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Giancarlo Bonacorsi / Renato De Marco – Questioni di forme
Due artisti all’apparenza molto diversi, come stile, come carattere, come scelte espressive. Antitetici per alcuni versi, verrebbe da dire tanto è netto nei tagli uno, l’altro sfumato e “sporco”, tanto proiettato il primo nella modernità, l’altro attratto da un passato che si perde nella geologia.
Comunicato stampa
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Eppure questa dialettica vibrante che si crea percorrendo la mostra racconta una storia unica, una ricerca che al fondo ha delle consonanze, delle pulsioni affini, che sono poi le pulsioni del fare artistico, gli stimoli di una ricerca.Renato De Marco è architetto di Fanna ma la sua vocazione pittorica precorre il corso regolare di studi che è diventata la sua professione. Le sue opere sono quadri, sculture, e la differenza è a volte solo di comodo: la lavorazione a tutto tondo di certi obelischi non segna fratture nette rispetto ai quadri che, realizzati come sono su compatti supporti di legno, spessi alcuni centimetri e lavorati a volte con le stesse tecniche della scultura, sono a tutti gli effetti sculture appese. Il legno massello, incollato ad hoc e carico di una sapienza artigiana e di una definizione geometrica che non lascia spazio a dubbi (quadrato, pura forma essenziale), viene lavorato con il disco abrasivo, solcato con precisione da mano ferma a tagli paralleli e obliqui in modo che l'incisione penetri nella forma, che il solco "bruci" per attrito la materia chiamandola fuori dalla sua immobile geometria. Il solco-ferita diventa texture, diventa fatto estetico, macro vibrazione della superficie, ma non perdiamo il gesto del tagliare, dell'incidere, che è gesto forte e provocatorio rispetto all'immobilità delle cose. Tracciare linee è gesto originario che richiama i gromatici latini, le teodoliti moderne, l'aratura, ma indica ad un tempo la "colonizzazione" di un territorio, dello spazio in senso lato, nel caso di De Marco vissuta proprio come gesto fisico e intellettuale insieme, un'aratura della superficie geometrica fatta col pensiero, verrebbe da dire. Il taglio che noi operiamo sembra chiamare in causa altri livelli, scavarli fuori a forza, è lo sforzo di andare oltre l'apparenza che non dice nulla o che non dà risposte soddisfacenti nella sua terrificante orizzontalità che è silenzio.
Il secondo intervento dell'artista ritaglia delle aree nettamente delimitate, sovrapposte alle zone incise, e lì stende lo smalto. Colori decisi, lucidi ma capaci di vibrare al variare dell'inclinazione, capaci di muovere in micro onde, micro vibrazioni cromatiche questa volta, la superficie già violata e provocata. Sul massello iniziale ha luogo una battaglia: naturale vs dipinto, liscio vs inciso, opaco vs lucido, a volte legno vs ferro. E' un gioco di dualismi che assume a tratti una forza di evocazione che chiama in causa dualismi classici, lo yin-yang di certe sculture per esempio.
E' una costruzione complessa, come si vede, che parte dal legno, pura natura, hyle primigenia silente, e scava piani, traccia linee, crea aree per pura forza cromatica, fa cultura su un fondo che aveva l'indistinto della natura indistinta.
E' una costruzione che avviene fuori dal tempo, in una sorta di sfida metafisica per cui l'uomo, architetto e artista ad un tempo, cerca con il gesto (taglio), con la geometria delle linee e delle proporzioni, con l'emozione del colore di rendere abitabile (accettabile? vivibile? sopportabile?) una forma troppo astratta e troppo grezza a un tempo per essere abitata.
