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Giorgio de Chirico / Lisa Sotilis – Il mito
Mostra doppia personale
Comunicato stampa
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Il mito nell’opera di Giorgio de Chirico e di Lisa Sotilis
Prof. Floriano de Santi
I. L’allegoria dell’“Edipo re”
Simile a quegli uccelli che mangiano carne di volatili, Edipo – per riprendere un’espressione dai Supplici di Eschilo – si è due volte nutrito della propria carne, dapprima versando il sangue paterno, poi unendosi con il sangue materno. Egli si trova così, per una maledizione altrettanto gratuita quanto la preferenza di cui beneficiano altri eroi della leggenda, estromesso dal legame sociale, respinto fuori dall’umanità: è ormai apolis, simboleggia la figura dell’escluso. Nella sua solitudine appare insieme al di qua dell’umano, belva feroce, mostro selvaggio, e al di là dell’umano, portatore di una qualifica religiosa tremenda, come un daimon. La sua macchia, il suo agos, non è che il rovescio della potenza soprannaturale che si è concentrato in lui per perderlo: mentre è macchiato è anche sano e santo, hieros e eusebes. La luce che gli Dei hanno proiettato su Edipo è troppo abbagliante perché l’occhio mortale la possa fissare. Essa respinge Edipo dal nostro mondo, fatto per la luce del sole, per lo sguardo umano, per il contatto sociale: lo restituisce al mondo solitario della notte, dove vive Tiresia che, pure lui, ha pagato con i suoi occhi, con il dono della doppia vista, l’accesso all’altra luce, il lumen accecante e terribile del divino.
Una prima forma emblematica di gioco d’inversione la troviamo nell’Edipo re di Sofocle, dove il figlio di Laio è presentato come un cacciatore che segue le piste, che bracca e stana la fiera errante sulla montagna, con una corsa che precipita in fuga e che lo relega lontano dagli uomini. Ma in questa caccia il cacciatore si ritrova infine ad essere la selvaggina; cacciato dalla terribile maledizione dei suoi genitori, erra e mugghia come una belva, prima di trafiggersi gli occhi e fuggire sulle selvagge montagne del Citerone. Persino il suo nome si presta a questi effetti di rovesciamento: Oida, “io so”, una delle parole principi in bocca ad Edipo trionfante, ad Edipo tiranno; Pus, “il piede”, segno imposto fin dalla nascita a colui il cui destino è di finire come ha cominciato, da escluso, come la bestia selvaggia che il suo piede fa fuggire, che il suo piede isola dagli umani, nella vana speranza di sfuggire agli oracoli. Ambiguo, Edipo porta in sé lo stesso carattere enigmatico che contrassegna tutta la tragedia sofocliana, interpretando il male, senza decifrarlo, della sinistra profetessa, della Sfinge dal canto oscuro.
Questa è una strada che, nell’arte moderna e contemporanea, porta gradualmente sino al simbolo-che-non-simboleggia, che non illumina nulla di noto, che nega a sé stesso ogni possibilità di rivelazione, ma che proprio dal far coincidere l’ignoto con il vuoto, dalla sua totale a-concettualità, acquista maggior facoltà di penetrare nel profondo, nell’athanatos nous, in territori sconosciuti, che hanno percorsi, spessori, prospettive sconosciute, suscitando una catena di echi lontani, che tramite misteriose corrispondenze (tra cui quelle di Edipo, che si proclama figlio della Tyche, della Felice Sorte) risalgono sino al limine del cosciente. Da principio è il sentimento struggente dell’irrecuperabile, del bene perduto, che oltrepassa per la prima volta la soglia dell’angoscia e ne proietta la luce livida, trasfigurante, sulle nostalgiche riesumazioni classiche del mito; poi si accentua la misteriosa estraneità di quelle immagini archetipiche presenti accanto a noi nello specchio che riflette le apparenze quotidiane: immagini inattese approdate nel presente dai recessi tenebrosi della memoria.
