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Gilberto Zorio – …Gasbeton… (Andantino)
Nella mostra …Gasbeton… (materiale usato per l’installazione) de Les Rencontres Rossiniennes 2006, Gilberto Zorio parte da un tema rossiniano particolarmente significativo che suo padre suonava e che gli ricorda perciò l’infanzia e gli rievoca lontane suggestioni di luoghi e di tempi
Comunicato stampa
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Nella mostra …Gasbeton… (materiale usato per l’installazione) de Les Rencontres Rossiniennes 2006, Gilberto Zorio parte da un tema rossiniano particolarmente significativo che suo padre suonava e che gli ricorda perciò l’infanzia e gli rievoca lontane suggestioni di luoghi e di tempi. Si tratta dell’Andantino dell’ouverture del Guillaume Tell. Il tema, come è noto, è un ranz de vasches, e cioè uno di quei temi che servivano nelle montagne svizzere a richiamare il gregge. Un tema che Rossini trasfigura e carica di nostalgia e di un particolarissimo senso dello spazio. Di qui, da questo impulso sonoro e rievocativo, Zorio parte per le sue realizzazioni stellari e materiche (Bruno Cagli).
Gilberto Zorio è nato nel 1944 ad Adorno Micca, Biella, vive e lavora a Torino.
Protagonista del rivoluzionario movimento formatosi a metà degli anni Sessanta in Italia, denominato Arte Povera, Gilberto Zorio pone in primo piano metamorfosi e alchimie, esplorando nel suo lavoro fenomeni naturali di trasformazione come l’evaporazione o l’ossidazione e il loro effetto sui materiali. Da sempre l’idea di energia è la costante che attraversa la sua opera, privilegiando un’arte che si rivela nel suo farsi. L'attenzione rivolta all'elettricità lo porta a incorporare nei suoi lavori lampade, incandescenze, fosforescenze; altrove utilizza stelle e giavellotti, forme archetipiche comunque evocatrici di energia. La sua scultura predilige materiali fragili, da cui emergono gigantesche stelle acciaiose o alambicchi in pyrex, contenenti soluzioni liquide in bilico su sottili giavellotti d'acciaio: sospendendo questi elementi in installazioni volutamente precarie, l'artista parla delle tensioni e della caducità del mondo fisico e chimico mentale.
Dal ’67 ad oggi oltre alle mostre in gallerie private numerose le personali allestite presso spazi espositivi privati e pubblici come il Kunstmuseum di Lucerna nel ‘76, lo Stedelijk Museum di Amsterdam nel ’79, la Pinacoteca di Ravenna nell’82, la Biennale di Venezia nell’80,’86,’97, il Kunstverein di Stoccarda nell’85, il Centre d'Art Contemporain di Ginevra e il Centre Georges Pompidou di Parigi nell’86, la Philadelphia Tyler School of Art nell’88, la Fundaçao de Serralves di Oporto nel ‘90, l'Istituto Valenciano de Arte Moderna di Valencia nel’91, il Centro per l'Arte Contemporanea Pecci di Prato nel’92, la Documenta di Kassel nel ‘92, il Dia Center for the arts di New York nel 2001, l'Institut Mathildenhöhe di Darmstadt, nel 2005.
Presentazione mostra: Bruno Cagli, Ester Coen, Paolo Fabbri
Mostra realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, dell’Assessorato alla Cultura della Regione Marche, con la collaborazione dell’Assessorato alla cultura della Provincia di Pesaro e Urbino e con il patrocinio del Comune di Pesaro.