Dentro il tempo, ossessivamente immersa anche quando meno sembra nel mistero del tempo, è l'opera di Bonacorsi, nato come disegnatore, illustratore, formato in un suo lungo soggiorno americano e in una continua ricerca portata avanti con determinanazione ma in posizioni ritirate e schive in quel di Buia. Il tempo è lunghissimo nella percezione di Bonacorsi che fra le varie attività eclettiche ha lavorato per anni come restauratore di fossili. Strano mestiere che già rinvia a una contraddizione suggestiva se solo pensiamo alla bizzarria di voler "aggiustare" quello che da ere geologiche non esiste più, che il tempo ha ridotto a puro calco, effigie vuota e sepolta di un corpo. Eppure il rapporto con la pittura è più stretto di quanto si pensi perché lo spunto, stando ai racconti di Giancarlo, nasce quasi sempre dall'osservazione di un calco, una pietra che per qualcun altro sarebbe nulla ma in cui egli sa riconoscere una mandibola, un palato, un qualche organo un tempo vitale ma ora schiacciato e svuotato dal tempo e dalla morte. Eppure i suoi quadri, la maggior parte almeno, sono composizione di forme elementari, spesso esagoni schiacciati, sovrapposti, sfumati a bordi, di quei colori terrosi che sono la sua cifra specifica. La suggestione è qui, in questa straniante compresenza di forma e corpo svuotato, in questa idea inquietante che la forma sostituisce il contenuto, che dalla traccia al massimo ti è dato intravedere un contenuto, perso per sempre. Che la forma a volte è così anonima, lontana, da non aver più alcun legame con il contenuto, se non forse per un occhio esperto. Questa idea delle forme vuote, dei contenitori "residuali", come una traccia che possiamo stringere dopo un naufrago delle cose avvenuto chissà dove e chissà quando, resta costante anche nelle altre serie di Bonacorsi: penso ad alcuni quadri che raffigurano guanti, appesi accartocciati, forma di mani che non li indossano più, o in una bella serie che trae spunto da pacchetti di sigarette accartocciati, buttati via, ancora una volta contenitori di nulla. Fuori dall'uso concreto, dopo lo svuotamento, quando le cose di fatto non sono più, l'artista va a ricercare nel vuoto cosa era prima, cosa era l'essenza svanita o cosa resta di questo dramma della fine delle cose.
Colpisce in Bonacorsi anche la serialità con cui lavora su un tema, riproposto e rielaborato infinite volte variando cromatismi, posizioni, quasi che a giocare con le forme, come dice lui, prima o poi emerga per miracolo un qualche contenuto. Stupisce la contiguità fra atto pittorico e oggetto, quando davanti alla tela astratta maneggia impronte fossili con improbabili "palati di razza" fossili, o altrettanto improbabili denti di pesce, pretesti e a un tempo stesso oggetti concreti originari, archetipali nel senso del tempo, geologico addirittura. Una contiguità fra pietra e vita, la sensazione che un senso, magari di morte, noi umani lo si possa ritrovare solo là, a contatto con l'inanimato, il cristallizzato, traspare per altro verso anche in certi quadri meravigliosi dedicati al padre, quadri di grandi dimensioni e caravaggeschi quanto a uso della luce, vien da dire, in cui giocando con neri, bianchi e grigi si ragiona di malattia, di silicosi, di pietre che ci invadono i polmoni e soffocano il respiro, la vita. In questo scavo i colori sono anch'essi terra, quasi per evitare ogni interferenza, ogni materiale estraneo che possa viziare i risultati dell'esperimento. Dopo l'essenzialità delle matite da cui è partito, oggi è la stagione degli ocra: bianchi, neri, grigi, marroni, questa la tavolozza di Bonacorsi, con qualche concessione minima ai colori della modernità, appena accennati con pudore. Perché il tempo, dicevo, è ben più lungo dell'oggi, e i colori svaniscono in tracce, le tracce in nulla.
Due ricerche personalissime, come si vede, ma che si incontrano, a mio vedere in diversi punti, magari sfociando alla stessa piazza o percorrendo strade complementari. Intanto l'idea della forma, l'idea che essa nasconda un mistero, vuoi quello della geometria vuoi quello del tempo. L'idea che solo scavando, lavorando senza posa sulle forme, scalfendole o restaurandole, inventandole o riproducendole si possa creare o rievocare un contenuto che ancora non è o che non è più.