Nell’opera pittorica e scultorea di Giorgio de Chirico e di Lisa Sotilis è facile dedurre come l’itinerario di una ricerca che ha per tema il mito, che anzi s’identifica con il mythos, più si avvicina a noi nel tempo più allontana il fuoco del suo obbiettivo. Si configura cioè come una prospettiva rovesciata le cui linee di convergenza si dirigono verso il riguardante e trovano il punto focale di congiunzione alle spalle del piano di intersezione della nostra coscienza oltrepassandone la lucida superficie riflettente. È una prospettiva che si allontana progressivamente dai Campi Elisi del mito dai quali era partita per addentrarsi fra la nebbia del noumeno e dell’inespresso, verso l’origine delle cose, in quello che Goethe nella Pandora aveva chiamato “l’oscuro regno della possibilità mescolatrice delle forme”. È una prospettiva che indica la continuità di una linea, la persistenza d’un rapporto – certo sempre più precario ed insidiato, ma forse più aperto a sollecitazioni – con i grandi archetipi mitici che si rivelano ora spogli del loro aspetto simbolico, “culturale”, che appaiono come qualcosa che insorge e si subisce nella sua barbarica imminenza.
II. L’artista saturnino
Mentre in Böcklin il mito è ancora “vicino”, fa parte del vissuto, si prolunga in atteggiamenti esistenziali, abita luoghi conosciuti, reali, anche se scelti con cura per accoglierlo, indossa i costumi di cui ha rivestito la storia per riconoscerlo, intona il suo canto sommesso – come il coro che nell’Edipo re implora Zeus “padrone della potenza della folgore” (astrapan krate nemon) – all’ombra di antiche querce, su spiagge elleniche o tra sublimi dirupi, in de Chirico (che pure parte credendo ancora, come il Böcklin de L’isola dei mostri, di evocare direttamente il mito entrando nel suo spazio psichico dalla porta romantica della nostalgia) rivive ad un ben diverso livello, affonda le sue radici nell’ignoto, in un rapporto materno ombelicale che esclude l’angoscia. Si manifesta dapprima come favola, ma per brevissimo tempo: dopo l’esperienza metafisica del secondo decennio del Novecento che gli aveva consegnato la chiave più moderna e provocante del simbolo, il ritorno del Pictor Classicus al mondo in apparenza più tradizionale del mito, pur evocato attraverso straordinarie metamorfosi, si accompagna alla precisa coscienza dell’inversione dei significati o meglio della non corrispondenza delle immagini simboliche a un significato più profondo.
Sin dalle prime terracotte e dalle ceramiche policrome del 1938-40 – da Arianna dormiente agli Archeologi – de Chirico dimostra come il classicismo non sia per lui una determinata concezione del mondo, ma un atteggiamento umano che è perfettamente legittimo valutare sotto l’aspetto morale, come fu valutato nel periodo del grande classicismo francese dal Poussin. L’epithymia, il desiderio di bello che al pensiero classico è strettamente connesso, ma che cessa di essere un bello naturale per diventare un bello spirituale, sopravive così all’idea di spazio e di natura, e si collega ad ogni forma, e non già in quanto finge e rappresenta, ma in quanto è e significa. Se la pittura, il disegno, la stampa d’arte (si vedano in questa mostra fogli quali Riposo di Arianna del 1969, Ettore ed Andromaca del 1970 e Piazza d’Italia con efebo del 1972) di de Chirico escogitano tutti i mezzi per abbreviare il processo della fattura, per raggiungere la durata minima, la sua scultura, non sembra affatto assillata dalla stessa premura. Quasi tutte le opere tridimensionali dechirichiane sono di bronzo, e il processo di trasposizione da una materia all’altra richiede parecchie fasi successive: anche quando la forma si attua come trasposizione diretta della “cosa”, quella cosa è costretta ad eternarsi nel bronzo.