Bruno Cagli
testo tratto dal catalogo: Gilberto Zorio …Gasbeton… (Andantino)
Edizione il Teatro degli Artisti/Rossini Opera Festival
In principio è un tema, un tema che è quello dell’Andantino della sinfonia del Guillaume Tell affidato nell’originale al corno inglese, ma che Zorio recupera nella memoria dal padre che suonava il clarino nella banda del paese. Dunque l’evocazione della figura paterna e di alcuni primigeni ricordi musicali che sono anche di luoghi, di sensazioni visive e anche e perfino olfattive. E di fatto Zorio li collega ad echi ed effetti di visite alle grotte di Toirano, ma anche a ricordi fisici e terrestri (ma più che terrestri li direi materici) di quando abitava nel Molise. Il collegamento, quasi magico nella memoria, è pertinente al senso stesso di quella melodia che è, come forse non tutti sanno, un ranz de vaches cioè uno di quei temi delle montagne svizzere che servivano al richiamo degli animali. Lo strumento usato era l’Alphorn lungo fino a 4 metri e quindi capace di dolcezza, ma in grado nello stesso tempo di raggiungere punti lontani. Di fatto i pastori se ne servivano anche per eseguire e improvvisare semplici cantilene. La melodia dunque evoca e, nel caso di Zorio, rievoca immagini, funzioni gestuali, momenti non descrivibili a parole, ma che è possibile trasporre in una costruzione che è, come lo stesso Zorio dichiara, una “forma aperta” e allo stesso tempo una “forma chiusa”. Che è ciò che avviene nella musica. Un tema è un modulo architettonico, è un gesto che è tema proprio perché destinato a ripetersi, variarsi, organizzarsi in una architettura sonora. Esso si affida alla memoria, come tutta la musica, la quale come ognuno sa per esperienza, non si ascolta, ma piuttosto si riascolta. Un tema dunque è e deve essere chiuso (perfino le melodie cosiddette “infinite” sono solo un po’ più lunghe di quelle normali, ma hanno anch’esse un inizio e una fine conseguente), ed è nello stesso tempo aperto al riproporsi continuo che è il gioco, il ludus musicale, fatto di immagini sonore cangianti, di vuoti e di pieni. Che Zorio naturalmente realizza poi con la sua arte povera che anch’essa esplora moduli, richiami, ritorni. Da questo punto di vista per Les Rencontres Rossiniennes 2006 la scelta di ispirarsi, nella sterminata produzione musicale e di quella di Rossini in particolare, a questo momento musicale non poteva essere più felice. La celeberrima stretta della sinfonia del Guillaume (che è quanto di quell’opera è nelle orecchie di tutti al mondo per l’uso e l’abuso che se ne fa) non avrebbe funzionato altrettanto bene, mancando di quella magia che il ranz, destinato a risuonare vicino, lontano e negli spazi, con nostalgia e tenerezza, possiede di suo. Come spessissimo avviene l’utilizzo da parte di un grande compositore di un tema popolare o, come in questo caso, di un modulo sonoro che in altre mani sarebbe stato di puro folclore, assume dimensione cosmica che è poi quella dimensione che, ritengo, le costruzioni stellari di Zorio vogliono a loro volta richiamare. Sappiamo che nella Parigi del 1829 ci si faceva un dovere di recuperare col massimo della fedeltà la couleur locale e che lo scenografo Ciceri fu spedito in Svizzera per ispirarsi “dal vero”. Ne nacque una Svizzera romantica e, con tutta la verosimiglianza e fedeltà, da romantico acquarello. Rossini dal canto suo non fece altrettanto. Non aveva bisogno di un viaggio fisico (cosa che detestava, col suo odio per le ferrovie, figuriamoci per le scalate!) per recuperare il senso della natura, del colore, della materia. Lo possedeva dentro di sé nella memoria ed era in grado di trasportarlo sulla carta pentagrammata ad uso degli ascoltatori, ma anche, felicemente, di tutti gli artisti a venire.
