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Gianfranco Pacini – Stecchi d’autore
Lo “stecco” è lo strumento simbolo della ricerca interiore dell’artista, intriso del Divino, ovvero la possibilità dell’uomo di vivere in armonia con gli esseri del creato. Strumento povero, privo di orpelli e abbellimenti, è la pietra scartata, il legno gettato …elevato a sostanza dei suoi lavori.
Comunicato stampa
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Il sistema dell’arte è uno dei tanti mondi metafisici creati dall’uomo che ha perduto la Verità dell’essere.
Se la metafisica è l’anima dominatrice della nostra civiltà, è stata tale dominanza a portare la società
occidentale lontano dalla Verità dell’essere, scrivendo la storia, la cultura e la vita nello sviluppo di tale
dimenticanza e con le determinazioni che le sono proprie: la produzione e la distruzione.
Nel caso in cui per opportunità produttiva l’artista (che è istantaneamente cosciente) fa tacere la sua
coscienza, essenza di informazioni (Tonon), scade nella metafisica e tradisce, tra-sformando l’essere che è
in niente. Nell’operare, quindi, l’inesplorato si pone come dimenticanza e annullamento di ogni esperienza
precedente.
In applicazione, è necessario che l’artista ripieghi su se stesso, ricercando nella propria “coscienza” la
quantità necessaria di percezioni significanti, e che rispetti il concetto di onestà, abbandonando totalmente
le mode effimere e, in netta contrapposizione con esse, agire nel rispetto della materia, nella conseguente
e ineluttabile sua proposta di dialogo. In caso contrario l’opera è “sorda”, quando cioè, nel licenziarla,
l’artista non si preoccupa di riconoscerla come parte di sé.
Andare oltre il pensiero nichilista, superarlo nel nome dell’avvento di una nuova stagione significa proporre
una diversa trascrizione del senso di fare arte.
Gianfranco Pacini ha intuito e va cercando da tempo questo “senso del fare”, sollecitando il proprio
intelletto a ricercare la comprensione dell’essenza dell’arte, caricando le sue creazioni di un elemento che
attinge al Divino. Così facendo va oltre la tanto invocata immedesimazione estetica nell’opera, elevandola
al di sopra del carattere intrinseco di “cosalità”, verso un “altro” che è ciò che costituisce l’artistico,
sforzandosi di far sì che il pensiero che la sottende divenga effettivamente pensante.
Dalla sua storia personale, alla ricerca di un modo per dare voce al suo inespresso, il pittore manifesta fin
dalla giovane età una predisposizione all’arte, paradossalmente indirizzato da un carattere solitario e
dall’indole taciturna, riflessiva e sensibile che vive di immagini di paesaggi, miraggi e cieli ideali.
Inizialmente sono il colore e il disegno ad attrarlo e a impegnarlo nella realizzazione di una simbiosi surreale
tra segno, forma e colore del suo lavoro di incisore di luoghi interiori e memoriali.
Agli inizi la fase creativo-comunicativa è caratterizzata da strutture polimateriche, bassorilievi, murales; sul
finire degli Anni Ottanta Pacini approfondisce l’analisi sui movimenti dell’acqua marina e sulle sue “balene
liquide” di Patagonia. La terza fase degli Anni Novanta, lo vede lavorare e incidere con il bulino, sotto la
guida di de Angeli e Kraczyna.
La sua parallela attività di agricoltore lo mette quotidianamente in relazione con la natura e il mondo reale,
elementi che entrati profondamente nell’animo, attenuano i dubbi insorgenti da una formazione da
autodidatta.
A partire dal Duemila, la rivisitazione della calcografia (della puntasecca in particolare), il lavoro assiduo
dietro lo studio e la sperimentazione della tecnica nascono contemporaneamente alla scoperta degli
“stecchi”, profili che si stagliano sull’orizzonte di ogni lastra, pensata e graffiata, sul cui sfondo neutro
(spesso di un grigio chiaro), trattato con il colore, è un elemento aggiunto, ma determinante per la
comprensione dell’opera.
È lo stesso pittore a definire tale strumento intriso del Divino “la possibilità dell’uomo di vivere in armonia
con gli esseri del creato. Strumento povero, privo di orpelli e abbellimenti. È la pietra scartata, il legno
gettato …elevato a sostanza dei (miei) lavori, e pietra portante. Questo il messaggio che viene dato
dall’universo all’artista, perché lo comunichi”.
Al di là del riconoscere in tale processo di comunicazione una “missione di vita”, sul piano estetico, anziché
focalizzare la propria evoluzione – come potrebbe essere dato di pensare - su una sorta di “eco-strumento”,
sia pure decontestualizzato e riscattato alla sua funzione originale, Pacini fa dello stecco dipinto una pittura
a sé, un elemento dotato di vita propria, permutandolo in segno significante e caricando l’alterità del
linguaggio di elementi semantici inediti. Un modo, il suo, di guardare il mondo, fatto di silenzi e ascolti
visivi, proiettato in avanti, fino a che i suoi “stecchi d’autore” continueranno a parlarci.
