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Giorgio Balboni – Realtà e apparenza
opere pittoriche del 2005
Comunicato stampa
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La mostra di Giorgio Balboni presenta opere pittoriche del 2005. La grande tecnica di Balboni non è l'unica qualità dell'artista ferrarese, la capacità narrativa ed allusiva è forse superiore alla sua maestria che gli è utile per estrarre dalla tela figure che alludono all'umano colpite da luci taglienti e rarefatte. La mostra rimarrà visitabile fino al 30 aprile 2006.
presentazione in catalogo di Franco Patruno
Forse c’era inquietudine anche nelle opere precedenti quelle esposte ora al "Carbone" e l’apparente ipostaticità di un "vero" specchiato, riflesso o indagato in ogni referenzialità corporea ed ambientale poteva sembrare serena solo in una ipotesi poetica che rendesse gradevolezza più alla ricezione che al quadro in quanto tale. In altre parole: il silenzio spaziale che veniva suggerito costituiva una ricerca, implicita o non sottintesa, e sotto certi aspetti una muta affermazione che il rumore non solo è un disturbo, ma un impedimento alla coscienza di sé e della propria artistica vocazione. Giorgio Balboni è amico da una vita e, se si pensa alle relazioni che si stabiliscono tra coloro che sono "del mestiere", la sua presenza è sicuramente una delle più riservate, malgrado la godibilità di un temperamento vivace e scherzoso. La tecnica che Giorgio ha privilegiato già dai primi lavori in anni lontani ha sempre richiesto un’attenzione ed una rara pazienza. Non è mai stato iper-realismo il suo, cioè non ha mai indugiato nella scelta, più filosofica che artistica in senso stretto, sull’opera come ingigantito calco della realtà, nell’intento di dimostrare che più si è propensi alla copia più ci si allontana dal vero. No, la sua ricerca, peraltro lontana anche dalla retorica grondante di Tommasi Ferroni, ha una componente di fissità metafisica, non intesa nel senso dell’avanguardia storica, ma in quella di un’analisi penetrante del blocco immobile, come in uno scatto fotografico staccato da ogni contesto sequenziale. Per chi è attento alla dialettica tra psicologia dell’autore ed opera realizzata, non potrà non constatare un contrasto tra il Giorgio delle conversazioni amicali e quello dei sui quadri, nei quali, sia detto in modo faceto e serio insieme, sembra plasmato come un pittore fiammingo del Seicento. Ma ora ciò che vedo mi inquieta favorevolmente e mi facilita il passaggio ad un pittore nel quale l’apprensione si carica di una formatività prossima a certi passaggi cinematografici del Polanski di "Rosmary’s Baby" e de "L’inquilino del terzo piano". Il mondo delle bambole, dei pupazzi e dei manichini da vetrina vive in un proscenio di fondi allusivi, con accessi al bruno o ad un verde scuro che prelude, quasi invocandolo, al nero translucido. Il rapporto tra gli indumenti che esibiscono pieghettature alla Dalì ed i volti è sempre ieratico, statico quanto mai, senza tentativi di introiettare nell’oggetto una speranza esistenziale. Solo un modello senza testa sembra prender carne nelle mani, ed una porta semichiusa lascia trasparire una luce naturale, mentre una splendida maschera adornata e giocata su un argento sinuosamente verdastro che inclina all’oro della falsa fronte, si libra nell’assoluto ed inedito silenzio di uno spazio ignoto, campeggiando nell’autoluminosità che dondola nel vuoto. Ma anche quello che ho definito "vuoto" è invece uno spazio relazionale, quasi in attesa di una decisiva presenza, di un avvento nel quale il palloncino azzurro di un "Senza titolo" del 2005 può forse osare d’uscire da un’aspettativa che sembra solo virtuale. Eppure, in questa fase della sua pittura, Giorgio pone l’indugio come passaggio e ricerca, lasciando alle domande sul futuro il divenire della sua pittura.
"GIORGIO BALBONI"
di Vittorio Sgarbi
dal catalogo del Dicembre 1997
curato da Beatrice Bassi
Galleria d’Arte “L’idea”, Ferrara
È impressionante osservare quanto il realismo fotografico o Iperrealismo o il riporto fotografico stiano raccogliendo interesse presso i giovani artisti internazionali.
