Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Gianfranco Bonetti 1947–2007
Il tratto universale dei personaggi di Bonetti è la solitudine. Per lo più il bergamasco dipingeva un’unica figura silenziosa e abbandonata anche nell’atteggiamento. In poltrona o per terra, con una gamba accavallata, persa nelle proprie ricognizioni sulla vita
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Presentazione: Una disperata eternità di Anna Caterina Bellati
Era stata Dolores Previtali, scultrice di grande compostezza formale e intensa forza evocativa, a farmi conoscere Gianfranco Bonetti. Quel pomeriggio lui ci aspettava in cima alle scale con addosso un largo maglione slabbrato e lo sguardo tra l’ironico e il diffidente. Descrivere il suo studio è quasi impossibile, c’era roba ovunque. Libri invecchiati sul posto, alcuni neanche tolti dal cellophane, cartoni vuoti con dentro rotoli di spago e pennelli, cornici scrostate, pezzi di masonite appoggiati alle pareti, qualche mobile seppellito sotto montagne di carte, bottiglie vuote, blocchi per schizzi, bicchieri, cataloghi di vecchie mostre. In questo labirinto navigavano quattro o cinque sedie, due senza una gamba. Bonetti sembrava rallegrato da quella visita senza preavviso, la dolcezza di Dolores lo rassicurava sulla presenza degli altri ospiti, oltre a me, Antonio, marito dell’artista bergamasca e fine conoscitore d’arte. Mentre ci faceva accomodare, cercava di mettere un po’ d’ordine scaraventando qualunque cosa gli capitasse fra le mani in una grande scatola di latta vicino alla finestra e intanto spiegava che era tutta colpa della donna delle pulizie, la quale da giorni non si faceva vedere. Ma non eravamo andati a trovarlo per monitorare la polvere, ci interessavano semmai i suoi disegni in vista di una mostra. Rovistando qua e là con gli occhi, mentre la conversazione prendeva l’avvio, cercavo di scoprire qualche dipinto dimenticato nel bailamme, o uno dei suoi molti autoritratti. Ma in quella stanza oblunga non ce n’erano. Ci sono artisti consapevoli del valore di ciò che producono, perciò con saggezza non ne abusano esibendosi di continuo. Tuttavia Bonetti lo scontroso, così me lo avevano descritto, si era accorto da un pezzo della mia indagine silenziosa. “Quadri miei qui non ne ho”, disse interrompendo il discorso su un’amica della quale lui e Dolores condividevano stima e affetto, Alda Merini. Più tardi, cedendo al mio desiderio, si alzò in piedi e fece segno di seguirlo. A sinistra c’era una cameretta stracolma di lavori di diverso formato, se ne indovinava la sagoma nella penombra. Bonetti fece scattare l’interruttore sul muro, ma non successe niente. “Deve essersi bruciata la lampadina”, spiegò. Al buio si fece largo nel santuario-caverna e ne emerse qualche istante dopo con tre lavori pescati nel mucchio. C’era un pastello appiccicato a un cartone che ritraeva un uomo vestito di rosso appollaiato dentro una poltrona. Il paragone scattò immediato. La faccia bianchissima da sonnambulo cittadino e lo sfondo notturno appena strisciato di tracce ocra, lo collocavano tra le figure più classiche di Francis Bacon (Dublino, 1909 - Madrid,1992), il maestro con cui tanta parte della ritrattistica contemporanea ha dovuto fare i conti. Quell’omuncolo avrebbe potuto essere l’artista o chiunque, durante molte notti insonni, avesse perso la pietà verso se stesso e i propri simili. Al punto da sapere con assoluta certezza che la disperazione è la costante alla base della nostra esistenza. Bonetti possedeva una lucidità febbrile, la sua pittura prendeva fiato da un moto sotterraneo, un rancore rappreso contro la vanità ridicola di chi pensa d’avere raggiunto una meta perché ha acquistato un’auto potente, o agghindato la propria moglie con gioielli costosi. Nelle stanze disadorne dei suoi dipinti si sente l’odore stantio del fumo rappreso e si avverte che la porta è sprangata ai visitatori. Bonetti sputava con rara maestria su tutti i simboli della società capitalista, la ricchezza, la fama, l’inseguimento di un’eternità esteriore. I suoi personaggi avvolti da una luce abbacinante, misteriosi eppure familiari per quel tratto rapido e furioso che li inchioda a una fisionomia precisa, sono tutti reali, ma l’artista li ritrae più vecchi e più brutti di quanto non fossero per davvero. Quasi fantasmi di un mondo ancorato controvoglia al quotidiano, incarnano i vizi, le passioni, la crudeltà, ma anche le debolezze, i dubbi, la fragilità della razza umana. Mentre in sordina risuona l’ironia feroce del pittore che impone la regola dell’unica verità possibile, la vita è quasi sempre schifosa, peggio per voi se vi ostinate a negarlo. E c’è un secondo virtuosismo che rende la pittura di Bonetti vicina a quella dell’irlandese, la trasformazione che il soggetto subisce nel passaggio dall’esistenza esteriore nel mondo, a quella virtuale nel dipinto. Al bergamasco non interessava raccontare la storia di una certa persona, si serviva semmai della sua faccia come strumento per dire a gran voce la precarietà di ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero.
