Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Giorgio Celon – Occhio nudo
I suoi dipinti, monocromi su tela grezza o su acetato, partono dalla fotografia
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Note sul lavoro di Giorgio Celon di Angela Madesani
Affascinato dal concetto di trasformazione, dal mutamento della città, del paesaggio urbano, dalla archeologia industriale vera o presunta, Giorgio Celon, negli ultimi anni, ha maturato una ricerca a cavallo tra i diversi linguaggi dell’arte: dalla fotografia alla pittura.
I suoi dipinti, monocromi su tela grezza o su acetato, partono, infatti, dalla fotografia. Ogni lavoro è frutto di un progetto e di una serie di sguardi fotografici che poi si trasformano in dipinti. In un primo momento colorati: rossi, verdi blu, ora il più delle volte bianchi.
Nei suoi lavori sono edifici pubblici, strade, sottopassaggi, gallerie, tunnel, garage, ma anche viadotti dell’autostrada, tangenziali, che si diramano come arterie all’interno del corpo umano.
Il paesaggio è una delle costanti dell’arte del secolo che ci ha appena lasciato. Dalla pittura di Mario Sironi alla fotografia. Dal Bauhaus a Ranger Patzsch ai Becher sino agli ultimi grandi fotografi di paesaggio alla Basilico per esempio.
Celon si situa su questo cammino, ricco di spunti, per apportare un nuovo tassello fatto di immagini delicate e forti al tempo stesso, in cui non è descrizione micrografica, dettagliata. Sono, piuttosto, tracce di un passaggio, in cui si tenta di registrare un’idea: quella della città industriale, che sta definitivamente scomparendo dai nostri occhi, tesi verso un terziario sempre più insinuato nei meccanismi vitali. Tentativo di conservazione nella memoria di edifici che hanno i giorni contati.
Non vi è nostalgia, piuttosto tentativo di trattenimento visivo.
La maggior parte dei dipinti hanno per soggetto la città e il suo hinterland, in cui Celon vive, Milano. Ma vi sono anche sguardi più ampi, a Genova, alle strutture portuali e a altre realtà in cui il fascino, la curiosità è sempre volta all’architettura, alle sue strutture, ai suoi segreti. Come se riuscisse a entrare al suo interno, a scorgerne le armature, il trucco statico, fisico.
Ma sono anche i dettagli, le situazioni apparentemente invisibili: le metropolitane che costituiscono il tessuto della città, quel ventre sotterraneo che dà vita a un mondo parallelo altrettanto affascinate.
Nel suo lavoro Celon sottolinea l’uguaglianza diversa di ogni periferia, il ripetersi degli schemi, la presenza delle stesse vie, delle stesse case, di moduli uguali. La sua è un’analisi sociale che si insinua nei meandri di costruzioni distratte a volte meno che funzionali, cresciute come funghi senza un vero e proprio piano urbanistico. Come uguali tra loro sono i pali, i tralicci della corrente, che per lungo tempo sono stati segno della modernità conquistata.
Alcuni dipinti sono costituiti da un doppio fotogramma, dove un’immagine è contenuta nell’altra. Un dipinto nel dipinto. Un lavoro questo sul linguaggio e sulle dimensioni della pittura. Ancora una volta sono momenti della città. Ancora una volta bianche testimonianze di sparizioni.
Dove la scelta del non colore deriva da un’esperienza di luce fatta a Malta qualche tempo fa. La tensione è a un’analisi quanto più precisa, scevra da implicazioni ulteriori. Mera descrizione di spazi dove l’artista parte da un indice per giungere a un’icona al di fuori della nostalgia, del rimpianto.
Il suo è un prendere atto, come se fosse un registratore, del cambiamento delle cose e in tal senso la tela vergine svolge lo stesso ruolo della pellicola. Così come l’acetato di alcuni lavori più recenti.
La mostra presenta numerose opere. Ormai sono molte le cose prodotte. Si tratta di una sorta di ossessione visiva, in cui Celon sperimenta delle visioni, ripetendo più volte lo stesso soggetto, magari con colori, sempre in monocromia, diversi.
Ancora una volta sarebbe limitativo tentare di attribuire a una ricerca di questo tipo un’etichetta, la più facile magari, quella di pittura figurativa, pittura di paesaggio. Qui le cose vanno oltre. Si complicano, il suo è, comunque, un lavoro sul linguaggio in cui il paesaggio urbano e industriale, diventano una sorta di pretesto di indagine. Un modo attraverso cui ci si guarda intorno alla ricerca della propria realtà, di una dimensione dove l’uomo è sempre più marginale, escluso.
A maggior ragione un’indagine di questo tipo ha senso nei confronti di una città come Milano in chiara trasformazione prima ancora che urbana sociale. Dove in poco più di vent’anni il paesaggio è cambiato determinando un ovvio mutamento dei punti di vista, un ridimensionamento dello sguardo.
Nei dipinti di Celon l’uomo non appare, è dentro, dietro, forse è già passato. Alla ricerca spasmodica di un suo spazio, di un luogo dove fermarsi. Da dove guardare indisturbato il resto del mondo e la sua inarrestabile trasformazione, proprio come è accaduto qui.