È indubbiamente un riflesso di due attuali momenti della fotografia e delle arti tradizionali, che possono dirsi quasi contrapponibili. Credo che il grande, generalizzato "ritorno" delle arti tradizionali alla fotografia, dopo gli exploits degli anni Sessanta e Settanta, faccia intendere qualcosa di più preciso e significativo. Si guarda alla fotografia perché anche le giovani leve dell'arte contemporanea sentono un grande bisogno di referenzialità, quello a cui il mezzo fotografico fa sempre riferimento.
Le arti tradizionali, al contrario, non hanno la capacità. di riprodurre un oggetto se non con una personale interpretazione; in altre parole la pittura e la scultura, proprio perché non meccaniche, rendono non l'oggetto, ma una sua possibile rappresentazione. Così si è mossa la storia dell'arte occidentale nel corso dei secoli. Tra l'arte Greca e il tardo Ottocento è valso il principio di una rigida imitazione della natura. Dal tardo ottocento in poi ha prevalso invece la linea contraria. Quest'ultimo processo si verifica peraltro con l'avvento di una società industriale e post-industriale nella quale il ruolo dei mezzi meccanici referenziali (fotografia, cinema, televisione, ora anche informatica) è diventato straordinariamente rilevante. Sappiamo benissimo che la comunicazione globale dei mass-media, così tipica dei nostri tempi, si basa fondamentalmente sul consumo continuo di immagini referenziali. Analogamente Warhol ritiene che la figurazione dell'epoca dei rnass-media debba vedere la realtà, non così come gli uomini la vedono, ma come la riproducono la grafica pubblicitaria, la fotografia, il cinema, latelevisione. È questa la ragione per la quale Warhol si preoccupa di adottare sistematicamente nella sua pittura le tecniche tipografiche e il riporto dalla fotografia, identificando in essi non solo un mezzo, ma un vero e proprio modo di concepire la forma figurativa. Si tratta di un passo decisamente cruciale per le vicende della figurazione pittorica nel Novecento.
Bisogna dare atto a Giorgio Balboni di essere stato uno degli autori italiani che tra i primi e con più convinzione hanno compreso il vero senso della svolta che la figurazione Pop imponeva all'arte contemporanea. Si doveva scegliere tra una pittura che fosse chiusa entro i confini dell'Io e un'altra che fosse aperta alla vita "esterna", ai mutamenti che in essa stava apportando I'imperante civiltà dei mass-media; Balboni ha scelto la seconda soluzione, certamente - a dispetto dei luoghi comuni - la più moderna.
Si doveva scegliere tra un linguaggio che svolgesse la sua funzione entro una ristretta cerchia di "addetti ai lavori" e un altro che si rivolgesse a un pubblico enormemente più esteso, non necessariamente specialistico; Balboni ha scelto sempre la seconda strada, certamente la più fiduciosa e progredita nell'intendere ancora I'arte come grande comunicazione di massa.
Ciò che francamente risulta retrogrado, sommario, fuorviante è cominciare a ritenere che le scelte di Balboni siano state effettuate entro uno scenario che contempla due soli schieramenti possibili: i modernisti, ovvero I'Avanguardia non figurativa, gli innovatori, (sono) i "buoni" sempre e comunque; e, invece, i passatisti, ovvero tutto quanto esula dall'Avanguardia non figurativa, i conservatori, sono i "cattivi". Questa è una visione puramente settaria degli eventi che hanno interessato I'arte contemporanea dagli anni Sessanta in poi. Non dobbiamo, nell'epoca che ha eletto la figurazione (fosse pure d'origine meccanica) a elemento imprescindibile della sua civiltà, considerare i pittori figurativi, o almeno certi pittori figurativi, passatisti per forza. Le scelte - quelle vere - di Balboni sono state enormemente più aggiornate ai tempi di quanto non potessero essere le posizioni di un epigono dell'Informale o di uno sperimentatore concettuale. Dov'è la modernità in un'arte che vuole essere solo esercizio dr laboratorio, che si rifiuta di confrontarsi direttamente con il mondo attuale? Quella è arte che premeditatamente non vuole essere "nel tempo", è arte che si vuole porre al di fuori del tempo corrente. Proprio il contrario di quanto recita qualsiasi definizione di modernità.