Del resto, uno dei temi dominanti de I grandi archeologi del 1968 è proprio l’antagonismo di forma e di spazio. Si può dire che la forma nasce dalla distinzione dello spazio, raggiunge la propria pienezza quando ha fatto intorno a sé il vuoto, quando cessa di reagire alla luce e all’atmosfera, al vicino e al lontano, e determina da sé, con il ritmo sicuro dei volumi e dei piani, le proprie condizioni prospettiche. Non accetta leggi, le detta: è una realtà metaforica e prepotente, che non vuole lasciarsi intaccare e dissolvere; un nucleo vivo e irriducibile, un nodo di forze in azione. In termini filosofici, è l’espressione della concretezza dell’esistere contro la vaghezza e l’inafferrabilità dell’essere; in termini morali, l’espressione di una dura volontà d’azione contro la suggestione della natura, l’invito a cedere, ad abbandonarsi ai suoi ritmi fluenti. Poiché l’antagonista dello spazio non è la materia ma l’uomo, il movimento antropomorfo, la forma si determina da un impulso che nasce sotto l’ora di Saturno.
L’avventura del de Chirico saturnino è magica; e i luoghi dove sosta sono, forse, più sconsolati di quelli dove, pochi decenni prima amavano indugiare Poe e Kafka, Baudelaire e Kirkegaard. Ma, secondo i Problemi di Aristotele, egli ha una possibilità di salvezza: i pericoli della melancholia possono venire mitigati da una giusta divisione del tempo, viaggi e suoni del liuto e dell’arpa. Il vero rimedio è interiore: la metafisica apre la crisi dell’oggetto, perché postula una soggettività così piena e profonda da sfuggire persino al controllo della coscienza; e chiede paradossalmente l’eliminazione di ogni certezza o consistenza del mondo oggettivo. L’artista classicus deve accettare senza riserve il proprio destino: abbandonarsi alla “divina contemplazione” dei frammenti archeologici, dedicarsi con passione esclusiva alla rêverie, vivere “solo e cogitativo”. Come spiegarlo meglio che con le stesse parole di de Chirico? “Amo... sognare sogni lunghi e complicati, un po’ affannosi, come se m’immergessi faticosamente in luoghi ed epoche antichissime; sogni... d’uno spettacolo di efebi ermafroditi dalle spalle dorate, nudi sotto un cielo alto e terso, in riva ad un mare profondamente ceruleo, dai lidi sparsi di templi e di santuari e di rocce coperte di pini e di allori immortali. Capisca chi vuole, ma son fatto così”.
III. Il “teatrino delle meraviglie”
Nell’opera pittorica e scultorea di Lisa Sotilis il mito si afferma presentando tutto il suo complesso apparato metaforico, come un enigma da indovinare, come un discorso ermetico offerto agli iniziati; o meglio ancora come un gioco letterario sull’enigma, una sua abilissima melodia, al pari nell’Edipo re della cupa cantatrice che è al contempo dipus, tripus, tetrapus. Ma le immagini dell’artista sono cariche di una vita simbolica reale che oggi ci tocca profondamente: le creature mutanti, le prospettive distorte e i piani sfuggenti che sembrano corrispondere ad una allucinata degenerazione della percezione provocano un senso di vertigine. Puntualizza nel 1967 Salvatore Quasimodo: “Sono figure che si ritrovano come ghirlande, o corolle dai petali di carne. Sulla tela o nel metallo, perfino nelle rifrangenze delle pietre preziose che proseguono il mito frastagliato della metamorfosi nelle forme ridotte dei gioielli. È la natura ellenica, l’abbandono alla stagione fiorita, alla certezza che è nel grembo di Afrodite: in Grecia dove sono le viscere dei misteri di Eleusi, l’abisso d’ansia del rituale dionisiaco, là dove ci sono la pace e la conciliazione estrema che spezza ogni nodo di buio”.
