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Giacomo Carnesecchi – Pittogrammi nel tempo
L‘alfabeto pittorico di Carnesecchi si sostanzia nell’era della comunicazione virtuale, degli emoticon e della rappresentazione della realtà filtrata da simboli di univoco significato. Stimoli traslati senza esitazioni sulla tela, con un’autonomia creativa fondamentale oggi. Pittogrammi nel tempo.
Comunicato stampa
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Ultimamente la Brigata del Leoncino, ha fatto il punto su alcuni dei principali artisti che hanno caratterizzato fortemente il novecento pistoiese: Valerio Gelli, con la pubblicazione di un volume sui disegni dell’ultimo periodo, Lando Landini con un doppio evento di storicizzazione dell’attività iniziale dell’artista prima con la personale al Museo Marino Marini sui disegni di Parigi e poi con la personale alla Galleria del Leoncino sui dipinti degli anni ’40 e ’50, Aldo Frosini con la mostra postuma alla Galleria del Leoncino. Quale significato può avere, ora, occuparsi di un artista che apparentemente ha in comune con loro solo l’appartenenza alla stessa città? Con l’ultima collettiva alla Galleria del Leoncino Passato & Presente abbiamo voluto porre l’accento su un aspetto fondamentale e peculiare della città di Pistoia: una grande quantità di artisti, tutti di grande qualità, che al di là del loro riconoscimento a livello nazionale, hanno elargito a ciclo continuo e senza interruzioni opere di grande livello con il loro indubbio estro creativo e le loro originali intuizioni. Hanno in qualche modo interagito consapevolmente o inconsapevolmente fra di loro? Anche a distanza di generazioni? Questo enorme patrimonio, di ieri e di oggi che noi cerchiamo di valorizzare ha delle radici comuni, delle trasversalità ambientali, delle inconsapevoli contaminazioni reciproche. Ci piacerebbe far scaturire un dibattito su questo tema, e sicuramente in prospettiva lo organizzeremo. Secondo noi ci deve essere un punto di contatto, un riferimento, una discendenza tra l’arte di ieri e di oggi, a Pistoia. L‘alfabeto pittorico di Giacomo Carnesecchi oggi offre un affaccio su un originale e contemporaneo modus operandi di un artista pistoiese che vive nell’era dell’imperante internet, della comunicazione virtuale con gli emoticon e della rappresentazione della realtà filtrata da simbolismi di univoca interpretazione. Il merito indubbio di Giacomo Carnesecchi è quello di traslare la modernità dei tempi che viviamo sulla tela, senza tuttavia banalizzarne il significato. I pittogrammi nel tempo strizzano l’occhio a tutto ciò, ma vivono di un’autonomia creativa fondamentale per un artista dei nostri giorni.
Saper far parlare le immagini
Siliano Simoncini
Giacomo, dai tempi in cui frequentava l’Accademia di Belle Arti di Firenze, aveva già una “visione” di quello che avrebbe voluto dire per lui PITTURA. Ovvero, per prima cosa, il segno. Anche in seguito, quando insieme alla madre Ariella - come lui ex studentessa dell’Istituto d’Arte di Pistoia - prese a impegnarsi con la tecnica della ceramica, il filo conduttore era sempre il segno che questa volta, grazie alla particolarità dell’esecuzione, doveva essere immediato, fissato sul biscotto ceramico senza ripensamenti. Queste origini, a mio avviso, sono ancora ben rintracciabili nei lavori degli ultimi anni e così anche in questi, preparati per l’occasione della mostra. Si tratta di un numero limitato di opere, rispetto alla notevole quantità che avemmo occasione di ammirare nelle mostre di Quarrata e di Agliana qualche anno fa; ma si tratta di opere recentissime, pensate per lo spazio in cui le possiamo vedere.
