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Gian Domenico Sozzi – Whispers
A volte predomina il rifiuto, anzi spesso. Si potrebbe fare una storia dei nostri sensi in negativo, ribrezzo tattile, ripulsa uditiva, rigetto gustativo, respingimento olfattivo e naturalmente ripudio visivo. Apparentemente il rifiuto visivo è quello più facile da applicare, è più facile chiudere le palpebre che eliminare dal nostro palato un sapore sgradito. Gian Domenico mi insegna a vedere cose che non vedo. Così le sue opere hanno anche loro cominciato a parlarmi, a uscire dal loro essere legno, polistirolo e ferro e a costringermi a osservarle in altro modo e un nuovo mondo di immaginazione si è aperto. Alessandro Porro
Comunicato stampa
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A volte predomina il rifiuto, anzi spesso. Si potrebbe fare una storia dei nostri sensi in negativo, ribrezzo tattile, ripulsa uditiva, rigetto gustativo, respingimento olfattivo e naturalmente ripudio visivo. Apparentemente il rifiuto visivo è quello più facile da applicare, è più facile chiudere le palpebre che eliminare dal nostro palato un sapore sgradito. Al cinema, con rapidità fulminea, si portano le mani agli occhi per non vedere una scena di violenza, uno sgozzamento improvviso, una tortura atroce. In realtà noi continuiamo a vedere quello che non vediamo, anzi passano nella nostra mente immagini forse ben peggiori di quelle che scorrono sullo schermo.
Quante volte capita che passeggiando con un amico non percepiamo un dettaglio, non vediamo un personaggio curioso che ci taglia la strada e solo il richiamo repentino di chi è con noi ci riporta a vedere. Quante volte scrutando i cieli d’estate non vediamo una stella cadente che invece il nostro compagno di ozi notturni raccoglie fulmineo ed è, beato, libero di esprimere un desiderio. Forse la visione, dei nostri sensi, è quella più vicina alla mente e al pensiero. Vedere e pensare viaggiano insieme e forse la mancanza di percezione coincide con un momento di estrema pigrizia e spossatezza del pensiero. A questa afasia del pensiero si riferisce Edipo scagliandosi furente contro Tiresia e gridando: “tu sei cieco non solo negli occhi, nelle orecchie, ma nella mente”, ma è il cieco Tiresia colui che vede veramente. D’altra parte senza dover scomodare i vertici della poesia tragica anche occhio non vede cuore non duole ha una sua magnifica, brutale, scorticante verità.. Ho conosciuto Gian Domenico Sozzi in Sicilia, anche se entrambi abitiamo a Milano, a un tiro di schioppo l’uno dall’altro e abbiamo amici in comune. L’incontro è stato facile, la conversazione dopo una partenza a sobbalzi, ha proceduto speditamente. Per continuare con metafore sensoriali: come quei cani che prima si annusano, raggiungono il climax olfattivo e poi si allontanano trottando in cerca di avventure. Crescendo l’amicizia Gian Domenico mi faceva notare la luce particolare di un’ora meridiana, le increspature della terra riarsa, la lucentezza delle foglie degli agrumi, gli iris blu che crescono rasoterra sui promontori marini, il profumo di fiori bianchi dal nome sconosciuto.
Riconosce il canto degli uccelli con sorprendente prontezza e a bruciapelo mi chiede il nome dei volatili, io totalmente impreparato sparo a caso dei nomi annaspando tra zirlare, zufolare, sibilare, ma non azzecco il torraiolo, il fischione o la semplice allodola.
Non tanto facile, invece, il rapporto con le sue opere. Rami sbianchiti dalla salsedine, polistirolo, lamiere, ferri arrugginiti, chiamati a significare qualcosa che non riuscivo a capire, anzi quasi irritanti nella loro muta protervia, nella sfida a non lasciar carpire la loro lingua. Questo muto chiacchiericcio di materiali diversi, ognuno con il suo incomprensibile dialetto non mi ha impedito di rimanere colpito dal suo video Brava. Lì sì la voce di Shirley Verret si sentiva e la protervia di Lady Macbeth non lasciava dubbi.