Ester Coen
testo tratto dal catalogo: Gilberto Zorio …Gasbeton… (Andantino)
Edizione il Teatro degli Artisti/Rossini Opera Festival
Sogno di libertà. Un sogno che solo le grandi leggende del passato possono narrare con il tono epico e favolistico di gesta e imprese puramente immaginarie. È il sogno che, dall’universo del pensiero, Gilberto Zorio trascina fin sulla terra ridisegnando con le sue forme i simboli dello spirito. Così, nel richiamo dell’eroico gesto di Guglielmo Tell, la stella si deposita nello spazio di una costruzione. Una torre bianca luminescente, leggera per le caratteristiche di quell’insolito materiale con cui è stata costruita, si alza nel vuoto della galleria con la forza della sfida, nell’eterno confronto dell’umano con il sovrannaturale. È il gesto di Guglielmo Tell, dell’ultima opera dell’ancor giovane Gioacchino Rossini, al culmine del successo ma forse già consapevole della spietata responsabilità di un simile atto. Di quel dardo scagliato da Guglielmo Tell a centrare la mela posata sulla testa del figlioletto, in cambio della vita e della libertà del suo popolo. Un racconto da tutti conosciuto. Ma l’estrema disperazione che spinse la figura leggendaria a mettere in pericolo la vita del ragazzo per scacciare dalla sua terra l’asburgico nemico, non è cosa da immaginare con altrettanta intelligenza. È una disperazione sorda, crudele, fosca, densa di terribili presagi. Quella di chi, non avendo più nulla da perdere, rischia l’impossibile mettendo in gioco la vita propria e quella dei suoi cari. È una disperazione ancestrale, atavica, antichissima le cui radici affondano nei tempi più remoti dell’umanità, dalla Bibbia alle tragedie greche, nelle terrifiche premonizioni, dove il fato ha già intrecciato le fila di un caso insensibile a ogni salvezza. Dalla ribellione a quel destino inesorabile scaturiscono le azioni più drammatiche ma ancor più cariche di eroica tensione verso l’assoluto, di valorosa, attiva, temeraria, spinta verso la speranza.
Questa storia è simile a tutti i drammi del mondo. C’è la libertà, il sacrificio di Isacco… anche qui c’è il sacrificio del figlio, il tiranno. È un inno alla speranza.
Qui è il tema che mi affascina, qui mi sento scenografo e anche un po’ narratore – il tema mi affascina, l’emozione, i ricordi… – poi queste torri stellate, stellari… La stella ha una forma aperta e chiusa, prolungando le estremità si arriva a coprire il mondo, perché riesci a moltiplicarle, come fosse un alveare a cinque punte. Mi piaceva la possibilità di poter invadere, di poter aprire lo spazio. Allo stesso tempo la stella è anche una forma molto chiusa, ha questo respiro molto ambiguo. Qui è un edificio “perforato”… una costruzione, che ti obbliga ad avere delle feritoie, se non modifichi il mattone fisicamente, tagliandolo. L’interno è illuminato da luci artificiali, poi è il fosforo a riemanare questa luce. Il fosforo si carica di energia e, appena si spegne la luce bianca, stroboscopica, lui la rigetta e quella diventa visibilissima mentre sul muro la polvere del minerale è quasi invisibile. Invece, niente, quella si fa vedere, cambia completamente la nostra retinazione; lo spettatore vede tutt’altro. Sono i muri che emettono luce, sono loro i portatori di memoria. Nell’attimo in cui si spengono tutte le luci “bianche” appare questa strisciata, con le note che, davvero, strisciano sul muro. Ecco quindi la memoria che emerge, con il suo linguaggio globale, come la musica, le note, i numeri.
Poi c’è la cavalcata finale. Io, invece, ho scelto il brano che la anticipa pensando al paesaggio, alle montagne… un paesaggio non solo svizzero. Potrebbe essere un deserto, le rocce, tutto, tutto… gli alberi, l’acqua. Quello che per noi dovrebbe essere vita, precede il grande scatto verso la speranza, la speranza, la speranza…
Zorio coglie quel segnale, quel miraggio di luce e, con sapienza, lo lascia decantare nella splendente immagine che compone. La metafora prende forma allora nella grande stella a cinque punte, una stella traforata negli angoli interni per segnalare ulteriori traiettorie di lucentezza e di iridescenza. Per rilevare la trasmissione e la diffusione di un’idea, di una rappresentazione mentale che si struttura in una visione dinamica, fiammeggiante, in un ribollire di energia e di sensorialità. Da sempre la stella ha designato, nella significazione della volta celeste, uno squarcio mirabile nel buio perenne delle tenebre. Nel trapassare l’oscurità e, insieme, nello scagliare il chiarore di una coscienza attraverso l’infinito della notte. Principio attivo e passivo, la stella ha la stessa potenza degli altri materiali che Zorio fa reagire in continuazione, scrollando e pungolando da sempre le leggi della fisica ma non riuscendo mai a sconfiggere quelle più tenaci della memoria, di quella facoltà di ritenere o richiamare alla mente i transiti del tempo, con le sue scorie e le sue eccedenze. Astro luminoso, svanito da epoche immemorabili, nella sua scia porta la ricaduta del suo filtrare, come i crogiuoli e i loro depositi di anni, a cui Zorio ridà la carica per nuovi, avventurosi viaggi. La stella è ora posata nella galleria. Uno dei suoi bracci si estende a suggerire altri luoghi, altri significati, altre dimensioni. Ed è la polvere di fosforo, dispensatrice di diversa luminosità, di una traccia rarefatta e trasparente, a riportare l’attenzione verso quelle tre pareti dove, all’accensione della luce artificiale, nel gioco impazzito di una stroboscopica aritmia, rasenti sul muro, appaiono le note dall’ouverture del Guglielmo Tell.