Balboni "neo-accademico"? Un'altra sciocchezza. Indubbiamente è esistita, esiste tuttora una larga fetta della figurazione pittorica che è formalmente e idealmente legata al retaggio accademico. Si può capire che un Annigoni o anche un Vespignani sono Accademici. Ma Balboni è di un'altra razza. La sua è una figurazione pienamente contempofanea, figlia della Pop-Art e dell'Iperrealismo, un modo attualissimo di concepire I'immagine e la forma che nulla ha a che fare con il naturalismo accademico.
Piuttosto il percorso della pittura di Balboni andrà, valutato come un'ulteriore, sapiente riflessione sull'impossibilità di un'arte che si dia come referenzialità pura. È difficile immaginare una pittura più oggettiva di quella di Balboni, nel senso che rappresenta persone e oggetti senza che su di essi sovrapponga alcuna apparente intenzione espressiva. Ma è proprio così? Non alludo tanto a certe opere, specie le più remote, in cui il marcato plasticismo luministico o certo vigore disegnativo possono certamente rinviare a una precisa volontà dell'artista. Penso invece alle opere più "neutre" di Balboni, quelle per le quali saremmo pronti a giurare sull"'assenza" dell'autore. Anche in questo caso il discorso non muterebbe di troppo: scegliere un certo tipo di soggetto piuttosto che un altro, scegliere una certa ambientazione, una certa posa, una certa resa del colore, perfino scegliere una pittura dalla fedeltà fotografica, significa ugualmente esprimere, autorefefenziarsi. Si può allora esprimere deformando o ignorando la realtà oggettiva, ma si può ottenere lo stesso esito anche con I'atteggiamento opposto. È questa la grande scoperta, la grande regola della migliore figurazione novecentesca (Metafisica, Realismo, Magico, Pop-Art, Iperrealismo): più cerchi di avvicinarti alla neutralità dell'oggetto, più cresce il conturbante senso di estraneità dal reale della rappresentazione. Balboni, naturalmente, Conosce benissimo tutte queste cose.
presentazione in catalogo di Franco Patruno
Forse c’era inquietudine anche nelle opere precedenti quelle esposte ora al "Carbone" e l’apparente ipostaticità di un "vero" specchiato, riflesso o indagato in ogni referenzialità corporea ed ambientale poteva sembrare serena solo in una ipotesi poetica che rendesse gradevolezza più alla ricezione che al quadro in quanto tale. In altre parole: il silenzio spaziale che veniva suggerito costituiva una ricerca, implicita o non sottintesa, e sotto certi aspetti una muta affermazione che il rumore non solo è un disturbo, ma un impedimento alla coscienza di sé e della propria artistica vocazione. Giorgio Balboni è amico da una vita e, se si pensa alle relazioni che si stabiliscono tra coloro che sono "del mestiere", la sua presenza è sicuramente una delle più riservate, malgrado la godibilità di un temperamento vivace e scherzoso. La tecnica che Giorgio ha privilegiato già dai primi lavori in anni lontani ha sempre richiesto un’attenzione ed una rara pazienza. Non è mai stato iper-realismo il suo, cioè non ha mai indugiato nella scelta, più filosofica che artistica in senso stretto, sull’opera come ingigantito calco della realtà, nell’intento di dimostrare che più si è propensi alla copia più ci si allontana dal vero. No, la sua ricerca, peraltro lontana anche dalla retorica grondante di Tommasi Ferroni, ha una componente di fissità metafisica, non intesa nel senso dell’avanguardia storica, ma in quella di un’analisi penetrante del blocco immobile, come in uno scatto fotografico staccato da ogni contesto sequenziale. Per chi è attento alla dialettica tra psicologia dell’autore ed opera realizzata, non potrà non constatare un contrasto tra il Giorgio delle conversazioni amicali e quello dei sui quadri, nei quali, sia detto in modo faceto e serio insieme, sembra plasmato come un pittore fiammingo del Seicento. Ma ora ciò che vedo mi inquieta favorevolmente e mi facilita il passaggio ad un pittore nel quale l’apprensione si carica di una formatività prossima a certi passaggi cinematografici del Polanski di "Rosmary’s Baby" e de "L’inquilino del terzo piano". Il mondo delle bambole, dei pupazzi e dei manichini da vetrina vive in un proscenio di fondi allusivi, con accessi al bruno o ad un verde scuro che prelude, quasi invocandolo, al nero translucido. Il rapporto tra gli indumenti che esibiscono pieghettature alla Dalì ed i volti è sempre ieratico, statico quanto mai, senza tentativi di introiettare nell’oggetto una speranza esistenziale. Solo un modello senza testa sembra prender carne nelle mani, ed una porta semichiusa lascia trasparire una luce naturale, mentre una splendida maschera adornata e giocata su un argento sinuosamente verdastro che inclina all’oro della falsa fronte, si libra nell’assoluto ed inedito silenzio di uno spazio ignoto, campeggiando nell’autoluminosità che dondola nel vuoto. Ma anche quello che ho definito "vuoto" è invece uno spazio relazionale, quasi in attesa di una decisiva presenza, di un avvento nel quale il palloncino azzurro di un "Senza titolo" del 2005 può forse osare d’uscire da un’aspettativa che sembra solo virtuale. Eppure, in questa fase della sua pittura, Giorgio pone l’indugio come passaggio e ricerca, lasciando alle domande sul futuro il divenire della sua pittura.
"GIORGIO BALBONI"
di Vittorio Sgarbi
dal catalogo del Dicembre 1997
curato da Beatrice Bassi
Galleria d’Arte “L’idea”, Ferrara
È impressionante osservare quanto il realismo fotografico o Iperrealismo o il riporto fotografico stiano raccogliendo interesse presso i giovani artisti internazionali.
È indubbiamente un riflesso di due attuali momenti della fotografia e delle arti tradizionali, che possono dirsi quasi contrapponibili. Credo che il grande, generalizzato "ritorno" delle arti tradizionali alla fotografia, dopo gli exploits degli anni Sessanta e Settanta, faccia intendere qualcosa di più preciso e significativo. Si guarda alla fotografia perché anche le giovani leve dell'arte contemporanea sentono un grande bisogno di referenzialità, quello a cui il mezzo fotografico fa sempre riferimento.
Le arti tradizionali, al contrario, non hanno la capacità. di riprodurre un oggetto se non con una personale interpretazione; in altre parole la pittura e la scultura, proprio perché non meccaniche, rendono non l'oggetto, ma una sua possibile rappresentazione. Così si è mossa la storia dell'arte occidentale nel corso dei secoli. Tra l'arte Greca e il tardo Ottocento è valso il principio di una rigida imitazione della natura. Dal tardo ottocento in poi ha prevalso invece la linea contraria. Quest'ultimo processo si verifica peraltro con l'avvento di una società industriale e post-industriale nella quale il ruolo dei mezzi meccanici referenziali (fotografia, cinema, televisione, ora anche informatica) è diventato straordinariamente rilevante. Sappiamo benissimo che la comunicazione globale dei mass-media, così tipica dei nostri tempi, si basa fondamentalmente sul consumo continuo di immagini referenziali. Analogamente Warhol ritiene che la figurazione dell'epoca dei rnass-media debba vedere la realtà, non così come gli uomini la vedono, ma come la riproducono la grafica pubblicitaria, la fotografia, il cinema, latelevisione. È questa la ragione per la quale Warhol si preoccupa di adottare sistematicamente nella sua pittura le tecniche tipografiche e il riporto dalla fotografia, identificando in essi non solo un mezzo, ma un vero e proprio modo di concepire la forma figurativa. Si tratta di un passo decisamente cruciale per le vicende della figurazione pittorica nel Novecento.
Bisogna dare atto a Giorgio Balboni di essere stato uno degli autori italiani che tra i primi e con più convinzione hanno compreso il vero senso della svolta che la figurazione Pop imponeva all'arte contemporanea. Si doveva scegliere tra una pittura che fosse chiusa entro i confini dell'Io e un'altra che fosse aperta alla vita "esterna", ai mutamenti che in essa stava apportando I'imperante civiltà dei mass-media; Balboni ha scelto la seconda soluzione, certamente - a dispetto dei luoghi comuni - la più moderna.
