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Gianni-Emilio Simonetti – Windows on Analogy
AF Gallery è lieta di annunciare la seconda personale in galleria di Gianni-Emilio Simonetti. In mostra una selezione di opere della produzione più recente dell’artista.
La mostra è accompagnata da un testo critico di Riccardo Venturi, autore anche di un’intervista a Simonetti.
Comunicato stampa
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Vasto è l’universo simonettiano, che si estende su un arco temporale di oltre sei decenni.
Mi basta una frase, un invito alla ferocia, per accorgermi di quanta acqua e fango (soprattutto fango) siano passati sotto i ponti della critica d’arte nostrana, ammesso che esista ancora un’attitudine critica nello scrivere sulle immagini. La diffusione della curatela e di una filosofia della cura ha reso il suo messaggio – assieme ironico e solenne – quasi incomprensibile. Mi basta una frase per sentire l’eco lontana di un’epoca segnata da schieramenti, battaglie intellettuali, scelte radicali che si pagavano vita natural durante. Una forma d’esposizione intesa non nel senso istituzionale o museografico ma in quello dell’esposizione di sé, più arrischiato perché coinvolge la propria persona. Un esporsi lontano dall’attuale infosfera, in cui s’investono tempi geologici per magnificare il nostro secondo io digitale.
Ma la ferocia, non nascondiamocelo, si accompagna anche alla sconfitta, termine che ricorre nei ricordi di Simonetti, sempre vividi e privi d’ogni malinconia verso i tempi andati. E verso i quali sembra mantenere una posizione equidistante: manca la disperazione moderna davanti al naufragio – con o senza spettatore – del progetto, perché anzitutto non crede che l’esistenza umana e le sue manifestazioni siano regolate da qualsivoglia orizzonte prestabilito. Ma manca anche l’indifferenza o la postura compiaciuta del profeta che sapeva che sarebbe andata comunque così, cioè male. Sconfitto ma mai arreso – insoumis in sostanza.
Un atteggiamento cui contribuisce forse la consapevolezza che, per quanto l’avventura artistica ambisca a una dimensione collettiva, a una comunità (sempre) a venire, non si fa (non si può) che agire anzitutto a partire da e per sé – “Solo il cucchiaio conosce lo strazio di una minestra in una scodella”. Come il futuro era affidato all’utopia più che al progetto, come il presente era privo di eredità (“Non eravamo gli eredi di nessuno”), così il passato era uno sconfinato e labirintico cronotopo all’interno del quale ognuno doveva tracciare la propria genealogia, attraverso il quale ognuno doveva regolare i suoi conti. Senza mai dimenticare che i conti non tornano e non torneranno mai, che il nonsense come strategia estetica lambisce anche le nostre riflessioni più profonde.
Per riprendere un’immagine di Simonetti, si dipanano i fili di una matassa solo per accorgersi che si finisce per moltiplicare i nodi. Non sorprende che, nelle sue parole come nelle sue opere, non ci siano soluzioni. L’artista ci esorta ad “affidarci alle nostre contraddizioni”, a patto di riconoscere che nell’irrisolto c’è un potenziale, poco importa che da tale ghianda germogli un’immagine, una ricetta gastronomica, un verso poetico, persino un flatus voci.
“Dovevamo essere giocoforza opachi”? Sì, ma, allo stesso tempo, nella nostra conversazione come nei suoi scritti sul filo della memoria, s’intravede in filigrana una contro-storia italiana. Decenni turbolenti, decenni di creatività diffusa di cui siamo, a volte inconsapevolmente, gli eredi. Perché in un’epoca segnata dalla mondializzazione – come la nostra lo è dall’antropocene – Simonetti, e con lui tutta una generazione di artisti, era abituato a fare il punto sullo stato del mondo e non, come tendiamo oggi quando si parla di arte, sulle mostre e gli eventi da non perdere.
Poliedriche sono le sue influenze (linguistica, post-strutturalismo, patafisica, psicanalisi…); poliedriche sono le forme artistiche in cui si è esercitato (la scrittura, la musica, la regia teatrale e cinematografica, l’editoria, le copertine dei dischi, la cucina); polifonica è la sua voce, ricorrendo volentieri a pseudonimi, a brani scritti nel corso degli anni, di cui uno riprodotto nella nostra conversazione. In tal modo viene restituita la sua personalissima stratificazione storica.
Questo si riflette puntualmente, com’era inevitabile, anche nella nostra conversazione che, a dispetto della versione finale, avanza in modo rizomatico: lacerti e lunghi brani, risposte fulminee e testi compiuti, bilanci ponderati e allusioni filosofiche. Quella di Simonetti è una cultura vorace che non si è nutrita nelle biblioteche universitarie ma si è affidata all’imprevisto e alla mano rabdomante che fruga vecchi libri nelle bancarelle, nei bouquinistes della Senna, nelle librerie dei librai e dei bibliofili.
Al di là delle etichette (come la poesia verbo-visiva, per limitarmi a un esempio oggi di moda tra gli studiosi) e dei movimenti che lo hanno accompagnato (Dada, Surrealismo, Neo Dada, Fluxus), Simonetti resta uno sperimentatore infaticabile, fautore di un’insurrezione politico-poetica che, l’immagine è sua, nasconde la lima della sprezzatura nella panna montata dello spettacolo.
Per consultare l’archivio di Simonetti bisogna ormai recarsi alla Beinecke Library della Yale University. Ma le sue parole, qui raccolte, ci avvicinano tanto alla sua opera quanto a un periodo che continua a ossessionare gli artisti contemporanei, non fosse altro che come pietra di paragone.