Ci siamo ritrovati all’ultima biennale. Dovevamo incontrarci all’Arsenale. Non ero ben disposto verso la mostra, non ero in sintonia con la contemporaneità. Lungo il tragitto fui trascinato dal desiderio di entrare in San Giovanni in Bràgora. La luminosità senza tempo del Battesimo di Cima da Conegliano mi riconciliò col mondo. Le sponde erbose, gli uccelli acquatici, la serenità infinita della scena, mi rendevano più tranquillo, ma al contempo più incattivito da quello che stavo per andare a vedere. Accumulando ritardo su ritardo, feci all’Arsenale il mio percorso solitario. Quando finalmente incontrai Gian Domenico, mi parlò entusiasta del lavoro che consisteva in un coro maschile che imitava il canto degli uccelli. Un concerto di zirlii e cinguettii che non avevo nemmeno notato. Mi resi conto con dispiacere di questa mia sordità e cecità, mentre anche gli uccelli acquatici di Cima da Conegliano volavano via dai miei occhi. Ripensandoci a distanza di tempo, mi rendo conto che Gian Domenico mi insegna a vedere cose che non vedo. Così le sue opere hanno anche loro cominciato a parlarmi, a uscire dal loro essere legno, polistirolo e ferro e a costringermi a osservarle in altro modo e un nuovo mondo di immaginazione si è aperto:
O immaginativa che ne rube
Talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
Perché d’intorno suonin mille tube
Chi muove te se ‘l senso non si porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa
Alessandro Porro
Quante volte capita che passeggiando con un amico non percepiamo un dettaglio, non vediamo un personaggio curioso che ci taglia la strada e solo il richiamo repentino di chi è con noi ci riporta a vedere. Quante volte scrutando i cieli d’estate non vediamo una stella cadente che invece il nostro compagno di ozi notturni raccoglie fulmineo ed è, beato, libero di esprimere un desiderio. Forse la visione, dei nostri sensi, è quella più vicina alla mente e al pensiero. Vedere e pensare viaggiano insieme e forse la mancanza di percezione coincide con un momento di estrema pigrizia e spossatezza del pensiero. A questa afasia del pensiero si riferisce Edipo scagliandosi furente contro Tiresia e gridando: “tu sei cieco non solo negli occhi, nelle orecchie, ma nella mente”, ma è il cieco Tiresia colui che vede veramente. D’altra parte senza dover scomodare i vertici della poesia tragica anche occhio non vede cuore non duole ha una sua magnifica, brutale, scorticante verità.. Ho conosciuto Gian Domenico Sozzi in Sicilia, anche se entrambi abitiamo a Milano, a un tiro di schioppo l’uno dall’altro e abbiamo amici in comune. L’incontro è stato facile, la conversazione dopo una partenza a sobbalzi, ha proceduto speditamente. Per continuare con metafore sensoriali: come quei cani che prima si annusano, raggiungono il climax olfattivo e poi si allontanano trottando in cerca di avventure. Crescendo l’amicizia Gian Domenico mi faceva notare la luce particolare di un’ora meridiana, le increspature della terra riarsa, la lucentezza delle foglie degli agrumi, gli iris blu che crescono rasoterra sui promontori marini, il profumo di fiori bianchi dal nome sconosciuto.
Riconosce il canto degli uccelli con sorprendente prontezza e a bruciapelo mi chiede il nome dei volatili, io totalmente impreparato sparo a caso dei nomi annaspando tra zirlare, zufolare, sibilare, ma non azzecco il torraiolo, il fischione o la semplice allodola.
Non tanto facile, invece, il rapporto con le sue opere. Rami sbianchiti dalla salsedine, polistirolo, lamiere, ferri arrugginiti, chiamati a significare qualcosa che non riuscivo a capire, anzi quasi irritanti nella loro muta protervia, nella sfida a non lasciar carpire la loro lingua. Questo muto chiacchiericcio di materiali diversi, ognuno con il suo incomprensibile dialetto non mi ha impedito di rimanere colpito dal suo video Brava. Lì sì la voce di Shirley Verret si sentiva e la protervia di Lady Macbeth non lasciava dubbi.
Ci siamo ritrovati all’ultima biennale. Dovevamo incontrarci all’Arsenale. Non ero ben disposto verso la mostra, non ero in sintonia con la contemporaneità. Lungo il tragitto fui trascinato dal desiderio di entrare in San Giovanni in Bràgora. La luminosità senza tempo del Battesimo di Cima da Conegliano mi riconciliò col mondo. Le sponde erbose, gli uccelli acquatici, la serenità infinita della scena, mi rendevano più tranquillo, ma al contempo più incattivito da quello che stavo per andare a vedere. Accumulando ritardo su ritardo, feci all’Arsenale il mio percorso solitario. Quando finalmente incontrai Gian Domenico, mi parlò entusiasta del lavoro che consisteva in un coro maschile che imitava il canto degli uccelli. Un concerto di zirlii e cinguettii che non avevo nemmeno notato. Mi resi conto con dispiacere di questa mia sordità e cecità, mentre anche gli uccelli acquatici di Cima da Conegliano volavano via dai miei occhi. Ripensandoci a distanza di tempo, mi rendo conto che Gian Domenico mi insegna a vedere cose che non vedo. Così le sue opere hanno anche loro cominciato a parlarmi, a uscire dal loro essere legno, polistirolo e ferro e a costringermi a osservarle in altro modo e un nuovo mondo di immaginazione si è aperto:
O immaginativa che ne rube
Talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
Perché d’intorno suonin mille tube
Chi muove te se ‘l senso non si porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa
Alessandro Porro
03
ottobre 2009
Gian Domenico Sozzi – Whispers
Dal 03 ottobre al 26 novembre 2009
arte contemporanea
Location
FRANCESCO PANTALEONE ARTECONTEMPORANEA (sede chiusa)
Palermo, Piazzetta Garraffello, 25, (Palermo)
Palermo, Piazzetta Garraffello, 25, (Palermo)
Orario di apertura
giovedì dalle 16 alle 20, gli altri giorni su appuntamento
Vernissage
3 Ottobre 2009, dalle 19 alle 21
Autore
Curatore