Ti ho mai raccontato della mia visita alle grotte di Toirano nelle montagne liguri… credo di avere avuto delle visioni. Le grotte sono impressionanti perché ci sono le tracce del terreno argilloso, temperatura a diciotto gradi sempre, estate e inverno. Sono molto profonde, piene di stalattiti e stalagmiti. Si entra come in una voragine di migliaia e migliaia di anni e con le luci accese diventa un altro luogo. Questo buio pazzesco di colpo libera le impronte, il calco, la memoria di ciò che è accaduto. Tutti zitti. Eravamo dentro un evento, dentro una testimonianza densissima. Nessun odore, era come trovarsi al centro di un’ovatta cosmica. È proprio il concetto della terra. Di colpo è affiorata una memoria, fortissima, di quando abitavo nel Molise e la nostra casa era vicino a un prato dove ogni anno veniva un circo con il suo piccolo zoo. Quando il circo lasciava quel terreno non c’era più erba ma solo impronte, escrementi, impronte dell’elefante. C’era un concentrato di animalità.
La sensazione è quella di un universo nel quale un’incalcolabile quantità di molecole è stata scossa e agitata con violenza fino a produrre una sospensione dai moti alterni. Ma lo spazio è concreto. È lo spazio dell’arte, perfettamente misurabile negli intervalli e negli attimi di arresto di questa divertita cavalcata di riverberi e raggi fosforescenti. Qui, nello spazio reale della galleria e negli spazi incorporei di un tempo irregolare, si alza la musica di Rossini. Pochi accenti ripetuti, quasi un malinconico soffio che precede in lontananza l’arrivo del boato, un sussurro dalla cadenza lieve, dissolta nell’atmosfera, che preannuncia il sopraggiungere di una condizione diversa. Nell’andare e venire di questi stati polimorfi e vari, provocati da scatti improvvisi e da cadute inattese, la stella rimane figura trionfante, corpo celeste catturato, teso come un fusto di colonna che guarda verso l’alto e intorno al quale prende forma e sostanza il meccanismo dell’azione. Una stella che ricorda le severe architetture delle torri medievali a far rivivere un mito di sette secoli prima, a dare il segno di una immutabilità della storia, della fermezza di un atto. La struttura bianca, vista dall’alto, mostra con tutta evidenza le cinque estremità appuntite della grande stella. Schiacciata al suolo, la forma si ricompone, annientando l’effetto volumetrico della costruzione e indicando un equilibrio precario che potrebbe all’improvviso infrangersi ma, con la stessa rapidità, nuovamente ritrovare una saldezza. Un portentoso meccanismo che la mano dell’artista attizza, quasi nella speranza di perdere il controllo scompigliato di quel congegno straordinario. Ma è nella crescita e nell’affastellamento di tutte le immagini afferrate e poi incise nel ricordo che si manifesta un bilanciamento. E l’immagine perenne del mito viene a coincidere con l’immagine caotica della grande invenzione.
Quand’ero bimbo, bimbo, bimbo, sette, otto anche sei anni, mio padre suonava il Guglielmo Tell col clarino. Lui suonava i fiati in una banda. È sempre stato molto appassionato e io quel motivo l’ho avuto sempre nell’orecchio.
