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Giancarlo Veneri – La fiaba inquieta
E’ una galleria di oggetti, quelli di Veneri, dove tutto appare diverso e frammentario, ma dove tutto è anche ininterrotto, coerente, segretamente plausibile
Comunicato stampa
Segnala l'evento
In un breve frammento poetico del 1997, Alessandro Mozzambani testimone diretto del
percorso artistico di Giancarlo Veneri (Verona 1943 – 2007) parlava di un “suggeritore
di testi mai scritti, di scenografie / immaginifiche, di commedie per fantasmi / eccentrici”.
E, osservando alcune delle opere dell’artista veronese (da No war, fatto di lance di
legno colorate a Baba Yaga, sequenza stregonesca di stazioni che si rifà ad una oscura
e misteriosa fiaba russa), si ha davvero la sensazione che l’obiettivo del suo lavoro
sia quello di produrre una sorta di plausibilità dell’assurdo, di imprevedibilità del luogo
comune, di eternità dell’istante. Un po’ come in Borges o Pessoa o Calvino. E’ una
galleria di oggetti, quelli di Veneri, dove tutto appare diverso e frammentario, ma dove
tutto è anche ininterrotto, coerente, segretamente plausibile. Egli non ricorre ad immagini
improbabili e irriverenti, al rifiuto radicale di Dada. In fondo non può neppure essere
considerato un avanguardista tout court. E’ rimasto nel solco della tradizione, usando i
suoi stessi modi, ma per colpirla dal di dentro con più sottile crudeltà. Lo spirito della sua
creatività sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde o, meglio, in quel tanto
che si annida alle spalle delle mille cose e delle mille immagini che egli ama raccogliere,
modellare, trasformare. Non è forse, il suo, un mondo che continua nell’opera, un mondo
che s’iscrive nei “luoghi” dell’opera, per analogia, per similitudine, attraverso la metafora, il
simbolo, la citazione? E’ un po’ come cercare di prolungarne con sottile humour e ironia il
ricordo o, anche, intuirne l’altra faccia: non quella che non c’è, ma quella che non si vede
(o non sappiamo più vedere, in quanto accecati da un eccesso di visibilità).
C’è chi ha accostato le testimonianze oggettive camuffate da escursioni avventurose
di Veneri alla Pop Art o all’Arte Povera. Ma la Pop voleva desimbolizzare l’oggetto,
dargli l’opacità e l’ottusa caparbietà di un fatto. Veneri cerca invece di rivestire le sue
cianfrusaglie (o le sue messinscena) di simboli, come venissero da profondità insondabili e
non avessero ancora finito di comunicare messaggi. I “cuori” di Jim Dine, ad esempio, non
escono mai dallo schema del ricalco, dello stampino, del segnale pubblicitario, il Cuore
rosso di Veneri al contrario si copre di una pittura fatta di sussulti acidi e tempestosi;
soprattutto porta al proprio centro un viluppo di fili di ferro arrugginito che testimonia il
passare del tempo, delle memorie, delle storie (vissute o solo sognate).
Lo stesso artista in una lontana intervista dichiarava: “Per me il materiale è importante.
Ogni materiale ha una sua vitalità propria, e allora scoprire questa sua vitalità e adoperarla
fa parte della mia azione per ricavarne degli stati di tensione”. Come dire che l’obiettivo
è quello di lavorare alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle.
Intenzione, questa sì, prossima al Poverismo. Solo che Veneri ha un modo tutto suo di
interpretarlo e svilupparlo. Non “lascia intatto il valore dell’esistenza delle cose”, ma le
interroga, le apre, le moltiplica, nella convinzione di arrivare al senso nascosto da cui
prende avvio ogni evento. Fare arte allora si identifica con la vita ed esistere assume il
significato di reinventare ad ogni istante una dimensione fantastica, stupirsi per ogni fatto
( per il reale, l’irreale, il logico, la follia, l’infinito, la magia). “La fiaba” del titolo trova qui la
sua giustificazione: è l’avventura inesausta dello scoprire, del viaggiare verso mete che
non si conoscono, del saggiare come un equilibrista l’ardire dell’acrobazia. Sapendo, con
inquietudine, che non ci sarà soluzione, ma solo la possibilità di stare al gioco e nel gioco.
percorso artistico di Giancarlo Veneri (Verona 1943 – 2007) parlava di un “suggeritore
di testi mai scritti, di scenografie / immaginifiche, di commedie per fantasmi / eccentrici”.