Dopo quella volta ci incontrammo ancora, ma negli ultimi anni si era lasciato assorbire dal male di vivere e non sembrava più volersi occupare né dei suoi quadri accatastati l’uno sull’altro, né dell’umanità varia che vi albergava, amanti, amiche, colleghi, scrittori, collezionisti. Quasi indifferente al consorzio umano, Bonetti, acuto e sicuro di sé quando si misurava con la forza smisurata della pittura, ha vissuto con durezza il proprio destino di albatrós incapace di camminare con destrezza fra la gente qualunque. Questa retrospettiva propone una prima rilettura del suo percorso e si noterà che in molti dei suoi strabilianti ritratti ciò che rimane vivo in modo lancinante sono gli sguardi. Il resto è solo carne destinata a decomporsi, ma gli occhi avranno per sempre la disperata eternità che Bonetti ha cercato invano.
Il giallo e il rosso
Il tratto universale dei personaggi di Bonetti è la solitudine. Per lo più il bergamasco dipingeva un’unica figura silenziosa e abbandonata anche nell’atteggiamento. In poltrona o per terra, con una gamba accavallata, persa nelle proprie ricognizioni sulla vita. Queste attitudini riguardano sia i protagonisti dei pastelli che degli oli, a partire dal Nudo seduto (acrilico, pastello su tela verde). Di una nudità provocatoria e con lo sguardo diretto verso l’osservatore, questo ritratto collocato in una luce gialla su fondo nero riassume alcuni dei contenuti di tutta la produzione di Bonetti. Nessuna concessione all’esterno, la fatica paralizzante dell’esistenza che impedisce di lasciarsi andare alla confidenza, un essere tuttavia aperti e leggibili dagli altri, perché ciascuno può specchiarsi in quella debolezza che accomuna i viventi. Nella pittura di Bonetti spesso il corpo è colto nel tentativo di cercare un luogo dove resistere all’energia distruttiva che erode ogni essere sulla terra. Il medesimo personaggio compare con uguale postura anche nel Nudo seduto (matita, pastello, tempera su cartone in pasta di legno), ma in questo caso il giallo neon che metteva la figura sotto i riflettori di un palcoscenico immaginario, diventa rosso fuoco. Un colore che in Bonetti fa sempre riferimento al sangue, alla rabbia, a un furore titanico, di rado alla passione amorosa. I suoi rossi sono sbilenchi e diabolici, presi in prestito dall’espressionismo, ma filtrati anche attraverso l’esistenzialismo francese. Perché Bonetti non era soltanto un attento lettore della storia dell’arte del Novecento, era anche un divoratore di varia letteratura e davanti a certi suoi lavori si pensa al Camus di Lo straniero o al Céline di Viaggio al termine della notte. Mentre si potrebbe azzardare che i suoi gialli discendano dalla disperazione di Van Gogh e dal coraggio cromatico dei fauvisti. A questo proposito la mostra offre un dipinto emblematico, Scala della passione (olio, acrilico, matita su carta da spolvero). L’uomo in campo giallo è proprio Bonetti, il volto quasi nascosto dentro il colore magmatico, gli immancabili occhiali inforcati sul naso. La scala, riassunta da tre scalini che tuttavia significano un lungo percorso faticoso, conduce a un altare sul quale campeggia un idolo che sta per essere immolato. Il titolo dell’opera indica la chiave di lettura. La passione non va interpretata come sentimento travolgente dei sensi, ma come strazio dell’anima e delle carni, la vita è un lento progredire verso la fine e il sacrificio si compie malgrado il nostro desiderio di sopravvivenza. Che Bacon sia spesso la fonte diretta di ispirazione è evidente anche nell’uso della materia pittorica; le alterazioni, le sbavature cromatiche, gli sfregi che segnano i volti hanno a che fare con la lezione dell’irlandese. Si prenda Il rosso e il nero (pastello su carta nocciola). Squillante e divoratore, il rosso ha ancora una funzione essenziale di contrasto con l’ambiente spoglio dello sfondo che risulta uno spazio estraneo alla scena rappresentata. La figura in primo piano sembra guardare fuori dal dipinto con la curiosità di un alieno capitato per caso sulla terra. La testa appena inclinata verso sinistra indica la sua attenzione pronta a captare qualunque suono. Tracciato con sfilacci rapidi di pastello, questo disegno dichiara la grande attitudine di Bonetti a creare suggestioni inquietanti. Nel buio, dietro la schiena del protagonista, si addensa un’ombra senza nome.
