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Gillian Brett – UMARELL
Umarell, così si designa in dialetto bolognese il pensionato che, sovente con le mani intrecciate sul dorso, si dedica all’osservazione dei lavori in corso, per verificare, porre domande o dare consigli. Potrebbe essere una rappresentazione dell’uomo del nostro tempo condannato all’obsolescenza.
Comunicato stampa
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Umarell, così si designa in dialetto bolognese il pensionato che, sovente con le mani intrecciate sul dorso, si dedica all’osservazione dei lavori in corso, per verificare, porre domande o dare consigli. Potrebbe essere una rappresentazione dell’uomo del nostro tempo: condannato all’obsolescenza dal “progresso” tecnico, non gli resta che vagare nel mezzo del cantiere universale, prodigando consigli a un sistema che non ne ha bisogno.
Pertanto, uno storico dell’avvenire (ce ne saranno?) descriverà come forse a partire dalla fine del XX secolo si sia formata una nuova corrente politica, il movimento anti-industriale, che mira a contrastare la valanga tecnologica, considerata un fenomeno sociale così determinante e alienante come l’espansione del capitalismo. Influenzati dalle analisi di pensatori diversi come Lewis Mumford, Simone Weil, Hannah Arendt, Guenther Anders, Jaques Ellul o Ivan Illich, gli “anti-industrialisti” conducono la loro battaglia su fronti diversi, dal sabotaggio delle OGM alla critica della digitalizzazione, passando per la lotta ai “grandi progetti inutili e imposti”.
La storia recente ha visto sovente l’arte farsi proprie le grandi questioni politiche del suo tempo. Ma se si guarda bene ai risultati dell’estetica anarchista o comunista è difficile descrivere un ‘arte “anti-industriale”. C’è sicuramente il precedente memorabile di William Morris e del movimento “Arts and Crafts”, e la tentazione sarebbe evidentemente quella di ritornare agli attrezzi e ai materiali provenienti dal mondo “ecotecnico”: il legno, la pietra, l’olio di lino, l’inchiostro di china, ecc., e con essi a tutti quei gesti consacrati dalla tradizione, che le arti plastiche hanno ereditato dall’artigianato. Gillian Brett, il cui lavoro è animato dalla sfiducia nella tecnologia, che conosce le correnti “anti-industrialiste”, non ha pertanto scelto questa strada; preferisce non distogliere lo sguardo dal disastro in corso e guardare il problema in faccia.
Come racconta ella stessa, questa svolta così singolare della sua pratica è nata al Goldsmiths College (Londra), quando ha scoperto che questa prestigiosa istituzione, che si fregia di posizioni avanguardiste sul piano ecologico, rottama la sua attrezzatura informatica ogni 18 mesi. Da questi cimiteri di microprocessori, di schermi, di tastiere, destinati ad inquinare per sempre qualche regione desolata d’Africa o d’Asia, l’artista trae la materia della sua arte. Il “plastiglomerato” è il suo medium.
Tutto ciò che è destinato a perire e a nuocere lontano dagli sguardi, bisogna riportarlo sotto gli occhi dello spettatore, per sottolinearne la mostruosità e l’assurdità. Osservando le sue Bionic Leaves, allusione alle foglie artificiali in silicio concepite in laboratorio per migliorare la fotosintesi, guardando anche Phusis, Hubris, Debris, questo lago di cristalli liquidi dove galleggiano frammenti metallici, ci si ritrova a pensare alle analisi formulate dal teorico marxista Amadeo Bordiga verso la fine della sua vita: stiamo veramente assistendo ad una “mineralizzazione della natura” sotto il regno del capitalismo avanzato.
