno. Ed in fondo la storia stessa della produzione delle forme, delle forme in cui l’arte si manifesta, è la storia dell’intrico nel quale un soggetto – l’artista – deve cercare di districarsi, del glomerulo che deve cercare di districare.
Con quali strumenti? Gesto, colore, forma. Forse “segno”, colore e forma. Sono gli strumenti che investono quella relazione, che si dispongono tra talento e abilità; che originano le “figure” e le “icone” attraverso le quali le arti visive si aprono al nostro sguardo.
Figure e icone che, tuttavia, non sempre, non necessariamente risultano “opportune”, autentiche. E questo accade nel momento in cui la figura prometeica, il talento, la capacità di interrogare e di nominare il “mondo”, viene sacrificata al culto della tecnica, al puro dispiegarsi di un’abilità fine a se stessa, che crede che ogni bellezza risieda in quella ripetizione capace di generare solo inganni.
Nessun giudizio e nessuna redenzione ci attendono. Il gioco è fatto e ormai c’è poco da fare.
Poco, ma forse in un mondo destinato a dissolversi c’è ancora una misura che resiste, un “programma” che attraverso tentativi ed errori cerca di rendersi evidente, di prendere corpo. E le arti visive sono parte integrante di questo “programma”.
Non fosse altro per l’indicazione che Jean-Luc Nancy ci invita a considerare: a dispetto di tutto, ci sono ancora dei soggetti cui è riservato un “dono”, una dote da esibire, amorevolmente, ma necessariamente: gli artisti, vittime incolpevoli di un singolare paradosso. L’artista è per eccellenza colui che è dotato, e «chi è dotato mette in mostra un paradosso; non ha fatto nulla per ottenere il dono, non è, dunque, debitore di nessuno, ma non lo deve neppure a se stesso e, in un certo senso, è in obbligo a tutti nell’esercitarlo: perché, da lui, ci si aspetta che lo metta in opera. Possedere un dono senza farne nulla è una sorta di tradimento: tradimento di se stessi e, per prima cosa, degli altri». Il “dono” si impone, si mostra e si espone. E’ inalienabile nella sua intima essenza di sicurezza insicura, di certezza imprevedibile, di precisione non calcolata.
Ma questo “programma” di cui i “dotati” sono portatori è solo una questione di tecnica? Di ripristino del “mestiere”? Di esibizione di un’abilità?
Guai a confondere l’arte con la tecnica attraverso la quale essa – l’arte – si compie e trova “corpo”. Siamo al dunque: l’arte oggi può ancora beneficiare della consolante cornice narrativa che la presentava come stadio di un’incessante evoluzione? La discussione che ormai da anni ci accompagna sulla “morte dell’arte” non ha forse a che fare con il venir meno di quelle cornice narrativa? Chi siamo? E, soprattutto, come parliamo?
Se un tempo l’artista – ed in modo forse particolare la declinazione pittorica del suo gesto – aveva come scopo quello di “ritrarre” il mondo nel modo in cui esso si presenta ed i suoi oggetti così come si presentano al nostro sguardo; se poi, con il “modernismo” le attenzioni si spostano sulle condizioni della rappresentazione (l’arte è soggetto di se stessa) e sui metodi di una disciplina per poterla radicare più saldamente nella sua area di competenza (almeno questo era il pensiero di Clement Greenberg); ora, in quella che, a torto o a ragione, viene definita condizione “post-moderna”, sembra che lo scopo dell’arte sia quello di mettere in discussione la propria natura.
Non è morta l’arte così come non è morta la pittura – e questa rassegna in qualche misura ne è una riprova. Il nodo che ci fronteggia, concettualmente, analiticamente, criticamente, è la mutazione complessiva della cornice all’interno della quale l’esperienza artistica viene maturando da almeno un ventennio.
Niente è più rassicurante, ma forse solo perché della complessità che ci fronteggia abbiamo una grande paura. Ma la complessità va abitata e non fuggita. Bisogna starci dentro e sentire come si muove. L’artista ormai opera ai margini del caos e qualcosa di quel caos inesorabilmente si prolunga fino al gesto che l’artista compie.
In una “società dello spettacolo” che celebra i propri trionfi effimeri e superficiali diventa quasi necessario esplorare le pieghe creative, le zone franche, in cui quella complessità si manifesta. In cui intravedere vie di fuga, nuove libertà, in cui scoprire che c’è ancora un soggetto in grado di avere risposte quando ancora non sono state formulate in forma compiuta le domande.
E, ci piaccia o no, il talento è proprio questo. Ed il compito dell’artista è quello di scalarlo, il talento; di scoprirne i limiti.
17
ottobre 2015
Gesto, Forma, Colore
Dal 17 al 31 ottobre 2015
arte contemporanea
Location
GALLERIA SORRENTI
Novara, Via Giacomo Giovanetti, 4/a, (Novara)
Novara, Via Giacomo Giovanetti, 4/a, (Novara)
Orario di apertura
11-12.30 e 17-19.30
Vernissage
17 Ottobre 2015, ore 17.30
Autore