La brutalità della vita
La sconfitta di ogni progetto di solidarietà e di coralità umana porta al trionfo dell’individualismo. Quello del bergamasco è un mondo di mutanti, creature cui è preclusa la speranza di poter cambiare le regole del gioco, ma che vivono come se la prigione fosse di loro gradimento. E in questo circo di vane ambizioni ciascuno è isolato, soggetto e oggetto dei propri pensieri e dei propri sogni. A ricordare che questa falsa prospettiva cela appena le magagne della verità, ecco spuntare in numerosi quadri l’artista stesso. I suoi Autoritratti raccontano innanzitutto il disagio nel confrontarsi con una società ostile, ma non mancano di arguzia e di una certa retorica della sofferenza che chiama in causa l’osservatore. Sembra che il pittore dica, “eccomi, sono qui. Non vi piace quest’artista scomodo che recita la verità”? Il sorriso che aleggia su tutta la sua faccia nell’Autoritratto con mani incrociate (olio, acrilico, pastello, carbone su carta intelata), dichiara il manifesto dell’autore. Declinato nei colori preferiti, il giallo, il rosso e il nero, il dipinto inserisce l’artista in una doppia cornice, quella del perimetro del foglio e quella di un secondo quadrato tracciato con una riga blu. Da questa finestra inusuale Bonetti ci osserva seduto e con le mani appoggiate allo schienale di una seggiola. Il risultato estetico, calcolato con precisione sia nell’ingombro dello spazio pittorico sia nella cadenza del colore, è di grande effetto, mentre la raffinatezza formale dell’artista si coglie nelle mani penzoloni che dicono bene il disincanto e l’impotenza di fronte a un pubblico sordo. Il tema dello spazio scenico delimitato torna nell’Autoritratto con stella gialla (olio, pastello, carbone su tela). Un mezzo busto blu, in campo blu, dentro una finestra blu, con la concessione di una macchia gialla, appunto la stella. Adombrato da veloci velature, Bonetti guarda lo sguardo degli altri, ma in questo caso sembra tranquillo e distante, come in previsione del silenzio finale che la sorte aveva in serbo per lui. E ancora più evanescente è la sua figura nell’Autoritratto musiciano (olio, pastello, spray su tela). Di Zoran Music (Gorizia, 1909 - Venezia, 2005) il bergamasco apprezzava in particolare la maniera diretta e senza omissioni di raccontare il dolore. In questo lavoro non finito l’omaggio al maestro formatosi all’Accademia di Zagabria è evidente nell’equilibrio del segno tra il decorativo e il simbolico, come dichiarano le forme appena tracciate dietro la testa di Bonetti. In mostra c’è un altro dipinto che offre uno spiraglio sul carattere e i pensieri dell’autore, Io e Paola controluce (olio, pastello su cartone in pasta di legno). Per dire un rapporto d’amore che ha rischiarato i suoi anni disincantati, Bonetti non usa il rosso, ma il giallo pieno del sole. I due personaggi, come recita il titolo, sono controluce e quindi se ne intuiscono appena i contorni, ma si distingue abbastanza da sentire che la figura femminile è appoggiata a quella maschile quasi a sorreggerla, consolatrice e capace di rimanere in disparte. Malgrado i dubbi sul valore della vita in generale e della propria in particolare, l’artista si mette sotto i riflettori, accetta di recitare la sua parte e per una volta si lascia andare alla speranza di non essere stato ancora battuto.