Riccardo Venturi
Mi basta una frase, un invito alla ferocia, per accorgermi di quanta acqua e fango (soprattutto fango) siano passati sotto i ponti della critica d’arte nostrana, ammesso che esista ancora un’attitudine critica nello scrivere sulle immagini. La diffusione della curatela e di una filosofia della cura ha reso il suo messaggio – assieme ironico e solenne – quasi incomprensibile. Mi basta una frase per sentire l’eco lontana di un’epoca segnata da schieramenti, battaglie intellettuali, scelte radicali che si pagavano vita natural durante. Una forma d’esposizione intesa non nel senso istituzionale o museografico ma in quello dell’esposizione di sé, più arrischiato perché coinvolge la propria persona. Un esporsi lontano dall’attuale infosfera, in cui s’investono tempi geologici per magnificare il nostro secondo io digitale.
Ma la ferocia, non nascondiamocelo, si accompagna anche alla sconfitta, termine che ricorre nei ricordi di Simonetti, sempre vividi e privi d’ogni malinconia verso i tempi andati. E verso i quali sembra mantenere una posizione equidistante: manca la disperazione moderna davanti al naufragio – con o senza spettatore – del progetto, perché anzitutto non crede che l’esistenza umana e le sue manifestazioni siano regolate da qualsivoglia orizzonte prestabilito. Ma manca anche l’indifferenza o la postura compiaciuta del profeta che sapeva che sarebbe andata comunque così, cioè male. Sconfitto ma mai arreso – insoumis in sostanza.
Un atteggiamento cui contribuisce forse la consapevolezza che, per quanto l’avventura artistica ambisca a una dimensione collettiva, a una comunità (sempre) a venire, non si fa (non si può) che agire anzitutto a partire da e per sé – “Solo il cucchiaio conosce lo strazio di una minestra in una scodella”. Come il futuro era affidato all’utopia più che al progetto, come il presente era privo di eredità (“Non eravamo gli eredi di nessuno”), così il passato era uno sconfinato e labirintico cronotopo all’interno del quale ognuno doveva tracciare la propria genealogia, attraverso il quale ognuno doveva regolare i suoi conti. Senza mai dimenticare che i conti non tornano e non torneranno mai, che il nonsense come strategia estetica lambisce anche le nostre riflessioni più profonde.
Per riprendere un’immagine di Simonetti, si dipanano i fili di una matassa solo per accorgersi che si finisce per moltiplicare i nodi. Non sorprende che, nelle sue parole come nelle sue opere, non ci siano soluzioni. L’artista ci esorta ad “affidarci alle nostre contraddizioni”, a patto di riconoscere che nell’irrisolto c’è un potenziale, poco importa che da tale ghianda germogli un’immagine, una ricetta gastronomica, un verso poetico, persino un flatus voci.
“Dovevamo essere giocoforza opachi”? Sì, ma, allo stesso tempo, nella nostra conversazione come nei suoi scritti sul filo della memoria, s’intravede in filigrana una contro-storia italiana. Decenni turbolenti, decenni di creatività diffusa di cui siamo, a volte inconsapevolmente, gli eredi. Perché in un’epoca segnata dalla mondializzazione – come la nostra lo è dall’antropocene – Simonetti, e con lui tutta una generazione di artisti, era abituato a fare il punto sullo stato del mondo e non, come tendiamo oggi quando si parla di arte, sulle mostre e gli eventi da non perdere.
Poliedriche sono le sue influenze (linguistica, post-strutturalismo, patafisica, psicanalisi…); poliedriche sono le forme artistiche in cui si è esercitato (la scrittura, la musica, la regia teatrale e cinematografica, l’editoria, le copertine dei dischi, la cucina); polifonica è la sua voce, ricorrendo volentieri a pseudonimi, a brani scritti nel corso degli anni, di cui uno riprodotto nella nostra conversazione. In tal modo viene restituita la sua personalissima stratificazione storica.
Questo si riflette puntualmente, com’era inevitabile, anche nella nostra conversazione che, a dispetto della versione finale, avanza in modo rizomatico: lacerti e lunghi brani, risposte fulminee e testi compiuti, bilanci ponderati e allusioni filosofiche. Quella di Simonetti è una cultura vorace che non si è nutrita nelle biblioteche universitarie ma si è affidata all’imprevisto e alla mano rabdomante che fruga vecchi libri nelle bancarelle, nei bouquinistes della Senna, nelle librerie dei librai e dei bibliofili.
Al di là delle etichette (come la poesia verbo-visiva, per limitarmi a un esempio oggi di moda tra gli studiosi) e dei movimenti che lo hanno accompagnato (Dada, Surrealismo, Neo Dada, Fluxus), Simonetti resta uno sperimentatore infaticabile, fautore di un’insurrezione politico-poetica che, l’immagine è sua, nasconde la lima della sprezzatura nella panna montata dello spettacolo.
Per consultare l’archivio di Simonetti bisogna ormai recarsi alla Beinecke Library della Yale University. Ma le sue parole, qui raccolte, ci avvicinano tanto alla sua opera quanto a un periodo che continua a ossessionare gli artisti contemporanei, non fosse altro che come pietra di paragone.
Riccardo Venturi
25
gennaio 2024
Gianni-Emilio Simonetti – Windows on Analogy
Dal 25 gennaio al 23 marzo 2024
arte contemporanea
Location
AF Gallery
Bologna, Via dei Bersaglieri, 5, (BO)
Bologna, Via dei Bersaglieri, 5, (BO)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 10,30-12,30 e 15,30-18,30
Vernissage
25 Gennaio 2024, dalle 17,00 alle 20,00
Sito web
Autore
Autore testo critico