Siamo talmente bombardati da suoni e immagini che non ci pensi più. Qualche anno fa sono andato nelle cascine dove sono nato io, in alto in alto, sul pendio e lì di colpo ho fatto il fischio di famiglia. Tutte le famiglie dalle mie parti avevano un loro richiamo, perché c’erano delle felci altissime e la tradizione era di andare a cercare funghi e mirtilli. Tutti andavamo, fino a quando sono andato via, nel sud, a nove anni. E allora ecco, di nuovo, quel richiamo… il Guglielmo Tell!
Gilberto Zorio è nato nel 1944 ad Adorno Micca, Biella, vive e lavora a Torino.
Protagonista del rivoluzionario movimento formatosi a metà degli anni Sessanta in Italia, denominato Arte Povera, Gilberto Zorio pone in primo piano metamorfosi e alchimie, esplorando nel suo lavoro fenomeni naturali di trasformazione come l’evaporazione o l’ossidazione e il loro effetto sui materiali. Da sempre l’idea di energia è la costante che attraversa la sua opera, privilegiando un’arte che si rivela nel suo farsi. L'attenzione rivolta all'elettricità lo porta a incorporare nei suoi lavori lampade, incandescenze, fosforescenze; altrove utilizza stelle e giavellotti, forme archetipiche comunque evocatrici di energia. La sua scultura predilige materiali fragili, da cui emergono gigantesche stelle acciaiose o alambicchi in pyrex, contenenti soluzioni liquide in bilico su sottili giavellotti d'acciaio: sospendendo questi elementi in installazioni volutamente precarie, l'artista parla delle tensioni e della caducità del mondo fisico e chimico mentale.
Dal ’67 ad oggi oltre alle mostre in gallerie private numerose le personali allestite presso spazi espositivi privati e pubblici come il Kunstmuseum di Lucerna nel ‘76, lo Stedelijk Museum di Amsterdam nel ’79, la Pinacoteca di Ravenna nell’82, la Biennale di Venezia nell’80,’86,’97, il Kunstverein di Stoccarda nell’85, il Centre d'Art Contemporain di Ginevra e il Centre Georges Pompidou di Parigi nell’86, la Philadelphia Tyler School of Art nell’88, la Fundaçao de Serralves di Oporto nel ‘90, l'Istituto Valenciano de Arte Moderna di Valencia nel’91, il Centro per l'Arte Contemporanea Pecci di Prato nel’92, la Documenta di Kassel nel ‘92, il Dia Center for the arts di New York nel 2001, l'Institut Mathildenhöhe di Darmstadt, nel 2005.
Presentazione mostra: Bruno Cagli, Ester Coen, Paolo Fabbri
Mostra realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, dell’Assessorato alla Cultura della Regione Marche, con la collaborazione dell’Assessorato alla cultura della Provincia di Pesaro e Urbino e con il patrocinio del Comune di Pesaro.
Bruno Cagli
testo tratto dal catalogo: Gilberto Zorio …Gasbeton… (Andantino)
Edizione il Teatro degli Artisti/Rossini Opera Festival
In principio è un tema, un tema che è quello dell’Andantino della sinfonia del Guillaume Tell affidato nell’originale al corno inglese, ma che Zorio recupera nella memoria dal padre che suonava il clarino nella banda del paese. Dunque l’evocazione della figura paterna e di alcuni primigeni ricordi musicali che sono anche di luoghi, di sensazioni visive e anche e perfino olfattive. E di fatto Zorio li collega ad echi ed effetti di visite alle grotte di Toirano, ma anche a ricordi fisici e terrestri (ma più che terrestri li direi materici) di quando abitava nel Molise. Il collegamento, quasi magico nella memoria, è pertinente al senso stesso di quella melodia che è, come forse non tutti sanno, un ranz de vaches cioè uno di quei temi delle montagne svizzere che servivano al richiamo degli animali. Lo strumento usato era l’Alphorn lungo fino a 4 metri e quindi capace di dolcezza, ma in grado nello stesso tempo di raggiungere punti lontani. Di fatto i pastori se ne servivano anche per eseguire e improvvisare semplici cantilene. La melodia dunque evoca e, nel caso di Zorio, rievoca immagini, funzioni gestuali, momenti non descrivibili a parole, ma che è possibile trasporre in una costruzione che è, come lo stesso Zorio dichiara, una “forma aperta” e allo stesso tempo una “forma chiusa”. Che è ciò che avviene nella musica. Un tema è un modulo architettonico, è un gesto che è tema proprio perché destinato a ripetersi, variarsi, organizzarsi