L’artista, che ha trovato un proprio linguaggio espressivo in grado di farlo identificare, ha già compiuto un progresso rilevante dal momento in cui, terminato “l’apprendistato”, ha preso a ridurre l’opportunità delle scelte. Anche Giacomo, da tempo, ha limitato l’ottica della sua ricerca a una metodologia operativa in grado di garantirgli quella sicurezza tecnica ed espressiva, rispondente alla personale poetica. Quale? La definizione dello spazio in senso pluridimensionale aprospettico, le cui radici storiche si perdono nelle vicende rappresentative interpretate dall’uomo e, quantomeno, sono presenti in ogni cultura che non adotti la rappresentazione prospettica, empirica o scientifica, oppure quella assonometrica, peculiare delle culture orientali. Il ‘900, dall’astrattismo concreto a quello segnico ha operato con tale finalità; però, per trovare un autore cui l’opera di Giacomo rimanda, è necessario fare il nome di Fernand Leger (1881/1955). Perché? Il pittore francese è quello che al meglio ha operato il sincretismo tra arte iconica e aniconica, facendole convivere. Mi riferisco, in particolare, alle sue opere degli anni ’40 e ’50 come Le quattro cicliste, Ragazza con pianta, Composizione con due farfalle per citarne qualcuna. Ebbene, Leger la pluridimensionalità la ottiene in due momenti: sul fondo staglia sagome cromatiche organico/geometriche e dopo, con il colore a olio, “disegna” la sua tipica figurazione a tratto, sintetica e fortemente comunicativa a volte integrata da cenni di chiaroscuro. Dico fortemente comunicativa, in quanto la scelta di ridurre a segno le immagini - stilisticamente in maniera personale - anticipa chiaramente la successiva esperienza della Pop art; in particolare, il riferimento esplicito si può individuare nei dipinti di Roy Lichtenstein (1923/1997).
Giacomo, come ogni artista è indotto a fare - la legge del buon Lavoisier (1743/1794), è valida in ogni ambito della ricerca: Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma - è dunque partito da tale “visione” storica della propria concezione poetico/visiva. A mio avviso quindi, la caratteristica del lavoro di Giacomo è inseribile, a pieno titolo, in questa linea evolutiva della ricerca artistica, e da par suo aggiunge un nuovo “mattone” a quella catena del DNA nell’incessante divenire di ogni cosa, compreso l’arte.
Nella mostra è presente il “polittico” composto di sei dipinti intitolati Affinità e un “dittico”: Angelo appeso e Grande taglio. Che cosa hanno queste opere di “nuovo” rispetto alle precedenti: sul piano della realizzazione niente, perché il procedimento è lo stesso (tinteggiatura “industriale” di sagome sul fondo e segno/disegno con pastello nero a olio che si sovrappone). E’ rispetto al soggetto e alla riduzione a icona, per esempio, delle sei Affinità, a intrigare chi intenda instaurare un rapporto non soltanto empatico ma speculativo al livello mentale. Questo perché le affinità proposte dall’artista scaturiscono da valenze percettive e simboliche. Per le prime possiamo costatare che il pittogramma del fiore - ognuno dalla tipologia diversa - si lega di volta in volta con gli altri per complementarità cromatica, per la tensione uniforme in tutte le direzioni (a causa della “deflagrazione” dei petali verso l’esterno del formato), e per la ritmicità delle cadenze rotatorie. Tutti elementi qualificanti gli esiti di una configurazione peculiare della grammatica visiva e hanno a che fare con le risultanze degli esiti estetici. Parlavo di pittogramma, è proprio qui l’elemento nuovo della figurazione messa in atto da Giacomo. Sappiamo bene che il pittogramma è un codice univoco - nel nostro caso quello del fiore - ma la stabilità del messaggio è elevata a concetto, e quindi a ideogramma o logogramma che dir si voglia, dal livello costituito dai segni a pastello. Nella pluridimensionalità, infatti, è il “transito” che interviene e in conseguenza, la seconda valenza di cui parlavo - quella simbolica - rafforza il codice comunicativo e il segnale non è più tautologico ma metaforico. Ecco allora spiegato il titolo della mostra: Pittogrammi nel tempo. Non soltanto la sequenza di sei affinità dell’insieme - “polittico” - denuncia l’elemento tempo, ma anche il “transito” dal disegno, alla parola; dall’immagine segnale della realtà inequivocabile (il fiore), all’altra realtà, quella simbolica. Infatti, i tratti a pastello sono sempre segni ma, questa volta, a ragion veduta, si possono definire degli ideogrammi: concetti, e quindi, parole. In merito alle associazioni, e dunque alle affinità “elettive” da scoprire, ognuno individuerà le proprie. Come ho già ricordato in altre occasioni, l’arte non risponde alle domande, ma le pone. Il saper rispondere è la logica, quanto la magia, che unisce l’opera con il proprio interlocutore e lo esorta a saper fa parlare l’immagine. Il dittico che nella sala della galleria fronteggia il polittico, pur in sintonia con il lavoro precedente di Giacomo ha, di nuovo, l’elemento dell’ambiguità: quella dello spazio. Angelo appeso, sul fondo presenta due “misure” inerenti, appunto, alla condizione spaziale: la forma gialla interpreta la vettorialità sinistra/destra - basso/alto, mentre la forma blu - in contrapposizione - suggerisce l’immagine di un oggetto plastico. Di nuovo due pittogrammi, questa volta sfuggenti e non assertivi. L’ideogramma invece, aiuta a legare il titolo alla rappresentazione, al teatro degli artefatti che l’artista ha predisposto. Dell’angelo, le ali appese di fronte a un’apertura: la porta del transito dall’invisibile al visibile? Il binomio simbolico proposto da Giacomo, induce a intessere un legame con l’opera e con il suo possibile significato, indubbiamente ambiguo ma l’arte, è anche questo: altro da sé!