I testimoni
L’esposizione offre anche un nutrito numero di ritratti di persone e personaggi che a vario titolo sono passati nella vita dell’artista lasciandovi una traccia profonda. A cominciare da quello dedicato a Bacon, Luce su Bacon (olio, acrilico, pastello su tela). Il maestro prediletto è accovacciato per terra con la faccia inondata dalla luce rivolta in direzione dello spettatore. Ancora una volta il giallo significa il sole e in questo caso assume una connotazione sacrale con quei raggi che fanno pensare a Dio Padre. L’audacia e la forza titanica della pittura baconiana derivavano forse da una grazia speciale che pochi posseggono. Bonetti coglie in questo lavoro una contraddizione estrema nell’opera dell’irlandese, la consapevolezza del degrado che la vita impone in uno scenario tuttavia solenne. La vulnerabilità della nostra condizione è il filo che tesse tutta la trama della pittura di Bonetti. La sua è una poetica del volto studiato nel divenire. Ci sono dipinti come il doppio Ritratto dell’avvocato Zonca (recto e verso, olio su compensato), dove il protagonista è più somigliante oggi al se stesso dipinto, che non quando l’opera è stata realizzata. L’ossessione della fine è sempre presente, anche nei rari casi in cui Bonetti si lascia andare a qualcosa di aneddotico, come accade per l’amico Zonca, suo grande estimatore. Il maglione blu ripreso punto per punto, il particolare degli occhiali che sbucano dallo scollo, i capelli descritti ciocca per ciocca e quella mano dipinta pensando a Van Gogh (Groot Zundert, 1853 – Auverse-sur-Oise, 1890) dicono di un affetto profondo e di una tenerezza che colloca il soggetto in una zona neutra dove può accadere ancora l’impossibile, cioè che il tempo si fermi. Ma quando il soggetto è qualcuno la cui sostaza è familiare, il ritratto diventa una forma di riconoscimento dell’altro, una condivisione di sentimenti e ribellioni. È il caso di Alda Merini fuma (olio, pastello su carta da pacco nocciola). La poetessa gli era vicina nella sensibilità e nello sguardo sul mondo, perciò compagna di disperazione. Bonetti racconta il suo viso in pochi tratti vistosi, regalandoci un ritratto veritiero e furibondo, mentre il gesto della mano appena tracciata è, con gli occhi, il fatto più importante del dipinto. Nel modo di tenere la sigaretta fra le dita c’è il carattere di una donna temprata dal dolore, ma in nessun caso domata dagli eventi. Nessuno dei soggetti del bergamasco sorride, le bocche sono quasi sempre corrucciate o distorte per via di un pensiero amaro. Maria Grazia Recanati (olio, acrilico, pastello su carta da spolvero) e Susanna Testa (olio, pastello su tela già dipinta), entrambe figure note a Bergamo, sono descritte in un momento di riflessione e il loro viso è rabbuiato, teso. Bonetti rende un cattivo servizio alle donne che ritrae, quasi volesse ricordare loro che la bellezza o l’eleganza sono vane e passeggere. L’esasperata sensibilità dell’artista si trasforma nel ritratto in irruenza espressionista che deforma la fisionomia, fissandola in una espressione proveniente dall’interno. Fino a portare a galla l’inquietudine del protagonista, talvolta persino la sua spiritualità. Così accade nei due intensi lavori dedicati al Maestro Gianandrea Gavazzeni (matita, tempera, olio su carta) e a Stefano Crespi col teschio (olio su tela). L’espressione di questi due raffinati intellettuali, il primo musicista di talento, il secondo fine scrittore, esplora il senso del fare arte e dunque, poiché l’arte è mimesi della vita, il valore stesso dell’esistenza. Quest’infagine sul senso è esteso anche agli animali che in Bonetti posseggono la forza stroardinaria di una presenza consapevole. Si guardi il suo meraviglioso Cane (olio su tela) in piedi e impegnato nello sforzo di essere nel mondo a ogni costo. Gli occhi buoni dallo sguardo lungo dicono bene che ogni cosa capace di respirare soggiace alla medesima legge crudele. Lo stesso accade per il magnifico Scorfano (olio su compensato). Alle spalle del pesce un paesaggio maestoso, in primo piano l’animale immortalato come sarà esibito su una qualche tavola imbandita prima di essere mangiato. Gli occhi vigili e tristi non piangono per la propria vita spezzata ma per la crudeltà ottusa di chi non riesce a capire che la vita andrebbe amata e rispettata in qualunque sua forma espressiva.
In una videointervista Bacon aveva dichiarato “Sì, sono ottimista. Su cosa? Su nulla, sul nulla, […] sull’esistere […] sul mio trascinarmi da un bar all’altro […] vedere i volti della gente […] mi piace la loro conformazione e poi riprenderne l’aspetto, senza però farne un’illustrazione”. Bonetti, quasi in disparte, ha fatto sua questa regola insieme all’idea che il senso profondo dell’arte è testimoniare la condizione umana.
