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Gianfranco Gentile – Il fascino discreto della civiltà delle macchine
La forza delle opere di Gentile evoca un intero mondo della cui bellezza abbiamo usufruito inconsapevolmente. La scelta dei soggetti raffigurati induce alla riflessione sull’ieri e sull’oggi, in vista di un futuro che non può prescindere dal rapporto tra l’uomo e la tecnica.
Comunicato stampa
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GIANFRANCO GENTILE
IL FASCINO DISCRETO DELLA CIVILTA’ DELLE MACCHINE
Vi può capitare d’incontrare Gianfranco Gentile, artista a 360 gradi - musicista, pittore, architetto, poeta, grafico - in veste di cercatore di tesori. Con un ginocchio appoggiato sugli sterpi, chino a fotografare reperti che per lui hanno un valore unico: vecchie macchine agricole abbandonate, trattori e trebbiatrici che coi loro rugginosi musi sembrano sorridere al novello Indiana Jones, motori che han smesso di funzionare, carcasse d’auto scrostate e polverose, accatastate l’una sull’altra dagli sfasciacarrozze, ma anche veri e propri gioielli d’automobili del tempo che fu, come la mitica Rosengart, la cui allure da vecchia e gloriosa signora della corsa è fuori discussione. Metalli come il ferro o il rame e le loro fascinose patine d’ossidazione sono, agli occhi di quest’artista innamorato dell’archeologia industriale, materiali preziosi, ormai rari, come animali in via d’estinzione che gli sia dato d’incontrare – per pura fortuna – in un safari fotografico, dopo averli a lungo cercati e inseguiti. Vecchi marchingegni, rubinetti industriali, condutture e ruote dentate, congegni obsoleti e velati dalla patina del tempo, fabbriche dismesse, cartiere abbandonate assumono un valore memoriale pari a quello di un frontone greco, di una statua romana, di un rosone intagliato, di un pinnacolo o di altro elaborato fastigio d’una magnifica cattedrale gotica.
La meraviglia sta nello sguardo di chi osserva, nel filtro della memoria con cui ci si accosta a pezzi che racchiudono una parte della nostra storia, tradizione e cultura materiale, di un passato più o meno remoto o vicino a noi, iscritto nella nostra stessa identità.
Le opere di Gentile evocano un intero universo perduto. L’abbandono di miriadi di “pezzi” appartenenti al mondo della fabbrica o del lavoro dei campi, la loro obsolescenza, il mancato utilizzo odierno non riescono – ai suoi occhi e, per suo tramite, anche ai nostri - ad appannarne l’attrattiva, anzi la accrescono. Neppure l’oblio del nome di questi attrezzi e componenti meccanici e il mancato riconoscimento della loro funzione (un tempo invece nota a tutti gli appartenenti al mondo del lavoro), neanche l’aver cancellato dal linguaggio corrente i termini lessicali che li designano e l’aver condannato queste apparecchiature al silenzio e all’inattività bastano a distruggere il fascino discreto della civiltà delle macchine. Né a tacitare l’eco del rumore delle prime fabbriche, in cui la tecnica – guardata allora con un misto di sospetto e ammirazione – non aveva ancora mostrato in tutta la sua estensione il volto disumano di una completa signoria e di un dominio insopprimibile sul “fattore umano”, il suo essere non un mezzo ma un fine in se stessa, mirata al proprio incessante autopotenziamento.
Guardando le opere di Gianfranco Gentile viene alla mente la fase dell’industrializzazione tardo-ottocentesca e primo-novecentesca, la “civiltà delle macchine” della metà del XX secolo, e si è presi da un’attrazione per qualcosa che ha il sapore di un’operazione nostalgia, legata ad una perdita senza possibilità di un “a rebour”. Agli antipodi rispetto all'esaltazione modernista della potenza della macchina, l’artista si concentra sulla valenza estetica degli apparati tecnici del passato, lasciando emergere la sensualità latente dell’ingranaggio (si pensi all’opera intitolata Labbra cremisi, denti d’acciaio), la bellezza intrinseca delle macchine, e – attraverso l’irresistibile attrattiva del dettaglio messo a fuoco da un’ottica lenticolare – riporta alla luce il potere seduttivo esercitato da una meccanizzazione ancora controllata dall’uomo in un’epoca non così remota, eppure irrimediabilmente trascorsa, in cui era ancora la mano dell’operaio a mettere in moto le macchine, manovrare gli strumenti, abbassare leve, girare rubinetti, avvitare bulloni, ruotare manovelle, premere interruttori, verificare i materiali.