Per Grande taglio, valgono le stesse considerazioni eccetto che, in questo caso, da un’apertura (di nuovo la porta) un segno ombelicale viene (da dove?) a definire dei tagli di cui quello più grande, è posto dietro/davanti (ancora ambiguità) all’elemento che per eccellenza rappresenta la natura: l’albero. Si capisce allora la domanda posta dall’opera: l’uomo con i suoi artifici, alla fine, darà un taglio decisivo al mondo in cui vive?
Giacomo Carnesecchi con questa mostra, a parer mio, intraprende un percorso di ricerca rispetto alle forme e ai significati sempre più coinvolgente e problematico. Perché oggi l’arte, come già è avvenuto in periodi storici precari come il nostro, ha il compito fondamentale di educare alla consapevolezza.
Saper far parlare le immagini
Siliano Simoncini
Giacomo, dai tempi in cui frequentava l’Accademia di Belle Arti di Firenze, aveva già una “visione” di quello che avrebbe voluto dire per lui PITTURA. Ovvero, per prima cosa, il segno. Anche in seguito, quando insieme alla madre Ariella - come lui ex studentessa dell’Istituto d’Arte di Pistoia - prese a impegnarsi con la tecnica della ceramica, il filo conduttore era sempre il segno che questa volta, grazie alla particolarità dell’esecuzione, doveva essere immediato, fissato sul biscotto ceramico senza ripensamenti. Queste origini, a mio avviso, sono ancora ben rintracciabili nei lavori degli ultimi anni e così anche in questi, preparati per l’occasione della mostra. Si tratta di un numero limitato di opere, rispetto alla notevole quantità che avemmo occasione di ammirare nelle mostre di Quarrata e di Agliana qualche anno fa; ma si tratta di opere recentissime, pensate per lo spazio in cui le possiamo vedere.
L’artista, che ha trovato un proprio linguaggio espressivo in grado di farlo identificare, ha già compiuto un progresso rilevante dal momento in cui, terminato “l’apprendistato”, ha preso a ridurre l’opportunità delle scelte. Anche Giacomo, da tempo, ha limitato l’ottica della sua ricerca a una metodologia operativa in grado di garantirgli quella sicurezza tecnica ed espressiva, rispondente alla personale poetica. Quale? La definizione dello spazio in senso pluridimensionale aprospettico, le cui radici storiche si perdono nelle vicende rappresentative interpretate dall’uomo e, quantomeno, sono presenti in ogni cultura che non adotti la rappresentazione prospettica, empirica o scientifica, oppure quella assonometrica, peculiare delle culture orientali. Il ‘900, dall’astrattismo concreto a quello segnico ha operato con tale finalità; però, per trovare un autore cui l’opera di Giacomo rimanda, è necessario fare il nome di Fernand Leger (1881/1955). Perché? Il pittore francese è quello che al meglio ha operato il sincretismo tra arte iconica e aniconica, facendole convivere. Mi riferisco, in particolare, alle sue opere degli anni ’40 e ’50 come Le quattro cicliste, Ragazza con pianta, Composizione con due farfalle per citarne qualcuna. Ebbene, Leger la pluridimensionalità la ottiene in due momenti: sul fondo staglia sagome cromatiche organico/geometriche e dopo, con il colore a olio, “disegna” la sua tipica figurazione a tratto, sintetica e fortemente comunicativa a volte integrata da cenni di chiaroscuro. Dico fortemente comunicativa, in quanto la scelta di ridurre a segno le immagini - stilisticamente in maniera personale - anticipa chiaramente la successiva esperienza della Pop art; in particolare, il riferimento esplicito si può individuare nei dipinti di Roy Lichtenstein (1923/1997).
Giacomo, come ogni artista è indotto a fare - la legge del buon Lavoisier (1743/1794), è valida in ogni ambito della ricerca: Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma - è dunque partito da tale “visione” storica della propria concezione poetico/visiva. A mio avviso quindi, la caratteristica del lavoro di Giacomo è inseribile, a pieno titolo, in questa linea evolutiva della ricerca artistica, e da par suo aggiunge un nuovo “mattone” a quella catena del DNA nell’incessante divenire di ogni cosa, compreso l’arte.
