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Giorgio Braghieri
Dipinti e disegni su formato quadrato impostati sulle trasparenze e le opacità, su un supporto che riutilizza vecchi teli di lino campiture e velature si dispongono a comporre un’armonia astratta, in cui immagine, procedimento e materia coincidono, rievocando l’antico concetto di technè.
Comunicato stampa
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Sovente nello sguardo del sognatore si incrociano gli spunti di una razionalità che assume la funzione di elemento di trasformazione. Quel soprassalto improvviso che fa scattare la percezione e la spinge verso territori dell’immaginazione, inaspettati e altrimenti inavvertibili. Così avviene nella pittura di Giorgio Braghieri. Dipinti e disegni su formato quadrato, impostati sulle trasparenze e sulle opacità di un cromatismo semplificato: su un fondo chiarissimo le gradazioni del grigio e le tonalità attenuate delle terre si accostano alle partiture intense dei neri, opachi e fluttuanti come fumi oppure netti e lucidi come acque profonde.
Braghieri procede per campiture, sovrapposizioni, velature; costruisce superfici irregolari e asimmetriche che si dilatano fin sullo spessore della cornice.
Lavora sui rapporti tra spazio e colore, prediligendo una saturazione attenuata e accostamenti discontinui in modo da determinare un impianto compositivo non figurativo che sfugge tuttavia da ogni rigida definizione; non aderisce all’analisi geometrica della rappresentazione di un mondo non/oggettivo e non/naturalistico e neppure all’emotività immediata del gesto informale, anche se si avverte nelle sue opere il lascito culturale della grande stagione dell’arte astratta, quale si è diffusa tra le avanguardie storiche e talune componenti delle neoavanguardie.
Il referente principale della pittura di Giorgio è la materia stessa: materia plasmabile, materia lavorata, materia formata, materia come sensazione, secondo una prassi che investe totalmente l’opera. Materia come matrice, secondo una concezione che richiama alla memoria il ritratto della madre che Umberto Boccioni dipinse nel 1912 intitolandolo Materia, a significare la densità di una figura simbolica identificabile con un archetipo primordiale.
Ma, in Giorgio Braghieri, questo riferimento alla materia si caratterizza anche per certe venature concettuali e intenti teorici che spingono a mettere in discussione le più comuni convenzioni del fare pittorico. Il suo modo di dipingere comporta infatti una presa di posizione mentale ben precisa, perché la sua elaborazione accurata e colta risponde non solo alla ricerca di effetti tonali e cromatici, non solo all’elaborazione sensibile di un’esperienza percettiva di particolare spessore, ma anche a una rivendicazione di semplicità, di essenzialità, di resistenza rispetto all’omologazione e alle convenzioni che dominano tanti aspetti della cultura contemporanea. Nell’era delle “nuove tecnologie” l’artista esibisce una tecnologia antica e desueta che rivela la possibilità di rievocare, anzi di testimoniare, i frammenti di una storia.
Il quadro diventa infatti un campo di forze in tensione, in virtù di un modo di pensare e di fare la pittura che Braghieri persegue con assoluta coerenza. L’artista prepara manualmente gli elementi dei suoi quadri: per il supporto non adopera la tela tradizionale ma monta sul telaio dei pezzi di lenzuola di lino, vecchi tessuti che nella grana sottile della trama e dell’ordito, nei rammendi quasi invisibili e nelle tracce di ricami e orli a punto a giorno, diventano essi stessi immagine, interferiscono con le superfici di colore, e trattengono il ricordo sbiadito di una storia. Come se il dipingere potesse suggerire una sorta di elaborazione dell’oblio.
I colori vengono manufatti secondo l’antico metodo di lavorazione dei pigmenti, utilizzando materiali poveri, terre, ossidi, carbone; le terre sono setacciate, purificate, lasciate decantare e poi filtrate; il nero di vite è ottenuto dalla cottura a carbone di tralci di vite; il legante è costituito da acqua e colla animale, in modo che la cromia si possa incorporare e non solo sovrapporsi alla texture del lino, per intridersi nel supporto come nell’arte tintoria o come nell’antica tecnica del buon fresco su muro.
Dalla materia all’immagine, dunque, volendo evidenziare il procedimento stesso del fare pittura in quanto forma e lasciando comunque in evidenza la materia. In questo consiste infatti uno dei motivi portanti del fascino dei dipinti di Giorgio Braghieri, nel far emergere e nel mostrare un’impalpabile metamorfosi dell’elemento fisico ma senza occultare la realtà originaria di questa fisicità; anzi assecondandola, e nello stesso tempo sottraendola dalla contingenza inespressiva per sublimarla come forma. Solo in questo modo la sua esperienza può filtrare fino allo sguardo e all’immaginazione dell’osservatore.