Anna Caterina Bellati
Venezia, primavera 2009
Era stata Dolores Previtali, scultrice di grande compostezza formale e intensa forza evocativa, a farmi conoscere Gianfranco Bonetti. Quel pomeriggio lui ci aspettava in cima alle scale con addosso un largo maglione slabbrato e lo sguardo tra l’ironico e il diffidente. Descrivere il suo studio è quasi impossibile, c’era roba ovunque. Libri invecchiati sul posto, alcuni neanche tolti dal cellophane, cartoni vuoti con dentro rotoli di spago e pennelli, cornici scrostate, pezzi di masonite appoggiati alle pareti, qualche mobile seppellito sotto montagne di carte, bottiglie vuote, blocchi per schizzi, bicchieri, cataloghi di vecchie mostre. In questo labirinto navigavano quattro o cinque sedie, due senza una gamba. Bonetti sembrava rallegrato da quella visita senza preavviso, la dolcezza di Dolores lo rassicurava sulla presenza degli altri ospiti, oltre a me, Antonio, marito dell’artista bergamasca e fine conoscitore d’arte. Mentre ci faceva accomodare, cercava di mettere un po’ d’ordine scaraventando qualunque cosa gli capitasse fra le mani in una grande scatola di latta vicino alla finestra e intanto spiegava che era tutta colpa della donna delle pulizie, la quale da giorni non si faceva vedere. Ma non eravamo andati a trovarlo per monitorare la polvere, ci interessavano semmai i suoi disegni in vista di una mostra. Rovistando qua e là con gli occhi, mentre la conversazione prendeva l’avvio, cercavo di scoprire qualche dipinto dimenticato nel bailamme, o uno dei suoi molti autoritratti. Ma in quella stanza oblunga non ce n’erano. Ci sono artisti consapevoli del valore di ciò che producono, perciò con saggezza non ne abusano esibendosi di continuo. Tuttavia Bonetti lo scontroso, così me lo avevano descritto, si era accorto da un pezzo della mia indagine silenziosa. “Quadri miei qui non ne ho”, disse interrompendo il discorso su un’amica della quale lui e Dolores condividevano stima e affetto, Alda Merini. Più tardi, cedendo al mio desiderio, si alzò in piedi e fece segno di seguirlo. A sinistra c’era una cameretta stracolma di lavori di diverso formato, se ne indovinava la sagoma nella penombra. Bonetti fece scattare l’interruttore sul muro, ma non successe niente. “Deve essersi bruciata la lampadina”, spiegò. Al buio si fece largo nel santuario-caverna e ne emerse qualche istante dopo con tre lavori pescati nel mucchio. C’era un pastello appiccicato a un cartone che ritraeva un uomo vestito di rosso appollaiato dentro una poltrona. Il paragone scattò immediato. La faccia bianchissima da sonnambulo cittadino e lo sfondo notturno appena strisciato di tracce ocra, lo collocavano tra le figure più classiche di Francis Bacon (Dublino, 1909 - Madrid,1992), il maestro con cui tanta parte della ritrattistica contemporanea ha dovuto fare i conti. Quell’omuncolo avrebbe potuto essere l’artista o chiunque, durante molte notti insonni, avesse perso la pietà verso se stesso e i propri simili. Al punto da sapere con assoluta certezza che la disperazione è la costante alla base della nostra esistenza. Bonetti possedeva una lucidità febbrile, la sua pittura prendeva fiato da un moto sotterraneo, un rancore rappreso contro la vanità ridicola di chi pensa d’avere raggiunto una meta perché ha acquistato un’auto potente, o agghindato la propria moglie con gioielli costosi. Nelle stanze disadorne dei suoi dipinti si sente l’odore stantio del fumo rappreso e si avverte che la porta è sprangata ai visitatori. Bonetti sputava con rara maestria su tutti i simboli della società capitalista, la ricchezza, la fama, l’inseguimento di un’eternità esteriore. I suoi personaggi avvolti da una luce abbacinante, misteriosi eppure familiari per quel tratto rapido e furioso che li inchioda a una fisionomia precisa, sono tutti reali, ma l’artista li ritrae più vecchi e più brutti di quanto non fossero per davvero. Quasi fantasmi di un mondo ancorato controvoglia al quotidiano, incarnano i vizi, le passioni, la crudeltà, ma anche le debolezze, i dubbi, la fragilità della razza umana. Mentre in sordina risuona l’ironia feroce del pittore che impone la regola dell’unica verità possibile, la vita è quasi sempre schifosa, peggio per voi se vi ostinate a negarlo. E c’è un secondo virtuosismo che rende la pittura di Bonetti vicina a quella dell’irlandese, la trasformazione che il soggetto subisce nel passaggio dall’esistenza esteriore nel mondo, a quella virtuale nel dipinto. Al bergamasco non interessava raccontare la storia di una certa persona, si serviva semmai della sua faccia come strumento per dire a gran voce la precarietà di ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero.