Con le tempere Il giardino di Iside del 1957 e Omaggio a Esopo dell’anno seguente la Sotilis introduce un “teatrino di meraviglie”, che il caleidoscopio delle luci e dei colori pare muovere e trasformare come nell’eterno e mai uguale ripetersi delle ore e apparire delle stelle. Le sue composizioni rimandano al concetto del cosmo: la vibrazione di una foglia al flusso della vita, l’equilibrio armonioso di un cavallo o di un nudo muliebre all’infinito bilanciarsi delle sostanze e delle energie nei fenomeni epicuriani della physis, della natura. Così, dalla magia per i bambini delle carte ritagliate che divengono le caravelle che solcano i mari della fantasia, tutti i personaggi e le cose del castello, l’artista ateniese fa nascere un linguaggio che – come quello di Alice del paese delle meraviglie – coltiva sistematicamente il non-sense della metamorfosi metafisica e surrealista: scava nel Regno dello Specchio, oltre “la luminosa nebbia d’argento”, dove tutto è capovolto. Nel bronzo Fenicottero di Alice del 1980 la Sotilis sceglie i simboli più visibili, attraverso un discorso lirico nutrito di antichi riferimenti culturali, che portano il procedimento del “gioco” al suo valore più profondo di rivelazione del vero nelle regole della finzione.
Con la sua pittura – dall’Autoritratto del 1959 Afrodite del 1972 e alle Due atlete del 1980 – la Sotilis mostra di voler aiutare la bambina che è ancora in lei, a tener ben fermo nel suo cuore ciò che ama e non vuole perdere: il piacere del volo fantastico, il volo nello spazio cosmico, il volo intorno all’eraclitea psyches peirata, confine dell’anima, per attraversare la strada della “favola” legata a un tempo puro e distanziante, ad una grazia intatta intessuta di realtà e simboli, che possiedono la semplicità festosa dell’infanzia insieme a una profonda spiritualità. Ma ciò che elude l’intelligibile non elude l’intuibile e consegna alla visione un reale potere suggestivo, un sospetto sottile e malinconico di attualità. Nella materia policroma di Terra di Agamennone del 1969, Tramonto a Cartagine del 1980 ed Esplosione vitale del 2008, le forme bruciano come impronte; la luce emerge piano dalle grotte, dai fondi, dagli orizzonti; ali oscure ovunque fremono, si distendono, proteggono e minacciano; a volte dagli spessori abbruniti delle nuvole nasce uno smeraldo d’aria o dalle onde dense come lava un taglio di azzurro; a volte i bruni del cielo e i bruni del mare si fondono così mirabilmente da formare una sola parete di viola.
Oltre al mito, la Sotilis e de Chirico hanno in comune proprio l’elaborazione del sogno, e l’aver intrapreso questa via non significa affatto aver aderito alla poiesis surrealista; anzi nessuno dei due si è mai riconosciuto nel movimento di Breton. Nel caso del maestro della Metafisica la causa di questo rifiuto è forse più complessa, ma rasenta, benché apoditticamente e con violenza polemica, quelle stesse motivazioni anti-programmatiche che nella Sotilis appaiono chiarissime e serenamente ragionate. Per la scultrice di Omaggio a Fidia del 2005, Poesia di Saffo del 2006 e Metamorfosi di Persefone del 2007, la dimensione del miracoloso è qualcosa che si manifesta abnormemente nell’ambito del naturale, servendosi delle sue leggi sia pure per sconvolgerle, o semplicemente capovolgerle. Il surreale è invece l’autre, un’altra realtà, ignota e allucinante, suprema ma anche sotterranea, dotata di leggi e meccanismi diversi, suoi propri, inaccessibili, oscuramente profondi. Laddove nella Sotilis non è mai l’oscurità ad annunciarne il messaggio, ma come un improvviso intensificarsi di luce; quella luce che modula il bassorilievo di bronzo dorato Autoritratto con fiori del 1975 come se fosse tessuto da un’ape: come un moto d’onda o una caduta di piuma, che continuamente debordino dall’assiologia e dall’assioma del presente.