Perché la dimensione creativa di Braghieri è quella di un artista/artigiano/alchimista che parte dalla conoscenza di un’antica tradizione, quella dei trattati e dei ricettari medievali che ereditavano, modificandola, l’idea di arte come technè espressa dalla cultura greca.
Come è noto, il valore attribuito alla manualità dell’arte insito nella coincidenza semantica arte/tecnica comporta una serie complessa di interpretazioni; sta di fatto comunque che questa concezione si stempera progressivamente nella trattatistica rinascimentale via via che nella nozione di arte si allarga il concetto di idea e si afferma la supremazia dell’invenzione rispetto al fare. Dal Quattrocento in poi la pittura mira ad emanciparsi dall’attività manuale per rivendicare il proprio carattere intellettuale, speculativo e inventivo, innescando un lungo processo di elaborazione, tanto è vero che la rivoluzione francese dovrà ribadire ancora la libertà degli artisti dal lavoro meccanico. Se Cennino Cennini nel Libro dell’arte, alla fine del XVI secolo, raccomanda di seguire un lungo apprendistato a bottega per arrivare alla “buona pratica”, di lì a pochi decenni Leon Battista Alberti fa appello alla cultura umanistica del pittore che deve essere “dotto in buone lettere”, conoscere la geometria e la matematica, ispirarsi alla natura e all’antico: e Leonardo teorizza di “scienza della pittura” e di “pittura come cosa mentale”, ma specificando che “la pittura è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione”. D’altronde anche la scienza romantica di un Runge e di un Goethe, agli inizi
dell’Ottocento, cercherà di proporre una soluzione emotiva e metaforica alle implicazioni percettive delle moderne teorie del colore inaugurate da Newton.
Il metodo di lavoro di Braghieri affonda dunque le sue radici all’interno di questa storia della pittura e dei pigmenti, che è anche e innanzitutto storia di idee e di sogni, storia di ricerche, identità e aspirazioni.
Perché egli sa intimamente che, per quel che riguarda l’arte, la tecnica non è solo fare e saper fare, ma è essa stessa linguaggio e interpretazione. Non solo un insieme di procedure, prescrizioni e ricette, non solo uno strumento operativo ma anche e soprattutto un territorio di scelte possibili e modificabili, quelle che rendono attuabile la mutazione del dato materiale in qualità estetica. Su questo crinale, tra derive e interazioni di una fisicità esibita
e raffinata, la sua pittura implode come un dispositivo sensibile capace di toccare corde profonde.
Silvia Bordini
Braghieri procede per campiture, sovrapposizioni, velature; costruisce superfici irregolari e asimmetriche che si dilatano fin sullo spessore della cornice.
Lavora sui rapporti tra spazio e colore, prediligendo una saturazione attenuata e accostamenti discontinui in modo da determinare un impianto compositivo non figurativo che sfugge tuttavia da ogni rigida definizione; non aderisce all’analisi geometrica della rappresentazione di un mondo non/oggettivo e non/naturalistico e neppure all’emotività immediata del gesto informale, anche se si avverte nelle sue opere il lascito culturale della grande stagione dell’arte astratta, quale si è diffusa tra le avanguardie storiche e talune componenti delle neoavanguardie.
Il referente principale della pittura di Giorgio è la materia stessa: materia plasmabile, materia lavorata, materia formata, materia come sensazione, secondo una prassi che investe totalmente l’opera. Materia come matrice, secondo una concezione che richiama alla memoria il ritratto della madre che Umberto Boccioni dipinse nel 1912 intitolandolo Materia, a significare la densità di una figura simbolica identificabile con un archetipo primordiale.
Ma, in Giorgio Braghieri, questo riferimento alla materia si caratterizza anche per certe venature concettuali e intenti teorici che spingono a mettere in discussione le più comuni convenzioni del fare pittorico. Il suo modo di dipingere comporta infatti una presa di posizione mentale ben precisa, perché la sua elaborazione accurata e colta risponde non solo alla ricerca di effetti tonali e cromatici, non solo all’elaborazione sensibile di un’esperienza percettiva di particolare spessore, ma anche a una rivendicazione di semplicità, di essenzialità, di resistenza rispetto all’omologazione e alle convenzioni che dominano tanti aspetti della cultura contemporanea. Nell’era delle “nuove tecnologie” l’artista esibisce una tecnologia antica e desueta che rivela la possibilità di rievocare, anzi di testimoniare, i frammenti di una storia.