Ciò che attrae nelle opere di Gianfranco Gentile è anche la loro peculiarità tecnica, la sorpresa generata dall’utilizzo di materiali poveri e leggeri per ricavarne effetti di grande realismo. Il metodo di lavoro è originale e richiede virtù d’ascendenza certosina: le opere sono infatti disegnate su comune cartone ondulato da imballo, dipinte a mano sulla superficie liscia con pastelli e tecniche miste (ossidi, vernici, cemento, catrame, oli riportati a "secco"), poi intagliate con il cutter nelle parti non dipinte, in modo che affiori lo strato di onduline sottostante e che il contorno del congegno raffigurato emerga con straordinaria potenza ed effetto di tridimensionalità dallo sfondo. Si attua così una sorta di camouflage o metamorfosi del mezzo: il fragile e deperibile cartone assume le sembianze del ferro, ne simula le caratteristiche di corrosione e ruggine, a fronte dell’usura del tempo e delle ingiurie delle intemperie; il colore a pastello ripropone il cromatismo sommesso e pacato delle vernici scrostate e sbiadite; la rigatura verticale del supporto, con la sua ondulata profondità, allude alla tridimensionalità concreta dell’oggetto raffigurato.
Si tratta di un’operazione sottile di segno analitico che non va a sostituirsi al compito dell’archeologia industriale, che non sottende il recupero dei reperti materiali (al più ne auspica la salvaguardia, demandata a chi la può attuare), ma ne ripropone le immagini come icone della modernità, al pari delle Marilyn e delle Campbell Soup di Warhol o delle lucidatrici di Jeff Koons, ma di una modernità di ieri, pre-contemporanea. Come su un tavolo anatomico, la macchina o l’architettura dismessa è dissezionata dall’occhio selettivo dell’artista in un inventario minuzioso di elementi – ombre e luci comprese - ciascuno dei quali ha una bellezza intrinseca e nel contempo partecipa al fascino dell’insieme. Vengono così proiettati in primo piano, accanto ad intere strutture industriali – come capannoni e fabbricati industriali, cartiere e stazioni frigorifere realmente esistite – dentelli, viti, bulloni, tubi, ghiere, bielle, giunti: particolari talvolta minuscoli ingigantiti dallo zoom del ricordo e di uno sguardo curioso e attento, piuttosto che da quello delle fotografie digitali che l’autore scatta nella fase di ricerca sul territorio, che precede la realizzazione vera e propria dell’opera.
Più che una poetica del frammento, a guidare l’artista è però la fascinazione dell’insieme, perché – come avevano già avvertito i filosofi, Gunther Anders al pari di Martin Heidegger – “non esistono apparecchi singoli. La totalità è il vero apparecchio. Ogni apparecchio è, dal canto suo, solo una parte di apparecchio, solo una vite, un pezzo del sistema degli apparecchi (…). Il sistema di apparecchi è il nostro “mondo”.” Anche se decontestualizzato, enfatizzato, il dettaglio rinvia ad un mondo, ad una tecnica percepita come “ambiente” in cui l’uomo si muove, ad un “macroapparecchio” che è il sistema tecnologico che nel suo insieme individua e identifica un’epoca e condiziona e determina uno stile di vita.
La forza suggestiva delle opere di Gentile evoca dunque un intero mondo della cui bellezza abbiamo forse usufruito inconsapevolmente e che solo nell’arte oggi ci è dato di ritrovare. Ma la scelta dei soggetti raffigurati induce alla riflessione critica sull’ieri e sull’oggi, in vista di un futuro praticabile che non può prescindere dal rapporto tra l’uomo e la tecnica.