E, osservando alcune delle opere dell’artista veronese (da No war, fatto di lance di
legno colorate a Baba Yaga, sequenza stregonesca di stazioni che si rifà ad una oscura
e misteriosa fiaba russa), si ha davvero la sensazione che l’obiettivo del suo lavoro
sia quello di produrre una sorta di plausibilità dell’assurdo, di imprevedibilità del luogo
comune, di eternità dell’istante. Un po’ come in Borges o Pessoa o Calvino. E’ una
galleria di oggetti, quelli di Veneri, dove tutto appare diverso e frammentario, ma dove
tutto è anche ininterrotto, coerente, segretamente plausibile. Egli non ricorre ad immagini
improbabili e irriverenti, al rifiuto radicale di Dada. In fondo non può neppure essere
considerato un avanguardista tout court. E’ rimasto nel solco della tradizione, usando i
suoi stessi modi, ma per colpirla dal di dentro con più sottile crudeltà. Lo spirito della sua
creatività sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde o, meglio, in quel tanto
che si annida alle spalle delle mille cose e delle mille immagini che egli ama raccogliere,
modellare, trasformare. Non è forse, il suo, un mondo che continua nell’opera, un mondo
che s’iscrive nei “luoghi” dell’opera, per analogia, per similitudine, attraverso la metafora, il
simbolo, la citazione? E’ un po’ come cercare di prolungarne con sottile humour e ironia il
ricordo o, anche, intuirne l’altra faccia: non quella che non c’è, ma quella che non si vede
(o non sappiamo più vedere, in quanto accecati da un eccesso di visibilità).
C’è chi ha accostato le testimonianze oggettive camuffate da escursioni avventurose
di Veneri alla Pop Art o all’Arte Povera. Ma la Pop voleva desimbolizzare l’oggetto,
dargli l’opacità e l’ottusa caparbietà di un fatto. Veneri cerca invece di rivestire le sue
cianfrusaglie (o le sue messinscena) di simboli, come venissero da profondità insondabili e
non avessero ancora finito di comunicare messaggi. I “cuori” di Jim Dine, ad esempio, non
escono mai dallo schema del ricalco, dello stampino, del segnale pubblicitario, il Cuore
rosso di Veneri al contrario si copre di una pittura fatta di sussulti acidi e tempestosi;
soprattutto porta al proprio centro un viluppo di fili di ferro arrugginito che testimonia il
passare del tempo, delle memorie, delle storie (vissute o solo sognate).
Lo stesso artista in una lontana intervista dichiarava: “Per me il materiale è importante.
Ogni materiale ha una sua vitalità propria, e allora scoprire questa sua vitalità e adoperarla
fa parte della mia azione per ricavarne degli stati di tensione”. Come dire che l’obiettivo
è quello di lavorare alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle.
Intenzione, questa sì, prossima al Poverismo. Solo che Veneri ha un modo tutto suo di
interpretarlo e svilupparlo. Non “lascia intatto il valore dell’esistenza delle cose”, ma le
interroga, le apre, le moltiplica, nella convinzione di arrivare al senso nascosto da cui
prende avvio ogni evento. Fare arte allora si identifica con la vita ed esistere assume il
significato di reinventare ad ogni istante una dimensione fantastica, stupirsi per ogni fatto
( per il reale, l’irreale, il logico, la follia, l’infinito, la magia). “La fiaba” del titolo trova qui la
sua giustificazione: è l’avventura inesausta dello scoprire, del viaggiare verso mete che
non si conoscono, del saggiare come un equilibrista l’ardire dell’acrobazia. Sapendo, con
inquietudine, che non ci sarà soluzione, ma solo la possibilità di stare al gioco e nel gioco.
27
aprile 2014
Giancarlo Veneri – La fiaba inquieta
Dal 27 aprile al 27 maggio 2014
arte contemporanea
Location
(G)LOVEBANK
Sant'ambrogio Di Valpolicella, Piazza Della Pieve, 14, (Verona)
Sant'ambrogio Di Valpolicella, Piazza Della Pieve, 14, (Verona)
Orario di apertura
giov, ven, sab 16-19 (e su appuntamento: cell 339 2533287)
Vernissage
27 Aprile 2014, ore 11
Autore
Curatore