Prof. Floriano de Santi
I. L’allegoria dell’“Edipo re”
Simile a quegli uccelli che mangiano carne di volatili, Edipo – per riprendere un’espressione dai Supplici di Eschilo – si è due volte nutrito della propria carne, dapprima versando il sangue paterno, poi unendosi con il sangue materno. Egli si trova così, per una maledizione altrettanto gratuita quanto la preferenza di cui beneficiano altri eroi della leggenda, estromesso dal legame sociale, respinto fuori dall’umanità: è ormai apolis, simboleggia la figura dell’escluso. Nella sua solitudine appare insieme al di qua dell’umano, belva feroce, mostro selvaggio, e al di là dell’umano, portatore di una qualifica religiosa tremenda, come un daimon. La sua macchia, il suo agos, non è che il rovescio della potenza soprannaturale che si è concentrato in lui per perderlo: mentre è macchiato è anche sano e santo, hieros e eusebes. La luce che gli Dei hanno proiettato su Edipo è troppo abbagliante perché l’occhio mortale la possa fissare. Essa respinge Edipo dal nostro mondo, fatto per la luce del sole, per lo sguardo umano, per il contatto sociale: lo restituisce al mondo solitario della notte, dove vive Tiresia che, pure lui, ha pagato con i suoi occhi, con il dono della doppia vista, l’accesso all’altra luce, il lumen accecante e terribile del divino.
Una prima forma emblematica di gioco d’inversione la troviamo nell’Edipo re di Sofocle, dove il figlio di Laio è presentato come un cacciatore che segue le piste, che bracca e stana la fiera errante sulla montagna, con una corsa che precipita in fuga e che lo relega lontano dagli uomini. Ma in questa caccia il cacciatore si ritrova infine ad essere la selvaggina; cacciato dalla terribile maledizione dei suoi genitori, erra e mugghia come una belva, prima di trafiggersi gli occhi e fuggire sulle selvagge montagne del Citerone. Persino il suo nome si presta a questi effetti di rovesciamento: Oida, “io so”, una delle parole principi in bocca ad Edipo trionfante, ad Edipo tiranno; Pus, “il piede”, segno imposto fin dalla nascita a colui il cui destino è di finire come ha cominciato, da escluso, come la bestia selvaggia che il suo piede fa fuggire, che il suo piede isola dagli umani, nella vana speranza di sfuggire agli oracoli. Ambiguo, Edipo porta in sé lo stesso carattere enigmatico che contrassegna tutta la tragedia sofocliana, interpretando il male, senza decifrarlo, della sinistra profetessa, della Sfinge dal canto oscuro.
Questa è una strada che, nell’arte moderna e contemporanea, porta gradualmente sino al simbolo-che-non-simboleggia, che non illumina nulla di noto, che nega a sé stesso ogni possibilità di rivelazione, ma che proprio dal far coincidere l’ignoto con il vuoto, dalla sua totale a-concettualità, acquista maggior facoltà di penetrare nel profondo, nell’athanatos nous, in territori sconosciuti, che hanno percorsi, spessori, prospettive sconosciute, suscitando una catena di echi lontani, che tramite misteriose corrispondenze (tra cui quelle di Edipo, che si proclama figlio della Tyche, della Felice Sorte) risalgono sino al limine del cosciente. Da principio è il sentimento struggente dell’irrecuperabile, del bene perduto, che oltrepassa per la prima volta la soglia dell’angoscia e ne proietta la luce livida, trasfigurante, sulle nostalgiche riesumazioni classiche del mito; poi si accentua la misteriosa estraneità di quelle immagini archetipiche presenti accanto a noi nello specchio che riflette le apparenze quotidiane: immagini inattese approdate nel presente dai recessi tenebrosi della memoria.