in una architettura sonora. Esso si affida alla memoria, come tutta la musica, la quale come ognuno sa per esperienza, non si ascolta, ma piuttosto si riascolta. Un tema dunque è e deve essere chiuso (perfino le melodie cosiddette “infinite” sono solo un po’ più lunghe di quelle normali, ma hanno anch’esse un inizio e una fine conseguente), ed è nello stesso tempo aperto al riproporsi continuo che è il gioco, il ludus musicale, fatto di immagini sonore cangianti, di vuoti e di pieni. Che Zorio naturalmente realizza poi con la sua arte povera che anch’essa esplora moduli, richiami, ritorni. Da questo punto di vista per Les Rencontres Rossiniennes 2006 la scelta di ispirarsi, nella sterminata produzione musicale e di quella di Rossini in particolare, a questo momento musicale non poteva essere più felice. La celeberrima stretta della sinfonia del Guillaume (che è quanto di quell’opera è nelle orecchie di tutti al mondo per l’uso e l’abuso che se ne fa) non avrebbe funzionato altrettanto bene, mancando di quella magia che il ranz, destinato a risuonare vicino, lontano e negli spazi, con nostalgia e tenerezza, possiede di suo. Come spessissimo avviene l’utilizzo da parte di un grande compositore di un tema popolare o, come in questo caso, di un modulo sonoro che in altre mani sarebbe stato di puro folclore, assume dimensione cosmica che è poi quella dimensione che, ritengo, le costruzioni stellari di Zorio vogliono a loro volta richiamare. Sappiamo che nella Parigi del 1829 ci si faceva un dovere di recuperare col massimo della fedeltà la couleur locale e che lo scenografo Ciceri fu spedito in Svizzera per ispirarsi “dal vero”. Ne nacque una Svizzera romantica e, con tutta la verosimiglianza e fedeltà, da romantico acquarello. Rossini dal canto suo non fece altrettanto. Non aveva bisogno di un viaggio fisico (cosa che detestava, col suo odio per le ferrovie, figuriamoci per le scalate!) per recuperare il senso della natura, del colore, della materia. Lo possedeva dentro di sé nella memoria ed era in grado di trasportarlo sulla carta pentagrammata ad uso degli ascoltatori, ma anche, felicemente, di tutti gli artisti a venire.
Ester Coen
testo tratto dal catalogo: Gilberto Zorio …Gasbeton… (Andantino)
Edizione il Teatro degli Artisti/Rossini Opera Festival
Sogno di libertà. Un sogno che solo le grandi leggende del passato possono narrare con il tono epico e favolistico di gesta e imprese puramente immaginarie. È il sogno che, dall’universo del pensiero, Gilberto Zorio trascina fin sulla terra ridisegnando con le sue forme i simboli dello spirito. Così, nel richiamo dell’eroico gesto di Guglielmo Tell, la stella si deposita nello spazio di una costruzione. Una torre bianca luminescente, leggera per le caratteristiche di quell’insolito materiale con cui è stata costruita, si alza nel vuoto della galleria con la forza della sfida, nell’eterno confronto dell’umano con il sovrannaturale. È il gesto di Guglielmo Tell, dell’ultima opera dell’ancor giovane Gioacchino Rossini, al culmine del successo ma forse già consapevole della spietata responsabilità di un simile atto. Di quel dardo scagliato da Guglielmo Tell a centrare la mela posata sulla testa del figlioletto, in cambio della vita e della libertà del suo popolo. Un racconto da tutti conosciuto. Ma l’estrema disperazione che spinse la figura leggendaria a mettere in pericolo la vita del ragazzo per scacciare dalla sua terra l’asburgico nemico, non è cosa da immaginare con altrettanta intelligenza. È una disperazione sorda, crudele, fosca, densa di terribili presagi. Quella di chi, non avendo più nulla da perdere, rischia l’impossibile mettendo in gioco la vita propria e quella dei suoi cari. È una disperazione ancestrale, atavica, antichissima le cui radici affondano nei tempi più remoti dell’umanità, dalla Bibbia alle tragedie greche, nelle terrifiche premonizioni, dove il fato ha già intrecciato le fila di un caso insensibile a ogni salvezza. Dalla ribellione a quel destino inesorabile scaturiscono le azioni più drammatiche ma ancor più cariche di eroica tensione verso l’assoluto, di valorosa, attiva, temeraria, spinta verso la speranza.