Elisabetta Bovo
Giornalista, storica e critica d’arte, Docente di Iconografia, Iconologia e Filosofia dell’immagine
IL FASCINO DISCRETO DELLA CIVILTA’ DELLE MACCHINE
Vi può capitare d’incontrare Gianfranco Gentile, artista a 360 gradi - musicista, pittore, architetto, poeta, grafico - in veste di cercatore di tesori. Con un ginocchio appoggiato sugli sterpi, chino a fotografare reperti che per lui hanno un valore unico: vecchie macchine agricole abbandonate, trattori e trebbiatrici che coi loro rugginosi musi sembrano sorridere al novello Indiana Jones, motori che han smesso di funzionare, carcasse d’auto scrostate e polverose, accatastate l’una sull’altra dagli sfasciacarrozze, ma anche veri e propri gioielli d’automobili del tempo che fu, come la mitica Rosengart, la cui allure da vecchia e gloriosa signora della corsa è fuori discussione. Metalli come il ferro o il rame e le loro fascinose patine d’ossidazione sono, agli occhi di quest’artista innamorato dell’archeologia industriale, materiali preziosi, ormai rari, come animali in via d’estinzione che gli sia dato d’incontrare – per pura fortuna – in un safari fotografico, dopo averli a lungo cercati e inseguiti. Vecchi marchingegni, rubinetti industriali, condutture e ruote dentate, congegni obsoleti e velati dalla patina del tempo, fabbriche dismesse, cartiere abbandonate assumono un valore memoriale pari a quello di un frontone greco, di una statua romana, di un rosone intagliato, di un pinnacolo o di altro elaborato fastigio d’una magnifica cattedrale gotica.
La meraviglia sta nello sguardo di chi osserva, nel filtro della memoria con cui ci si accosta a pezzi che racchiudono una parte della nostra storia, tradizione e cultura materiale, di un passato più o meno remoto o vicino a noi, iscritto nella nostra stessa identità.
Le opere di Gentile evocano un intero universo perduto. L’abbandono di miriadi di “pezzi” appartenenti al mondo della fabbrica o del lavoro dei campi, la loro obsolescenza, il mancato utilizzo odierno non riescono – ai suoi occhi e, per suo tramite, anche ai nostri - ad appannarne l’attrattiva, anzi la accrescono. Neppure l’oblio del nome di questi attrezzi e componenti meccanici e il mancato riconoscimento della loro funzione (un tempo invece nota a tutti gli appartenenti al mondo del lavoro), neanche l’aver cancellato dal linguaggio corrente i termini lessicali che li designano e l’aver condannato queste apparecchiature al silenzio e all’inattività bastano a distruggere il fascino discreto della civiltà delle macchine. Né a tacitare l’eco del rumore delle prime fabbriche, in cui la tecnica – guardata allora con un misto di sospetto e ammirazione – non aveva ancora mostrato in tutta la sua estensione il volto disumano di una completa signoria e di un dominio insopprimibile sul “fattore umano”, il suo essere non un mezzo ma un fine in se stessa, mirata al proprio incessante autopotenziamento.
Guardando le opere di Gianfranco Gentile viene alla mente la fase dell’industrializzazione tardo-ottocentesca e primo-novecentesca, la “civiltà delle macchine” della metà del XX secolo, e si è presi da un’attrazione per qualcosa che ha il sapore di un’operazione nostalgia, legata ad una perdita senza possibilità di un “a rebour”. Agli antipodi rispetto all'esaltazione modernista della potenza della macchina, l’artista si concentra sulla valenza estetica degli apparati tecnici del passato, lasciando emergere la sensualità latente dell’ingranaggio (si pensi all’opera intitolata Labbra cremisi, denti d’acciaio), la bellezza intrinseca delle macchine, e – attraverso l’irresistibile attrattiva del dettaglio messo a fuoco da un’ottica lenticolare – riporta alla luce il potere seduttivo esercitato da una meccanizzazione ancora controllata dall’uomo in un’epoca non così remota, eppure irrimediabilmente trascorsa, in cui era ancora la mano dell’operaio a mettere in moto le macchine, manovrare gli strumenti, abbassare leve, girare rubinetti, avvitare bulloni, ruotare manovelle, premere interruttori, verificare i materiali.