Nell’opera pittorica e scultorea di Giorgio de Chirico e di Lisa Sotilis è facile dedurre come l’itinerario di una ricerca che ha per tema il mito, che anzi s’identifica con il mythos, più si avvicina a noi nel tempo più allontana il fuoco del suo obbiettivo. Si configura cioè come una prospettiva rovesciata le cui linee di convergenza si dirigono verso il riguardante e trovano il punto focale di congiunzione alle spalle del piano di intersezione della nostra coscienza oltrepassandone la lucida superficie riflettente. È una prospettiva che si allontana progressivamente dai Campi Elisi del mito dai quali era partita per addentrarsi fra la nebbia del noumeno e dell’inespresso, verso l’origine delle cose, in quello che Goethe nella Pandora aveva chiamato “l’oscuro regno della possibilità mescolatrice delle forme”. È una prospettiva che indica la continuità di una linea, la persistenza d’un rapporto – certo sempre più precario ed insidiato, ma forse più aperto a sollecitazioni – con i grandi archetipi mitici che si rivelano ora spogli del loro aspetto simbolico, “culturale”, che appaiono come qualcosa che insorge e si subisce nella sua barbarica imminenza.
II. L’artista saturnino
Mentre in Böcklin il mito è ancora “vicino”, fa parte del vissuto, si prolunga in atteggiamenti esistenziali, abita luoghi conosciuti, reali, anche se scelti con cura per accoglierlo, indossa i costumi di cui ha rivestito la storia per riconoscerlo, intona il suo canto sommesso – come il coro che nell’Edipo re implora Zeus “padrone della potenza della folgore” (astrapan krate nemon) – all’ombra di antiche querce, su spiagge elleniche o tra sublimi dirupi, in de Chirico (che pure parte credendo ancora, come il Böcklin de L’isola dei mostri, di evocare direttamente il mito entrando nel suo spazio psichico dalla porta romantica della nostalgia) rivive ad un ben diverso livello, affonda le sue radici nell’ignoto, in un rapporto materno ombelicale che esclude l’angoscia. Si manifesta dapprima come favola, ma per brevissimo tempo: dopo l’esperienza metafisica del secondo decennio del Novecento che gli aveva consegnato la chiave più moderna e provocante del simbolo, il ritorno del Pictor Classicus al mondo in apparenza più tradizionale del mito, pur evocato attraverso straordinarie metamorfosi, si accompagna alla precisa coscienza dell’inversione dei significati o meglio della non corrispondenza delle immagini simboliche a un significato più profondo.
Sin dalle prime terracotte e dalle ceramiche policrome del 1938-40 – da Arianna dormiente agli Archeologi – de Chirico dimostra come il classicismo non sia per lui una determinata concezione del mondo, ma un atteggiamento umano che è perfettamente legittimo valutare sotto l’aspetto morale, come fu valutato nel periodo del grande classicismo francese dal Poussin. L’epithymia, il desiderio di bello che al pensiero classico è strettamente connesso, ma che cessa di essere un bello naturale per diventare un bello spirituale, sopravive così all’idea di spazio e di natura, e si collega ad ogni forma, e non già in quanto finge e rappresenta, ma in quanto è e significa. Se la pittura, il disegno, la stampa d’arte (si vedano in questa mostra fogli quali Riposo di Arianna del 1969, Ettore ed Andromaca del 1970 e Piazza d’Italia con efebo del 1972) di de Chirico escogitano tutti i mezzi per abbreviare il processo della fattura, per raggiungere la durata minima, la sua scultura, non sembra affatto assillata dalla stessa premura. Quasi tutte le opere tridimensionali dechirichiane sono di bronzo, e il processo di trasposizione da una materia all’altra richiede parecchie fasi successive: anche quando la forma si attua come trasposizione diretta della “cosa”, quella cosa è costretta ad eternarsi nel bronzo.