Questa storia è simile a tutti i drammi del mondo. C’è la libertà, il sacrificio di Isacco… anche qui c’è il sacrificio del figlio, il tiranno. È un inno alla speranza.
Qui è il tema che mi affascina, qui mi sento scenografo e anche un po’ narratore – il tema mi affascina, l’emozione, i ricordi… – poi queste torri stellate, stellari… La stella ha una forma aperta e chiusa, prolungando le estremità si arriva a coprire il mondo, perché riesci a moltiplicarle, come fosse un alveare a cinque punte. Mi piaceva la possibilità di poter invadere, di poter aprire lo spazio. Allo stesso tempo la stella è anche una forma molto chiusa, ha questo respiro molto ambiguo. Qui è un edificio “perforato”… una costruzione, che ti obbliga ad avere delle feritoie, se non modifichi il mattone fisicamente, tagliandolo. L’interno è illuminato da luci artificiali, poi è il fosforo a riemanare questa luce. Il fosforo si carica di energia e, appena si spegne la luce bianca, stroboscopica, lui la rigetta e quella diventa visibilissima mentre sul muro la polvere del minerale è quasi invisibile. Invece, niente, quella si fa vedere, cambia completamente la nostra retinazione; lo spettatore vede tutt’altro. Sono i muri che emettono luce, sono loro i portatori di memoria. Nell’attimo in cui si spengono tutte le luci “bianche” appare questa strisciata, con le note che, davvero, strisciano sul muro. Ecco quindi la memoria che emerge, con il suo linguaggio globale, come la musica, le note, i numeri.
Poi c’è la cavalcata finale. Io, invece, ho scelto il brano che la anticipa pensando al paesaggio, alle montagne… un paesaggio non solo svizzero. Potrebbe essere un deserto, le rocce, tutto, tutto… gli alberi, l’acqua. Quello che per noi dovrebbe essere vita, precede il grande scatto verso la speranza, la speranza, la speranza…
Zorio coglie quel segnale, quel miraggio di luce e, con sapienza, lo lascia decantare nella splendente immagine che compone. La metafora prende forma allora nella grande stella a cinque punte, una stella traforata negli angoli interni per segnalare ulteriori traiettorie di lucentezza e di iridescenza. Per rilevare la trasmissione e la diffusione di un’idea, di una rappresentazione mentale che si struttura in una visione dinamica, fiammeggiante, in un ribollire di energia e di sensorialità. Da sempre la stella ha designato, nella significazione della volta celeste, uno squarcio mirabile nel buio perenne delle tenebre. Nel trapassare l’oscurità e, insieme, nello scagliare il chiarore di una coscienza attraverso l’infinito della notte. Principio attivo e passivo, la stella ha la stessa potenza degli altri materiali che Zorio fa reagire in continuazione, scrollando e pungolando da sempre le leggi della fisica ma non riuscendo mai a sconfiggere quelle più tenaci della memoria, di quella facoltà di ritenere o richiamare alla mente i transiti del tempo, con le sue scorie e le sue eccedenze. Astro luminoso, svanito da epoche immemorabili, nella sua scia porta la ricaduta del suo filtrare, come i crogiuoli e i loro depositi di anni, a cui Zorio ridà la carica per nuovi, avventurosi viaggi. La stella è ora posata nella galleria. Uno dei suoi bracci si estende a suggerire altri luoghi, altri significati, altre dimensioni. Ed è la polvere di fosforo, dispensatrice di diversa luminosità, di una traccia rarefatta e trasparente, a riportare l’attenzione verso quelle tre pareti dove, all’accensione della luce artificiale, nel gioco impazzito di una stroboscopica aritmia, rasenti sul muro, appaiono le note dall’ouverture del Guglielmo Tell.