Affascinato dal concetto di trasformazione, dal mutamento della città, del paesaggio urbano, dalla archeologia industriale vera o presunta, Giorgio Celon, negli ultimi anni, ha maturato una ricerca a cavallo tra i diversi linguaggi dell’arte: dalla fotografia alla pittura.
I suoi dipinti, monocromi su tela grezza o su acetato, partono, infatti, dalla fotografia. Ogni lavoro è frutto di un progetto e di una serie di sguardi fotografici che poi si trasformano in dipinti. In un primo momento colorati: rossi, verdi blu, ora il più delle volte bianchi.
Nei suoi lavori sono edifici pubblici, strade, sottopassaggi, gallerie, tunnel, garage, ma anche viadotti dell’autostrada, tangenziali, che si diramano come arterie all’interno del corpo umano.
Il paesaggio è una delle costanti dell’arte del secolo che ci ha appena lasciato. Dalla pittura di Mario Sironi alla fotografia. Dal Bauhaus a Ranger Patzsch ai Becher sino agli ultimi grandi fotografi di paesaggio alla Basilico per esempio.
Celon si situa su questo cammino, ricco di spunti, per apportare un nuovo tassello fatto di immagini delicate e forti al tempo stesso, in cui non è descrizione micrografica, dettagliata. Sono, piuttosto, tracce di un passaggio, in cui si tenta di registrare un’idea: quella della città industriale, che sta definitivamente scomparendo dai nostri occhi, tesi verso un terziario sempre più insinuato nei meccanismi vitali. Tentativo di conservazione nella memoria di edifici che hanno i giorni contati.
Non vi è nostalgia, piuttosto tentativo di trattenimento visivo.
La maggior parte dei dipinti hanno per soggetto la città e il suo hinterland, in cui Celon vive, Milano. Ma vi sono anche sguardi più ampi, a Genova, alle strutture portuali e a altre realtà in cui il fascino, la curiosità è sempre volta all’architettura, alle sue strutture, ai suoi segreti. Come se riuscisse a entrare al suo interno, a scorgerne le armature, il trucco statico, fisico.
Ma sono anche i dettagli, le situazioni apparentemente invisibili: le metropolitane che costituiscono il tessuto della città, quel ventre sotterraneo che dà vita a un mondo parallelo altrettanto affascinate.
Nel suo lavoro Celon sottolinea l’uguaglianza diversa di ogni periferia, il ripetersi degli schemi, la presenza delle stesse vie, delle stesse case, di moduli uguali. La sua è un’analisi sociale che si insinua nei meandri di costruzioni distratte a volte meno che funzionali, cresciute come funghi senza un vero e proprio piano urbanistico. Come uguali tra loro sono i pali, i tralicci della corrente, che per lungo tempo sono stati segno della modernità conquistata.
Alcuni dipinti sono costituiti da un doppio fotogramma, dove un’immagine è contenuta nell’altra. Un dipinto nel dipinto. Un lavoro questo sul linguaggio e sulle dimensioni della pittura. Ancora una volta sono momenti della città. Ancora una volta bianche testimonianze di sparizioni.
Dove la scelta del non colore deriva da un’esperienza di luce fatta a Malta qualche tempo fa. La tensione è a un’analisi quanto più precisa, scevra da implicazioni ulteriori. Mera descrizione di spazi dove l’artista parte da un indice per giungere a un’icona al di fuori della nostalgia, del rimpianto.
Il suo è un prendere atto, come se fosse un registratore, del cambiamento delle cose e in tal senso la tela vergine svolge lo stesso ruolo della pellicola. Così come l’acetato di alcuni lavori più recenti.
La mostra presenta numerose opere. Ormai sono molte le cose prodotte. Si tratta di una sorta di ossessione visiva, in cui Celon sperimenta delle visioni, ripetendo più volte lo stesso soggetto, magari con colori, sempre in monocromia, diversi.
Ancora una volta sarebbe limitativo tentare di attribuire a una ricerca di questo tipo un’etichetta, la più facile magari, quella di pittura figurativa, pittura di paesaggio. Qui le cose vanno oltre. Si complicano, il suo è, comunque, un lavoro sul linguaggio in cui il paesaggio urbano e industriale, diventano una sorta di pretesto di indagine. Un modo attraverso cui ci si guarda intorno alla ricerca della propria realtà, di una dimensione dove l’uomo è sempre più marginale, escluso.
A maggior ragione un’indagine di questo tipo ha senso nei confronti di una città come Milano in chiara trasformazione prima ancora che urbana sociale. Dove in poco più di vent’anni il paesaggio è cambiato determinando un ovvio mutamento dei punti di vista, un ridimensionamento dello sguardo.
Nei dipinti di Celon l’uomo non appare, è dentro, dietro, forse è già passato. Alla ricerca spasmodica di un suo spazio, di un luogo dove fermarsi. Da dove guardare indisturbato il resto del mondo e la sua inarrestabile trasformazione, proprio come è accaduto qui.
23
maggio 2006
Giorgio Celon – Occhio nudo
Dal 23 maggio al 03 giugno 2006
arte contemporanea
Location
STUDIO TRONCI
Milano, Via Cola Montano, 6, (Milano)
Milano, Via Cola Montano, 6, (Milano)
Orario di apertura
da lunedì a venerdi 17-20, sabato su appuntamento
Vernissage
23 Maggio 2006, ore 19
Autore