Si doveva scegliere tra un linguaggio che svolgesse la sua funzione entro una ristretta cerchia di "addetti ai lavori" e un altro che si rivolgesse a un pubblico enormemente più esteso, non necessariamente specialistico; Balboni ha scelto sempre la seconda strada, certamente la più fiduciosa e progredita nell'intendere ancora I'arte come grande comunicazione di massa.
Ciò che francamente risulta retrogrado, sommario, fuorviante è cominciare a ritenere che le scelte di Balboni siano state effettuate entro uno scenario che contempla due soli schieramenti possibili: i modernisti, ovvero I'Avanguardia non figurativa, gli innovatori, (sono) i "buoni" sempre e comunque; e, invece, i passatisti, ovvero tutto quanto esula dall'Avanguardia non figurativa, i conservatori, sono i "cattivi". Questa è una visione puramente settaria degli eventi che hanno interessato I'arte contemporanea dagli anni Sessanta in poi. Non dobbiamo, nell'epoca che ha eletto la figurazione (fosse pure d'origine meccanica) a elemento imprescindibile della sua civiltà, considerare i pittori figurativi, o almeno certi pittori figurativi, passatisti per forza. Le scelte - quelle vere - di Balboni sono state enormemente più aggiornate ai tempi di quanto non potessero essere le posizioni di un epigono dell'Informale o di uno sperimentatore concettuale. Dov'è la modernità in un'arte che vuole essere solo esercizio dr laboratorio, che si rifiuta di confrontarsi direttamente con il mondo attuale? Quella è arte che premeditatamente non vuole essere "nel tempo", è arte che si vuole porre al di fuori del tempo corrente. Proprio il contrario di quanto recita qualsiasi definizione di modernità.
Balboni "neo-accademico"? Un'altra sciocchezza. Indubbiamente è esistita, esiste tuttora una larga fetta della figurazione pittorica che è formalmente e idealmente legata al retaggio accademico. Si può capire che un Annigoni o anche un Vespignani sono Accademici. Ma Balboni è di un'altra razza. La sua è una figurazione pienamente contempofanea, figlia della Pop-Art e dell'Iperrealismo, un modo attualissimo di concepire I'immagine e la forma che nulla ha a che fare con il naturalismo accademico.
Piuttosto il percorso della pittura di Balboni andrà, valutato come un'ulteriore, sapiente riflessione sull'impossibilità di un'arte che si dia come referenzialità pura. È difficile immaginare una pittura più oggettiva di quella di Balboni, nel senso che rappresenta persone e oggetti senza che su di essi sovrapponga alcuna apparente intenzione espressiva. Ma è proprio così? Non alludo tanto a certe opere, specie le più remote, in cui il marcato plasticismo luministico o certo vigore disegnativo possono certamente rinviare a una precisa volontà dell'artista. Penso invece alle opere più "neutre" di Balboni, quelle per le quali saremmo pronti a giurare sull"'assenza" dell'autore. Anche in questo caso il discorso non muterebbe di troppo: scegliere un certo tipo di soggetto piuttosto che un altro, scegliere una certa ambientazione, una certa posa, una certa resa del colore, perfino scegliere una pittura dalla fedeltà fotografica, significa ugualmente esprimere, autorefefenziarsi. Si può allora esprimere deformando o ignorando la realtà oggettiva, ma si può ottenere lo stesso esito anche con I'atteggiamento opposto. È questa la grande scoperta, la grande regola della migliore figurazione novecentesca (Metafisica, Realismo, Magico, Pop-Art, Iperrealismo): più cerchi di avvicinarti alla neutralità dell'oggetto, più cresce il conturbante senso di estraneità dal reale della rappresentazione. Balboni, naturalmente, Conosce benissimo tutte queste cose.
08
aprile 2006
Giorgio Balboni – Realtà e apparenza
Dall'otto al 30 aprile 2006
arte contemporanea
Location
GALLERIA DEL CARBONE
Ferrara, Via Del Carbone, 18, (Ferrara)
Ferrara, Via Del Carbone, 18, (Ferrara)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì 17-20; sabato e festivi 10.30-12.30 e 17-20; martedì chiuso
Vernissage
8 Aprile 2006, ore 18.30
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