Dopo quella volta ci incontrammo ancora, ma negli ultimi anni si era lasciato assorbire dal male di vivere e non sembrava più volersi occupare né dei suoi quadri accatastati l’uno sull’altro, né dell’umanità varia che vi albergava, amanti, amiche, colleghi, scrittori, collezionisti. Quasi indifferente al consorzio umano, Bonetti, acuto e sicuro di sé quando si misurava con la forza smisurata della pittura, ha vissuto con durezza il proprio destino di albatrós incapace di camminare con destrezza fra la gente qualunque. Questa retrospettiva propone una prima rilettura del suo percorso e si noterà che in molti dei suoi strabilianti ritratti ciò che rimane vivo in modo lancinante sono gli sguardi. Il resto è solo carne destinata a decomporsi, ma gli occhi avranno per sempre la disperata eternità che Bonetti ha cercato invano.
Il giallo e il rosso
Il tratto universale dei personaggi di Bonetti è la solitudine. Per lo più il bergamasco dipingeva un’unica figura silenziosa e abbandonata anche nell’atteggiamento. In poltrona o per terra, con una gamba accavallata, persa nelle proprie ricognizioni sulla vita. Queste attitudini riguardano sia i protagonisti dei pastelli che degli oli, a partire dal Nudo seduto (acrilico, pastello su tela verde). Di una nudità provocatoria e con lo sguardo diretto verso l’osservatore, questo ritratto collocato in una luce gialla su fondo nero riassume alcuni dei contenuti di tutta la produzione di Bonetti. Nessuna concessione all’esterno, la fatica paralizzante dell’esistenza che impedisce di lasciarsi andare alla confidenza, un essere tuttavia aperti e leggibili dagli altri, perché ciascuno può specchiarsi in quella debolezza che accomuna i viventi. Nella pittura di Bonetti spesso il corpo è colto nel tentativo di cercare un luogo dove resistere all’energia distruttiva che erode ogni essere sulla terra. Il medesimo personaggio compare con uguale postura anche nel Nudo seduto (matita, pastello, tempera su cartone in pasta di legno), ma in questo caso il giallo neon che metteva la figura sotto i riflettori di un palcoscenico immaginario, diventa rosso fuoco. Un colore che in Bonetti fa sempre riferimento al sangue, alla rabbia, a un furore titanico, di rado alla passione amorosa. I suoi rossi sono sbilenchi e diabolici, presi in prestito dall’espressionismo, ma filtrati anche attraverso l’esistenzialismo francese. Perché Bonetti non era soltanto un attento lettore della storia dell’arte del Novecento, era anche un divoratore di varia letteratura e davanti a certi suoi lavori si pensa al Camus di Lo straniero o al Céline di Viaggio al termine della notte. Mentre si potrebbe azzardare che i suoi gialli discendano dalla disperazione di Van Gogh e dal coraggio cromatico dei fauvisti. A questo proposito la mostra offre un dipinto emblematico, Scala della passione (olio, acrilico, matita su carta da spolvero). L’uomo in campo giallo è proprio Bonetti, il volto quasi nascosto dentro il colore magmatico, gli immancabili occhiali inforcati sul naso. La scala, riassunta da tre scalini che tuttavia significano un lungo percorso faticoso, conduce a un altare sul quale campeggia un idolo che sta per essere immolato. Il titolo dell’opera indica la chiave di lettura. La passione non va interpretata come sentimento travolgente dei sensi, ma come strazio dell’anima e delle carni, la vita è un lento progredire verso la fine e il sacrificio si compie malgrado il nostro desiderio di sopravvivenza. Che Bacon sia spesso la fonte diretta di ispirazione è evidente anche nell’uso della materia pittorica; le alterazioni, le sbavature cromatiche, gli sfregi che segnano i volti hanno a che fare con la lezione dell’irlandese. Si prenda Il rosso e il nero (pastello su carta nocciola). Squillante e divoratore, il rosso ha ancora una funzione essenziale di contrasto con l’ambiente spoglio dello sfondo che risulta uno spazio estraneo alla scena rappresentata. La figura in primo piano sembra guardare fuori dal dipinto con la curiosità di un alieno capitato per caso sulla terra. La testa appena inclinata verso sinistra indica la sua attenzione pronta a captare qualunque suono. Tracciato con sfilacci rapidi di pastello, questo disegno dichiara la grande attitudine di Bonetti a creare suggestioni inquietanti. Nel buio, dietro la schiena del protagonista, si addensa un’ombra senza nome.