Il quadro diventa infatti un campo di forze in tensione, in virtù di un modo di pensare e di fare la pittura che Braghieri persegue con assoluta coerenza. L’artista prepara manualmente gli elementi dei suoi quadri: per il supporto non adopera la tela tradizionale ma monta sul telaio dei pezzi di lenzuola di lino, vecchi tessuti che nella grana sottile della trama e dell’ordito, nei rammendi quasi invisibili e nelle tracce di ricami e orli a punto a giorno, diventano essi stessi immagine, interferiscono con le superfici di colore, e trattengono il ricordo sbiadito di una storia. Come se il dipingere potesse suggerire una sorta di elaborazione dell’oblio.
I colori vengono manufatti secondo l’antico metodo di lavorazione dei pigmenti, utilizzando materiali poveri, terre, ossidi, carbone; le terre sono setacciate, purificate, lasciate decantare e poi filtrate; il nero di vite è ottenuto dalla cottura a carbone di tralci di vite; il legante è costituito da acqua e colla animale, in modo che la cromia si possa incorporare e non solo sovrapporsi alla texture del lino, per intridersi nel supporto come nell’arte tintoria o come nell’antica tecnica del buon fresco su muro.
Dalla materia all’immagine, dunque, volendo evidenziare il procedimento stesso del fare pittura in quanto forma e lasciando comunque in evidenza la materia. In questo consiste infatti uno dei motivi portanti del fascino dei dipinti di Giorgio Braghieri, nel far emergere e nel mostrare un’impalpabile metamorfosi dell’elemento fisico ma senza occultare la realtà originaria di questa fisicità; anzi assecondandola, e nello stesso tempo sottraendola dalla contingenza inespressiva per sublimarla come forma. Solo in questo modo la sua esperienza può filtrare fino allo sguardo e all’immaginazione dell’osservatore.
Perché la dimensione creativa di Braghieri è quella di un artista/artigiano/alchimista che parte dalla conoscenza di un’antica tradizione, quella dei trattati e dei ricettari medievali che ereditavano, modificandola, l’idea di arte come technè espressa dalla cultura greca.
Come è noto, il valore attribuito alla manualità dell’arte insito nella coincidenza semantica arte/tecnica comporta una serie complessa di interpretazioni; sta di fatto comunque che questa concezione si stempera progressivamente nella trattatistica rinascimentale via via che nella nozione di arte si allarga il concetto di idea e si afferma la supremazia dell’invenzione rispetto al fare. Dal Quattrocento in poi la pittura mira ad emanciparsi dall’attività manuale per rivendicare il proprio carattere intellettuale, speculativo e inventivo, innescando un lungo processo di elaborazione, tanto è vero che la rivoluzione francese dovrà ribadire ancora la libertà degli artisti dal lavoro meccanico. Se Cennino Cennini nel Libro dell’arte, alla fine del XVI secolo, raccomanda di seguire un lungo apprendistato a bottega per arrivare alla “buona pratica”, di lì a pochi decenni Leon Battista Alberti fa appello alla cultura umanistica del pittore che deve essere “dotto in buone lettere”, conoscere la geometria e la matematica, ispirarsi alla natura e all’antico: e Leonardo teorizza di “scienza della pittura” e di “pittura come cosa mentale”, ma specificando che “la pittura è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione”. D’altronde anche la scienza romantica di un Runge e di un Goethe, agli inizi
dell’Ottocento, cercherà di proporre una soluzione emotiva e metaforica alle implicazioni percettive delle moderne teorie del colore inaugurate da Newton.
Il metodo di lavoro di Braghieri affonda dunque le sue radici all’interno di questa storia della pittura e dei pigmenti, che è anche e innanzitutto storia di idee e di sogni, storia di ricerche, identità e aspirazioni.
Perché egli sa intimamente che, per quel che riguarda l’arte, la tecnica non è solo fare e saper fare, ma è essa stessa linguaggio e interpretazione. Non solo un insieme di procedure, prescrizioni e ricette, non solo uno strumento operativo ma anche e soprattutto un territorio di scelte possibili e modificabili, quelle che rendono attuabile la mutazione del dato materiale in qualità estetica. Su questo crinale, tra derive e interazioni di una fisicità esibita
e raffinata, la sua pittura implode come un dispositivo sensibile capace di toccare corde profonde.
Silvia Bordini
10
ottobre 2014
Giorgio Braghieri
Dal 10 ottobre al 14 novembre 2014
arte moderna e contemporanea
Location
TRALEVOLTE
Roma, Piazza Di Porta San Giovanni, 10, (ROMA)
Roma, Piazza Di Porta San Giovanni, 10, (ROMA)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 17-20
Vernissage
10 Ottobre 2014, 18,30
Autore
Curatore