Complementare è la ricerca, intellettuale da un lato, fatta di aree, linee, proporzioni che la ragione crea con orgoglio e lucidità, quanto l'altro è fatta di suggestioni, segni esistenti da decifrare con umiltà, pazienza, per approssimazione. Complementari i colori, tanto brillanti e smaltati, lucidi di invenzione i primi, quanto asciutti, terrosi i secondi, e complementari i segni, definiti e definitivi, tagliati, netti quelli di De Marco, sfumati, sfocati e approssimativi quelli di Bonacorsi, come approssimative sono le tracce che sopravvivono nel tempo. Due percorsi, di due persone che non si conoscono nemmeno da lontano, accostati un po' per caso in questa faticosa strada che è la ricerca, quella ricerca che siamo soliti chiamare arte.
Paolo Venti
Il secondo intervento dell'artista ritaglia delle aree nettamente delimitate, sovrapposte alle zone incise, e lì stende lo smalto. Colori decisi, lucidi ma capaci di vibrare al variare dell'inclinazione, capaci di muovere in micro onde, micro vibrazioni cromatiche questa volta, la superficie già violata e provocata. Sul massello iniziale ha luogo una battaglia: naturale vs dipinto, liscio vs inciso, opaco vs lucido, a volte legno vs ferro. E' un gioco di dualismi che assume a tratti una forza di evocazione che chiama in causa dualismi classici, lo yin-yang di certe sculture per esempio.
E' una costruzione complessa, come si vede, che parte dal legno, pura natura, hyle primigenia silente, e scava piani, traccia linee, crea aree per pura forza cromatica, fa cultura su un fondo che aveva l'indistinto della natura indistinta.
E' una costruzione che avviene fuori dal tempo, in una sorta di sfida metafisica per cui l'uomo, architetto e artista ad un tempo, cerca con il gesto (taglio), con la geometria delle linee e delle proporzioni, con l'emozione del colore di rendere abitabile (accettabile? vivibile? sopportabile?) una forma troppo astratta e troppo grezza a un tempo per essere abitata.
Dentro il tempo, ossessivamente immersa anche quando meno sembra nel mistero del tempo, è l'opera di Bonacorsi, nato come disegnatore, illustratore, formato in un suo lungo soggiorno americano e in una continua ricerca portata avanti con determinanazione ma in posizioni ritirate e schive in quel di Buia. Il tempo è lunghissimo nella percezione di Bonacorsi che fra le varie attività eclettiche ha lavorato per anni come restauratore di fossili. Strano mestiere che già rinvia a una contraddizione suggestiva se solo pensiamo alla bizzarria di voler "aggiustare" quello che da ere geologiche non esiste più, che il tempo ha ridotto a puro calco, effigie vuota e sepolta di un corpo. Eppure il rapporto con la pittura è più stretto di quanto si pensi perché lo spunto, stando ai racconti di Giancarlo, nasce quasi sempre dall'osservazione di un calco, una pietra che per qualcun altro sarebbe nulla ma in cui egli sa riconoscere una mandibola, un palato, un qualche organo un tempo vitale ma ora schiacciato e svuotato dal tempo e dalla morte. Eppure i suoi quadri, la maggior parte almeno, sono composizione di forme elementari, spesso esagoni schiacciati, sovrapposti, sfumati a bordi, di quei colori terrosi che sono la sua cifra specifica. La suggestione è qui, in questa straniante compresenza di forma e corpo svuotato, in questa idea inquietante che la forma sostituisce il contenuto, che dalla traccia al massimo ti è dato intravedere un contenuto, perso per sempre. Che la forma a volte è così anonima, lontana, da non aver più alcun legame con il contenuto, se non forse per un occhio esperto. Questa idea delle forme vuote, dei contenitori "residuali", come una traccia che possiamo stringere dopo un naufrago delle cose avvenuto chissà dove e chissà quando, resta costante anche nelle altre serie di Bonacorsi: penso ad alcuni quadri che raffigurano guanti, appesi accartocciati, forma di mani che non li indossano più, o in una bella serie che trae spunto da pacchetti di sigarette accartocciati, buttati via, ancora una volta contenitori di nulla. Fuori dall'uso concreto, dopo lo svuotamento, quando le cose di fatto non sono più, l'artista va a ricercare nel vuoto cosa era prima, cosa era l'essenza svanita o cosa resta di questo dramma della fine delle cose.