Ti ho mai raccontato della mia visita alle grotte di Toirano nelle montagne liguri… credo di avere avuto delle visioni. Le grotte sono impressionanti perché ci sono le tracce del terreno argilloso, temperatura a diciotto gradi sempre, estate e inverno. Sono molto profonde, piene di stalattiti e stalagmiti. Si entra come in una voragine di migliaia e migliaia di anni e con le luci accese diventa un altro luogo. Questo buio pazzesco di colpo libera le impronte, il calco, la memoria di ciò che è accaduto. Tutti zitti. Eravamo dentro un evento, dentro una testimonianza densissima. Nessun odore, era come trovarsi al centro di un’ovatta cosmica. È proprio il concetto della terra. Di colpo è affiorata una memoria, fortissima, di quando abitavo nel Molise e la nostra casa era vicino a un prato dove ogni anno veniva un circo con il suo piccolo zoo. Quando il circo lasciava quel terreno non c’era più erba ma solo impronte, escrementi, impronte dell’elefante. C’era un concentrato di animalità.
La sensazione è quella di un universo nel quale un’incalcolabile quantità di molecole è stata scossa e agitata con violenza fino a produrre una sospensione dai moti alterni. Ma lo spazio è concreto. È lo spazio dell’arte, perfettamente misurabile negli intervalli e negli attimi di arresto di questa divertita cavalcata di riverberi e raggi fosforescenti. Qui, nello spazio reale della galleria e negli spazi incorporei di un tempo irregolare, si alza la musica di Rossini. Pochi accenti ripetuti, quasi un malinconico soffio che precede in lontananza l’arrivo del boato, un sussurro dalla cadenza lieve, dissolta nell’atmosfera, che preannuncia il sopraggiungere di una condizione diversa. Nell’andare e venire di questi stati polimorfi e vari, provocati da scatti improvvisi e da cadute inattese, la stella rimane figura trionfante, corpo celeste catturato, teso come un fusto di colonna che guarda verso l’alto e intorno al quale prende forma e sostanza il meccanismo dell’azione. Una stella che ricorda le severe architetture delle torri medievali a far rivivere un mito di sette secoli prima, a dare il segno di una immutabilità della storia, della fermezza di un atto. La struttura bianca, vista dall’alto, mostra con tutta evidenza le cinque estremità appuntite della grande stella. Schiacciata al suolo, la forma si ricompone, annientando l’effetto volumetrico della costruzione e indicando un equilibrio precario che potrebbe all’improvviso infrangersi ma, con la stessa rapidità, nuovamente ritrovare una saldezza. Un portentoso meccanismo che la mano dell’artista attizza, quasi nella speranza di perdere il controllo scompigliato di quel congegno straordinario. Ma è nella crescita e nell’affastellamento di tutte le immagini afferrate e poi incise nel ricordo che si manifesta un bilanciamento. E l’immagine perenne del mito viene a coincidere con l’immagine caotica della grande invenzione.
Quand’ero bimbo, bimbo, bimbo, sette, otto anche sei anni, mio padre suonava il Guglielmo Tell col clarino. Lui suonava i fiati in una banda. È sempre stato molto appassionato e io quel motivo l’ho avuto sempre nell’orecchio.
Siamo talmente bombardati da suoni e immagini che non ci pensi più. Qualche anno fa sono andato nelle cascine dove sono nato io, in alto in alto, sul pendio e lì di colpo ho fatto il fischio di famiglia. Tutte le famiglie dalle mie parti avevano un loro richiamo, perché c’erano delle felci altissime e la tradizione era di andare a cercare funghi e mirtilli. Tutti andavamo, fino a quando sono andato via, nel sud, a nove anni. E allora ecco, di nuovo, quel richiamo… il Guglielmo Tell!
08
agosto 2006
Gilberto Zorio – …Gasbeton… (Andantino)
Dall'otto agosto al 30 settembre 2006
arte contemporanea
Location
GALLERIA FRANCA MANCINI
Pesaro, Corso XI Settembre, 254, (Pesaro E Urbino)
Pesaro, Corso XI Settembre, 254, (Pesaro E Urbino)
Orario di apertura
10-12,30 e 17-20
lunedì e domenica 17-20
Vernissage
8 Agosto 2006, ore 18
Ufficio stampa
CIOLLIBOIANI
Autore