Questo sguardo disincantato e sarcastico Gillian Brett lo pone anche sul junk food, questo sostituto dei pasti sotto forma di pillole o in polvere, che dovrebbe apportare all’organismo, in una sola volta, tutti i nutrimenti di cui abbisogna. Anche qui l’artista svela agli occhi di tutti ciò di cui sono realmente composte queste chimere commercializzate dall’industria agroalimentare: la base reale della loro produzione sono
queste componenti elettroniche vetrificate, inserite nell’ambra ghiacciata della resina sintetica, come quegli insetti dei quali la stessa industria promette di farci presto gustare le prelibatezze. L’opera di Gillian Brett è tuttavia sprovvista del fatalismo che segna la maggior parte delle produzioni di arte contemporanea focalizzate sulla nozione di antropocene. Nello stesso modo in cui una parte dell’arte del XX secolo ha tentato di salvare gli oggetti dal loro destino di merce al fine di rendergli la dignità di cose (per riprendere le parole di Guenther Anders in Obdachlose Skulptur), l’artista salva dal loro destino di scarti tossici le sostanze contenute nella ganga macchinica, per riportarle alla loro origine, per restituirgli la loro bellezza intrinseca. I suoi Witnesses lo dimostravano già qualche anno fa: operatrice di una sorta di palingenesi del materiale, dietro i cavi, i circuiti stampati e le schede madri Gillian Brett ritrova l’oro, l’argento e il rame nella loro purezza verginale. Così facendo, ella procede a ritroso nella logica del ready-made che si è imposta nell’arte contemporanea. La necessità imperiosa che ella sente di realizzare da se stessa le sue opere mira a scardinare l’integrità del prodotto industriale che ha di fronte. Ella reinserisce la mano nelle sue prerogative artistiche, ora distruttrici, ora creatrici, forse un’eco del gesto dei luddisti del XIX secolo che smantellavano le macchine per difendere la loro libertà.
Le opere che ne risultano hanno talvolta una doppia lettura e lo spettatore naif può farsi ingannare: per esempio gli schermi LCD della serie After Hubble. Con la loro notte abissale disseminata di bagliori, le loro paillettes argentate, la loro polvere di quarzo ci rimandano un’immagine del cosmo che sembra corrispondere a quella che ci è data dalla tecnologia stessa, quella dei telescopi giganti inviati nello spazio.
Ma nella misura in cui questi schermi sono stati abilmente infranti o addirittura bruciati dall’artista, il titolo di questa serie potrebbe anche intendersi come un dopo-Hubble, l’annuncio di un’era post-tecnologica dove potremo finalmente, lontano dall’inquinamento luminoso delle metropoli, e senza la mediazione dei satelliti, ritrovare la poesia del cielo stellato.
Text by Patrick Marcolini
Pertanto, uno storico dell’avvenire (ce ne saranno?) descriverà come forse a partire dalla fine del XX secolo si sia formata una nuova corrente politica, il movimento anti-industriale, che mira a contrastare la valanga tecnologica, considerata un fenomeno sociale così determinante e alienante come l’espansione del capitalismo. Influenzati dalle analisi di pensatori diversi come Lewis Mumford, Simone Weil, Hannah Arendt, Guenther Anders, Jaques Ellul o Ivan Illich, gli “anti-industrialisti” conducono la loro battaglia su fronti diversi, dal sabotaggio delle OGM alla critica della digitalizzazione, passando per la lotta ai “grandi progetti inutili e imposti”.
La storia recente ha visto sovente l’arte farsi proprie le grandi questioni politiche del suo tempo. Ma se si guarda bene ai risultati dell’estetica anarchista o comunista è difficile descrivere un ‘arte “anti-industriale”. C’è sicuramente il precedente memorabile di William Morris e del movimento “Arts and Crafts”, e la tentazione sarebbe evidentemente quella di ritornare agli attrezzi e ai materiali provenienti dal mondo “ecotecnico”: il legno, la pietra, l’olio di lino, l’inchiostro di china, ecc., e con essi a tutti quei gesti consacrati dalla tradizione, che le arti plastiche hanno ereditato dall’artigianato. Gillian Brett, il cui lavoro è animato dalla sfiducia nella tecnologia, che conosce le correnti “anti-industrialiste”, non ha pertanto scelto questa strada; preferisce non distogliere lo sguardo dal disastro in corso e guardare il problema in faccia.
Come racconta ella stessa, questa svolta così singolare della sua pratica è nata al Goldsmiths College (Londra), quando ha scoperto che questa prestigiosa istituzione, che si fregia di posizioni avanguardiste sul piano ecologico, rottama la sua attrezzatura informatica ogni 18 mesi. Da questi cimiteri di microprocessori, di schermi, di tastiere, destinati ad inquinare per sempre qualche regione desolata d’Africa o d’Asia, l’artista trae la materia della sua arte. Il “plastiglomerato” è il suo medium.