Colpisce in Bonacorsi anche la serialità con cui lavora su un tema, riproposto e rielaborato infinite volte variando cromatismi, posizioni, quasi che a giocare con le forme, come dice lui, prima o poi emerga per miracolo un qualche contenuto. Stupisce la contiguità fra atto pittorico e oggetto, quando davanti alla tela astratta maneggia impronte fossili con improbabili "palati di razza" fossili, o altrettanto improbabili denti di pesce, pretesti e a un tempo stesso oggetti concreti originari, archetipali nel senso del tempo, geologico addirittura. Una contiguità fra pietra e vita, la sensazione che un senso, magari di morte, noi umani lo si possa ritrovare solo là, a contatto con l'inanimato, il cristallizzato, traspare per altro verso anche in certi quadri meravigliosi dedicati al padre, quadri di grandi dimensioni e caravaggeschi quanto a uso della luce, vien da dire, in cui giocando con neri, bianchi e grigi si ragiona di malattia, di silicosi, di pietre che ci invadono i polmoni e soffocano il respiro, la vita. In questo scavo i colori sono anch'essi terra, quasi per evitare ogni interferenza, ogni materiale estraneo che possa viziare i risultati dell'esperimento. Dopo l'essenzialità delle matite da cui è partito, oggi è la stagione degli ocra: bianchi, neri, grigi, marroni, questa la tavolozza di Bonacorsi, con qualche concessione minima ai colori della modernità, appena accennati con pudore. Perché il tempo, dicevo, è ben più lungo dell'oggi, e i colori svaniscono in tracce, le tracce in nulla.
Due ricerche personalissime, come si vede, ma che si incontrano, a mio vedere in diversi punti, magari sfociando alla stessa piazza o percorrendo strade complementari. Intanto l'idea della forma, l'idea che essa nasconda un mistero, vuoi quello della geometria vuoi quello del tempo. L'idea che solo scavando, lavorando senza posa sulle forme, scalfendole o restaurandole, inventandole o riproducendole si possa creare o rievocare un contenuto che ancora non è o che non è più.
Complementare è la ricerca, intellettuale da un lato, fatta di aree, linee, proporzioni che la ragione crea con orgoglio e lucidità, quanto l'altro è fatta di suggestioni, segni esistenti da decifrare con umiltà, pazienza, per approssimazione. Complementari i colori, tanto brillanti e smaltati, lucidi di invenzione i primi, quanto asciutti, terrosi i secondi, e complementari i segni, definiti e definitivi, tagliati, netti quelli di De Marco, sfumati, sfocati e approssimativi quelli di Bonacorsi, come approssimative sono le tracce che sopravvivono nel tempo. Due percorsi, di due persone che non si conoscono nemmeno da lontano, accostati un po' per caso in questa faticosa strada che è la ricerca, quella ricerca che siamo soliti chiamare arte.
Paolo Venti
12
marzo 2011
Giancarlo Bonacorsi / Renato De Marco – Questioni di forme
Dal 12 al 26 marzo 2011
arte contemporanea
Location
CENTRO CULTURALE ALDO MORO
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Orario di apertura
da lunedì al sabato ore 16 - 19
Vernissage
12 Marzo 2011, ore 18.00
Autore
Curatore