La brutalità della vita
La sconfitta di ogni progetto di solidarietà e di coralità umana porta al trionfo dell’individualismo. Quello del bergamasco è un mondo di mutanti, creature cui è preclusa la speranza di poter cambiare le regole del gioco, ma che vivono come se la prigione fosse di loro gradimento. E in questo circo di vane ambizioni ciascuno è isolato, soggetto e oggetto dei propri pensieri e dei propri sogni. A ricordare che questa falsa prospettiva cela appena le magagne della verità, ecco spuntare in numerosi quadri l’artista stesso. I suoi Autoritratti raccontano innanzitutto il disagio nel confrontarsi con una società ostile, ma non mancano di arguzia e di una certa retorica della sofferenza che chiama in causa l’osservatore. Sembra che il pittore dica, “eccomi, sono qui. Non vi piace quest’artista scomodo che recita la verità”? Il sorriso che aleggia su tutta la sua faccia nell’Autoritratto con mani incrociate (olio, acrilico, pastello, carbone su carta intelata), dichiara il manifesto dell’autore. Declinato nei colori preferiti, il giallo, il rosso e il nero, il dipinto inserisce l’artista in una doppia cornice, quella del perimetro del foglio e quella di un secondo quadrato tracciato con una riga blu. Da questa finestra inusuale Bonetti ci osserva seduto e con le mani appoggiate allo schienale di una seggiola. Il risultato estetico, calcolato con precisione sia nell’ingombro dello spazio pittorico sia nella cadenza del colore, è di grande effetto, mentre la raffinatezza formale dell’artista si coglie nelle mani penzoloni che dicono bene il disincanto e l’impotenza di fronte a un pubblico sordo. Il tema dello spazio scenico delimitato torna nell’Autoritratto con stella gialla (olio, pastello, carbone su tela). Un mezzo busto blu, in campo blu, dentro una finestra blu, con la concessione di una macchia gialla, appunto la stella. Adombrato da veloci velature, Bonetti guarda lo sguardo degli altri, ma in questo caso sembra tranquillo e distante, come in previsione del silenzio finale che la sorte aveva in serbo per lui. E ancora più evanescente è la sua figura nell’Autoritratto musiciano (olio, pastello, spray su tela). Di Zoran Music (Gorizia, 1909 - Venezia, 2005) il bergamasco apprezzava in particolare la maniera diretta e senza omissioni di raccontare il dolore. In questo lavoro non finito l’omaggio al maestro formatosi all’Accademia di Zagabria è evidente nell’equilibrio del segno tra il decorativo e il simbolico, come dichiarano le forme appena tracciate dietro la testa di Bonetti. In mostra c’è un altro dipinto che offre uno spiraglio sul carattere e i pensieri dell’autore, Io e Paola controluce (olio, pastello su cartone in pasta di legno). Per dire un rapporto d’amore che ha rischiarato i suoi anni disincantati, Bonetti non usa il rosso, ma il giallo pieno del sole. I due personaggi, come recita il titolo, sono controluce e quindi se ne intuiscono appena i contorni, ma si distingue abbastanza da sentire che la figura femminile è appoggiata a quella maschile quasi a sorreggerla, consolatrice e capace di rimanere in disparte. Malgrado i dubbi sul valore della vita in generale e della propria in particolare, l’artista si mette sotto i riflettori, accetta di recitare la sua parte e per una volta si lascia andare alla speranza di non essere stato ancora battuto.