Se la metafisica è l’anima dominatrice della nostra civiltà, è stata tale dominanza a portare la società
occidentale lontano dalla Verità dell’essere, scrivendo la storia, la cultura e la vita nello sviluppo di tale
dimenticanza e con le determinazioni che le sono proprie: la produzione e la distruzione.
Nel caso in cui per opportunità produttiva l’artista (che è istantaneamente cosciente) fa tacere la sua
coscienza, essenza di informazioni (Tonon), scade nella metafisica e tradisce, tra-sformando l’essere che è
in niente. Nell’operare, quindi, l’inesplorato si pone come dimenticanza e annullamento di ogni esperienza
precedente.
In applicazione, è necessario che l’artista ripieghi su se stesso, ricercando nella propria “coscienza” la
quantità necessaria di percezioni significanti, e che rispetti il concetto di onestà, abbandonando totalmente
le mode effimere e, in netta contrapposizione con esse, agire nel rispetto della materia, nella conseguente
e ineluttabile sua proposta di dialogo. In caso contrario l’opera è “sorda”, quando cioè, nel licenziarla,
l’artista non si preoccupa di riconoscerla come parte di sé.
Andare oltre il pensiero nichilista, superarlo nel nome dell’avvento di una nuova stagione significa proporre
una diversa trascrizione del senso di fare arte.
Gianfranco Pacini ha intuito e va cercando da tempo questo “senso del fare”, sollecitando il proprio
intelletto a ricercare la comprensione dell’essenza dell’arte, caricando le sue creazioni di un elemento che
attinge al Divino. Così facendo va oltre la tanto invocata immedesimazione estetica nell’opera, elevandola
al di sopra del carattere intrinseco di “cosalità”, verso un “altro” che è ciò che costituisce l’artistico,
sforzandosi di far sì che il pensiero che la sottende divenga effettivamente pensante.
Dalla sua storia personale, alla ricerca di un modo per dare voce al suo inespresso, il pittore manifesta fin
dalla giovane età una predisposizione all’arte, paradossalmente indirizzato da un carattere solitario e
dall’indole taciturna, riflessiva e sensibile che vive di immagini di paesaggi, miraggi e cieli ideali.
Inizialmente sono il colore e il disegno ad attrarlo e a impegnarlo nella realizzazione di una simbiosi surreale
tra segno, forma e colore del suo lavoro di incisore di luoghi interiori e memoriali.
Agli inizi la fase creativo-comunicativa è caratterizzata da strutture polimateriche, bassorilievi, murales; sul
finire degli Anni Ottanta Pacini approfondisce l’analisi sui movimenti dell’acqua marina e sulle sue “balene
liquide” di Patagonia. La terza fase degli Anni Novanta, lo vede lavorare e incidere con il bulino, sotto la
guida di de Angeli e Kraczyna.
La sua parallela attività di agricoltore lo mette quotidianamente in relazione con la natura e il mondo reale,
elementi che entrati profondamente nell’animo, attenuano i dubbi insorgenti da una formazione da
autodidatta.
A partire dal Duemila, la rivisitazione della calcografia (della puntasecca in particolare), il lavoro assiduo
dietro lo studio e la sperimentazione della tecnica nascono contemporaneamente alla scoperta degli
“stecchi”, profili che si stagliano sull’orizzonte di ogni lastra, pensata e graffiata, sul cui sfondo neutro
(spesso di un grigio chiaro), trattato con il colore, è un elemento aggiunto, ma determinante per la
comprensione dell’opera.
È lo stesso pittore a definire tale strumento intriso del Divino “la possibilità dell’uomo di vivere in armonia
con gli esseri del creato. Strumento povero, privo di orpelli e abbellimenti. È la pietra scartata, il legno
gettato …elevato a sostanza dei (miei) lavori, e pietra portante. Questo il messaggio che viene dato
dall’universo all’artista, perché lo comunichi”.
Al di là del riconoscere in tale processo di comunicazione una “missione di vita”, sul piano estetico, anziché
focalizzare la propria evoluzione – come potrebbe essere dato di pensare - su una sorta di “eco-strumento”,
sia pure decontestualizzato e riscattato alla sua funzione originale, Pacini fa dello stecco dipinto una pittura
a sé, un elemento dotato di vita propria, permutandolo in segno significante e caricando l’alterità del
linguaggio di elementi semantici inediti. Un modo, il suo, di guardare il mondo, fatto di silenzi e ascolti
visivi, proiettato in avanti, fino a che i suoi “stecchi d’autore” continueranno a parlarci.
26
settembre 2020
Gianfranco Pacini – Stecchi d’autore
Dal 26 settembre al 10 ottobre 2020
arte contemporanea
Location
STUDIO ARTE MES3
Livorno, Via Giuseppe Verdi, 40, (LI)
Livorno, Via Giuseppe Verdi, 40, (LI)
Orario di apertura
da martedì al sabato, ore 10.00 -12.00 e 16.00 - 19.00
Sito web
Editore
Benvenuti s.n.c Livorno
Autore
Curatore
Autore testo critico