Tutto ciò che è destinato a perire e a nuocere lontano dagli sguardi, bisogna riportarlo sotto gli occhi dello spettatore, per sottolinearne la mostruosità e l’assurdità. Osservando le sue Bionic Leaves, allusione alle foglie artificiali in silicio concepite in laboratorio per migliorare la fotosintesi, guardando anche Phusis, Hubris, Debris, questo lago di cristalli liquidi dove galleggiano frammenti metallici, ci si ritrova a pensare alle analisi formulate dal teorico marxista Amadeo Bordiga verso la fine della sua vita: stiamo veramente assistendo ad una “mineralizzazione della natura” sotto il regno del capitalismo avanzato.
Questo sguardo disincantato e sarcastico Gillian Brett lo pone anche sul junk food, questo sostituto dei pasti sotto forma di pillole o in polvere, che dovrebbe apportare all’organismo, in una sola volta, tutti i nutrimenti di cui abbisogna. Anche qui l’artista svela agli occhi di tutti ciò di cui sono realmente composte queste chimere commercializzate dall’industria agroalimentare: la base reale della loro produzione sono
queste componenti elettroniche vetrificate, inserite nell’ambra ghiacciata della resina sintetica, come quegli insetti dei quali la stessa industria promette di farci presto gustare le prelibatezze. L’opera di Gillian Brett è tuttavia sprovvista del fatalismo che segna la maggior parte delle produzioni di arte contemporanea focalizzate sulla nozione di antropocene. Nello stesso modo in cui una parte dell’arte del XX secolo ha tentato di salvare gli oggetti dal loro destino di merce al fine di rendergli la dignità di cose (per riprendere le parole di Guenther Anders in Obdachlose Skulptur), l’artista salva dal loro destino di scarti tossici le sostanze contenute nella ganga macchinica, per riportarle alla loro origine, per restituirgli la loro bellezza intrinseca. I suoi Witnesses lo dimostravano già qualche anno fa: operatrice di una sorta di palingenesi del materiale, dietro i cavi, i circuiti stampati e le schede madri Gillian Brett ritrova l’oro, l’argento e il rame nella loro purezza verginale. Così facendo, ella procede a ritroso nella logica del ready-made che si è imposta nell’arte contemporanea. La necessità imperiosa che ella sente di realizzare da se stessa le sue opere mira a scardinare l’integrità del prodotto industriale che ha di fronte. Ella reinserisce la mano nelle sue prerogative artistiche, ora distruttrici, ora creatrici, forse un’eco del gesto dei luddisti del XIX secolo che smantellavano le macchine per difendere la loro libertà.
Le opere che ne risultano hanno talvolta una doppia lettura e lo spettatore naif può farsi ingannare: per esempio gli schermi LCD della serie After Hubble. Con la loro notte abissale disseminata di bagliori, le loro paillettes argentate, la loro polvere di quarzo ci rimandano un’immagine del cosmo che sembra corrispondere a quella che ci è data dalla tecnologia stessa, quella dei telescopi giganti inviati nello spazio.
Ma nella misura in cui questi schermi sono stati abilmente infranti o addirittura bruciati dall’artista, il titolo di questa serie potrebbe anche intendersi come un dopo-Hubble, l’annuncio di un’era post-tecnologica dove potremo finalmente, lontano dall’inquinamento luminoso delle metropoli, e senza la mediazione dei satelliti, ritrovare la poesia del cielo stellato.
Text by Patrick Marcolini
15
marzo 2022
Gillian Brett – UMARELL
Dal 15 marzo al 15 aprile 2022
arte contemporanea
Location
C+N Gallery CANEPANERI
Milano, Foro Buonaparte, 48, (Milano)
Milano, Foro Buonaparte, 48, (Milano)
Orario di apertura
martedì venerdì 10-17 sabato su appuntamento
Vernissage
15 Marzo 2022, 17-20
Autore
Autore testo critico