Nella mostra è presente il “polittico” composto di sei dipinti intitolati Affinità e un “dittico”: Angelo appeso e Grande taglio. Che cosa hanno queste opere di “nuovo” rispetto alle precedenti: sul piano della realizzazione niente, perché il procedimento è lo stesso (tinteggiatura “industriale” di sagome sul fondo e segno/disegno con pastello nero a olio che si sovrappone). E’ rispetto al soggetto e alla riduzione a icona, per esempio, delle sei Affinità, a intrigare chi intenda instaurare un rapporto non soltanto empatico ma speculativo al livello mentale. Questo perché le affinità proposte dall’artista scaturiscono da valenze percettive e simboliche. Per le prime possiamo costatare che il pittogramma del fiore - ognuno dalla tipologia diversa - si lega di volta in volta con gli altri per complementarità cromatica, per la tensione uniforme in tutte le direzioni (a causa della “deflagrazione” dei petali verso l’esterno del formato), e per la ritmicità delle cadenze rotatorie. Tutti elementi qualificanti gli esiti di una configurazione peculiare della grammatica visiva e hanno a che fare con le risultanze degli esiti estetici. Parlavo di pittogramma, è proprio qui l’elemento nuovo della figurazione messa in atto da Giacomo. Sappiamo bene che il pittogramma è un codice univoco - nel nostro caso quello del fiore - ma la stabilità del messaggio è elevata a concetto, e quindi a ideogramma o logogramma che dir si voglia, dal livello costituito dai segni a pastello. Nella pluridimensionalità, infatti, è il “transito” che interviene e in conseguenza, la seconda valenza di cui parlavo - quella simbolica - rafforza il codice comunicativo e il segnale non è più tautologico ma metaforico. Ecco allora spiegato il titolo della mostra: Pittogrammi nel tempo. Non soltanto la sequenza di sei affinità dell’insieme - “polittico” - denuncia l’elemento tempo, ma anche il “transito” dal disegno, alla parola; dall’immagine segnale della realtà inequivocabile (il fiore), all’altra realtà, quella simbolica. Infatti, i tratti a pastello sono sempre segni ma, questa volta, a ragion veduta, si possono definire degli ideogrammi: concetti, e quindi, parole. In merito alle associazioni, e dunque alle affinità “elettive” da scoprire, ognuno individuerà le proprie. Come ho già ricordato in altre occasioni, l’arte non risponde alle domande, ma le pone. Il saper rispondere è la logica, quanto la magia, che unisce l’opera con il proprio interlocutore e lo esorta a saper fa parlare l’immagine. Il dittico che nella sala della galleria fronteggia il polittico, pur in sintonia con il lavoro precedente di Giacomo ha, di nuovo, l’elemento dell’ambiguità: quella dello spazio. Angelo appeso, sul fondo presenta due “misure” inerenti, appunto, alla condizione spaziale: la forma gialla interpreta la vettorialità sinistra/destra - basso/alto, mentre la forma blu - in contrapposizione - suggerisce l’immagine di un oggetto plastico. Di nuovo due pittogrammi, questa volta sfuggenti e non assertivi. L’ideogramma invece, aiuta a legare il titolo alla rappresentazione, al teatro degli artefatti che l’artista ha predisposto. Dell’angelo, le ali appese di fronte a un’apertura: la porta del transito dall’invisibile al visibile? Il binomio simbolico proposto da Giacomo, induce a intessere un legame con l’opera e con il suo possibile significato, indubbiamente ambiguo ma l’arte, è anche questo: altro da sé!
Per Grande taglio, valgono le stesse considerazioni eccetto che, in questo caso, da un’apertura (di nuovo la porta) un segno ombelicale viene (da dove?) a definire dei tagli di cui quello più grande, è posto dietro/davanti (ancora ambiguità) all’elemento che per eccellenza rappresenta la natura: l’albero. Si capisce allora la domanda posta dall’opera: l’uomo con i suoi artifici, alla fine, darà un taglio decisivo al mondo in cui vive?
Giacomo Carnesecchi con questa mostra, a parer mio, intraprende un percorso di ricerca rispetto alle forme e ai significati sempre più coinvolgente e problematico. Perché oggi l’arte, come già è avvenuto in periodi storici precari come il nostro, ha il compito fondamentale di educare alla consapevolezza.
14
marzo 2015
Giacomo Carnesecchi – Pittogrammi nel tempo
Dal 14 marzo al 04 aprile 2015
arte contemporanea
Location
GALLERIA DEL LEONCINO
Pistoia, Via Della Madonna, 45, (Pistoia)
Pistoia, Via Della Madonna, 45, (Pistoia)
Orario di apertura
da mercoledì a sabato ore 16.30 - 19.00
Vernissage
14 Marzo 2015, ore 17.30
Autore
Curatore