Ciò che attrae nelle opere di Gianfranco Gentile è anche la loro peculiarità tecnica, la sorpresa generata dall’utilizzo di materiali poveri e leggeri per ricavarne effetti di grande realismo. Il metodo di lavoro è originale e richiede virtù d’ascendenza certosina: le opere sono infatti disegnate su comune cartone ondulato da imballo, dipinte a mano sulla superficie liscia con pastelli e tecniche miste (ossidi, vernici, cemento, catrame, oli riportati a "secco"), poi intagliate con il cutter nelle parti non dipinte, in modo che affiori lo strato di onduline sottostante e che il contorno del congegno raffigurato emerga con straordinaria potenza ed effetto di tridimensionalità dallo sfondo. Si attua così una sorta di camouflage o metamorfosi del mezzo: il fragile e deperibile cartone assume le sembianze del ferro, ne simula le caratteristiche di corrosione e ruggine, a fronte dell’usura del tempo e delle ingiurie delle intemperie; il colore a pastello ripropone il cromatismo sommesso e pacato delle vernici scrostate e sbiadite; la rigatura verticale del supporto, con la sua ondulata profondità, allude alla tridimensionalità concreta dell’oggetto raffigurato.
Si tratta di un’operazione sottile di segno analitico che non va a sostituirsi al compito dell’archeologia industriale, che non sottende il recupero dei reperti materiali (al più ne auspica la salvaguardia, demandata a chi la può attuare), ma ne ripropone le immagini come icone della modernità, al pari delle Marilyn e delle Campbell Soup di Warhol o delle lucidatrici di Jeff Koons, ma di una modernità di ieri, pre-contemporanea. Come su un tavolo anatomico, la macchina o l’architettura dismessa è dissezionata dall’occhio selettivo dell’artista in un inventario minuzioso di elementi – ombre e luci comprese - ciascuno dei quali ha una bellezza intrinseca e nel contempo partecipa al fascino dell’insieme. Vengono così proiettati in primo piano, accanto ad intere strutture industriali – come capannoni e fabbricati industriali, cartiere e stazioni frigorifere realmente esistite – dentelli, viti, bulloni, tubi, ghiere, bielle, giunti: particolari talvolta minuscoli ingigantiti dallo zoom del ricordo e di uno sguardo curioso e attento, piuttosto che da quello delle fotografie digitali che l’autore scatta nella fase di ricerca sul territorio, che precede la realizzazione vera e propria dell’opera.
Più che una poetica del frammento, a guidare l’artista è però la fascinazione dell’insieme, perché – come avevano già avvertito i filosofi, Gunther Anders al pari di Martin Heidegger – “non esistono apparecchi singoli. La totalità è il vero apparecchio. Ogni apparecchio è, dal canto suo, solo una parte di apparecchio, solo una vite, un pezzo del sistema degli apparecchi (…). Il sistema di apparecchi è il nostro “mondo”.” Anche se decontestualizzato, enfatizzato, il dettaglio rinvia ad un mondo, ad una tecnica percepita come “ambiente” in cui l’uomo si muove, ad un “macroapparecchio” che è il sistema tecnologico che nel suo insieme individua e identifica un’epoca e condiziona e determina uno stile di vita.
La forza suggestiva delle opere di Gentile evoca dunque un intero mondo della cui bellezza abbiamo forse usufruito inconsapevolmente e che solo nell’arte oggi ci è dato di ritrovare. Ma la scelta dei soggetti raffigurati induce alla riflessione critica sull’ieri e sull’oggi, in vista di un futuro praticabile che non può prescindere dal rapporto tra l’uomo e la tecnica.
Elisabetta Bovo
Giornalista, storica e critica d’arte, Docente di Iconografia, Iconologia e Filosofia dell’immagine
01
agosto 2010
Gianfranco Gentile – Il fascino discreto della civiltà delle macchine
Dal primo al 31 agosto 2010
arte contemporanea
Location
BARCHESSA RAMBALDI
Bardolino, Via San Martino, (Verona)
Bardolino, Via San Martino, (Verona)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 18.30 alle 24.00
Vernissage
1 Agosto 2010, ore 20.30
Autore
Curatore