I testimoni
L’esposizione offre anche un nutrito numero di ritratti di persone e personaggi che a vario titolo sono passati nella vita dell’artista lasciandovi una traccia profonda. A cominciare da quello dedicato a Bacon, Luce su Bacon (olio, acrilico, pastello su tela). Il maestro prediletto è accovacciato per terra con la faccia inondata dalla luce rivolta in direzione dello spettatore. Ancora una volta il giallo significa il sole e in questo caso assume una connotazione sacrale con quei raggi che fanno pensare a Dio Padre. L’audacia e la forza titanica della pittura baconiana derivavano forse da una grazia speciale che pochi posseggono. Bonetti coglie in questo lavoro una contraddizione estrema nell’opera dell’irlandese, la consapevolezza del degrado che la vita impone in uno scenario tuttavia solenne. La vulnerabilità della nostra condizione è il filo che tesse tutta la trama della pittura di Bonetti. La sua è una poetica del volto studiato nel divenire. Ci sono dipinti come il doppio Ritratto dell’avvocato Zonca (recto e verso, olio su compensato), dove il protagonista è più somigliante oggi al se stesso dipinto, che non quando l’opera è stata realizzata. L’ossessione della fine è sempre presente, anche nei rari casi in cui Bonetti si lascia andare a qualcosa di aneddotico, come accade per l’amico Zonca, suo grande estimatore. Il maglione blu ripreso punto per punto, il particolare degli occhiali che sbucano dallo scollo, i capelli descritti ciocca per ciocca e quella mano dipinta pensando a Van Gogh (Groot Zundert, 1853 – Auverse-sur-Oise, 1890) dicono di un affetto profondo e di una tenerezza che colloca il soggetto in una zona neutra dove può accadere ancora l’impossibile, cioè che il tempo si fermi. Ma quando il soggetto è qualcuno la cui sostaza è familiare, il ritratto diventa una forma di riconoscimento dell’altro, una condivisione di sentimenti e ribellioni. È il caso di Alda Merini fuma (olio, pastello su carta da pacco nocciola). La poetessa gli era vicina nella sensibilità e nello sguardo sul mondo, perciò compagna di disperazione. Bonetti racconta il suo viso in pochi tratti vistosi, regalandoci un ritratto veritiero e furibondo, mentre il gesto della mano appena tracciata è, con gli occhi, il fatto più importante del dipinto. Nel modo di tenere la sigaretta fra le dita c’è il carattere di una donna temprata dal dolore, ma in nessun caso domata dagli eventi. Nessuno dei soggetti del bergamasco sorride, le bocche sono quasi sempre corrucciate o distorte per via di un pensiero amaro. Maria Grazia Recanati (olio, acrilico, pastello su carta da spolvero) e Susanna Testa (olio, pastello su tela già dipinta), entrambe figure note a Bergamo, sono descritte in un momento di riflessione e il loro viso è rabbuiato, teso. Bonetti rende un cattivo servizio alle donne che ritrae, quasi volesse ricordare loro che la bellezza o l’eleganza sono vane e passeggere. L’esasperata sensibilità dell’artista si trasforma nel ritratto in irruenza espressionista che deforma la fisionomia, fissandola in una espressione proveniente dall’interno. Fino a portare a galla l’inquietudine del protagonista, talvolta persino la sua spiritualità. Così accade nei due intensi lavori dedicati al Maestro Gianandrea Gavazzeni (matita, tempera, olio su carta) e a Stefano Crespi col teschio (olio su tela). L’espressione di questi due raffinati intellettuali, il primo musicista di talento, il secondo fine scrittore, esplora il senso del fare arte e dunque, poiché l’arte è mimesi della vita, il valore stesso dell’esistenza. Quest’infagine sul senso è esteso anche agli animali che in Bonetti posseggono la forza stroardinaria di una presenza consapevole. Si guardi il suo meraviglioso Cane (olio su tela) in piedi e impegnato nello sforzo di essere nel mondo a ogni costo. Gli occhi buoni dallo sguardo lungo dicono bene che ogni cosa capace di respirare soggiace alla medesima legge crudele. Lo stesso accade per il magnifico Scorfano (olio su compensato). Alle spalle del pesce un paesaggio maestoso, in primo piano l’animale immortalato come sarà esibito su una qualche tavola imbandita prima di essere mangiato. Gli occhi vigili e tristi non piangono per la propria vita spezzata ma per la crudeltà ottusa di chi non riesce a capire che la vita andrebbe amata e rispettata in qualunque sua forma espressiva.
In una videointervista Bacon aveva dichiarato “Sì, sono ottimista. Su cosa? Su nulla, sul nulla, […] sull’esistere […] sul mio trascinarmi da un bar all’altro […] vedere i volti della gente […] mi piace la loro conformazione e poi riprenderne l’aspetto, senza però farne un’illustrazione”. Bonetti, quasi in disparte, ha fatto sua questa regola insieme all’idea che il senso profondo dell’arte è testimoniare la condizione umana.
Anna Caterina Bellati
Venezia, primavera 2009
08
maggio 2009
Gianfranco Bonetti 1947–2007
Dall'otto maggio al 05 giugno 2009
arte contemporanea
Location
PALAZZO CREBERG
Bergamo, Largo Porta Nuova, 2, (Bergamo)
Bergamo, Largo Porta Nuova, 2, (Bergamo)
Orario di apertura
Da lunedì a venerdì la mostra sarà accessibile durante gli orari di apertura della filiale (dalle 8.20 alle 13.20 e dalle 14.45 alle 15.45). Nei giorni lavorativi non sono previste visite guidate.
Vernissage
8 Maggio 2009, h 17.30
Autore
Curatore