Del resto, uno dei temi dominanti de I grandi archeologi del 1968 è proprio l’antagonismo di forma e di spazio. Si può dire che la forma nasce dalla distinzione dello spazio, raggiunge la propria pienezza quando ha fatto intorno a sé il vuoto, quando cessa di reagire alla luce e all’atmosfera, al vicino e al lontano, e determina da sé, con il ritmo sicuro dei volumi e dei piani, le proprie condizioni prospettiche. Non accetta leggi, le detta: è una realtà metaforica e prepotente, che non vuole lasciarsi intaccare e dissolvere; un nucleo vivo e irriducibile, un nodo di forze in azione. In termini filosofici, è l’espressione della concretezza dell’esistere contro la vaghezza e l’inafferrabilità dell’essere; in termini morali, l’espressione di una dura volontà d’azione contro la suggestione della natura, l’invito a cedere, ad abbandonarsi ai suoi ritmi fluenti. Poiché l’antagonista dello spazio non è la materia ma l’uomo, il movimento antropomorfo, la forma si determina da un impulso che nasce sotto l’ora di Saturno.
L’avventura del de Chirico saturnino è magica; e i luoghi dove sosta sono, forse, più sconsolati di quelli dove, pochi decenni prima amavano indugiare Poe e Kafka, Baudelaire e Kirkegaard. Ma, secondo i Problemi di Aristotele, egli ha una possibilità di salvezza: i pericoli della melancholia possono venire mitigati da una giusta divisione del tempo, viaggi e suoni del liuto e dell’arpa. Il vero rimedio è interiore: la metafisica apre la crisi dell’oggetto, perché postula una soggettività così piena e profonda da sfuggire persino al controllo della coscienza; e chiede paradossalmente l’eliminazione di ogni certezza o consistenza del mondo oggettivo. L’artista classicus deve accettare senza riserve il proprio destino: abbandonarsi alla “divina contemplazione” dei frammenti archeologici, dedicarsi con passione esclusiva alla rêverie, vivere “solo e cogitativo”. Come spiegarlo meglio che con le stesse parole di de Chirico? “Amo... sognare sogni lunghi e complicati, un po’ affannosi, come se m’immergessi faticosamente in luoghi ed epoche antichissime; sogni... d’uno spettacolo di efebi ermafroditi dalle spalle dorate, nudi sotto un cielo alto e terso, in riva ad un mare profondamente ceruleo, dai lidi sparsi di templi e di santuari e di rocce coperte di pini e di allori immortali. Capisca chi vuole, ma son fatto così”.
III. Il “teatrino delle meraviglie”
Nell’opera pittorica e scultorea di Lisa Sotilis il mito si afferma presentando tutto il suo complesso apparato metaforico, come un enigma da indovinare, come un discorso ermetico offerto agli iniziati; o meglio ancora come un gioco letterario sull’enigma, una sua abilissima melodia, al pari nell’Edipo re della cupa cantatrice che è al contempo dipus, tripus, tetrapus. Ma le immagini dell’artista sono cariche di una vita simbolica reale che oggi ci tocca profondamente: le creature mutanti, le prospettive distorte e i piani sfuggenti che sembrano corrispondere ad una allucinata degenerazione della percezione provocano un senso di vertigine. Puntualizza nel 1967 Salvatore Quasimodo: “Sono figure che si ritrovano come ghirlande, o corolle dai petali di carne. Sulla tela o nel metallo, perfino nelle rifrangenze delle pietre preziose che proseguono il mito frastagliato della metamorfosi nelle forme ridotte dei gioielli. È la natura ellenica, l’abbandono alla stagione fiorita, alla certezza che è nel grembo di Afrodite: in Grecia dove sono le viscere dei misteri di Eleusi, l’abisso d’ansia del rituale dionisiaco, là dove ci sono la pace e la conciliazione estrema che spezza ogni nodo di buio”.
Con le tempere Il giardino di Iside del 1957 e Omaggio a Esopo dell’anno seguente la Sotilis introduce un “teatrino di meraviglie”, che il caleidoscopio delle luci e dei colori pare muovere e trasformare come nell’eterno e mai uguale ripetersi delle ore e apparire delle stelle. Le sue composizioni rimandano al concetto del cosmo: la vibrazione di una foglia al flusso della vita, l’equilibrio armonioso di un cavallo o di un nudo muliebre all’infinito bilanciarsi delle sostanze e delle energie nei fenomeni epicuriani della physis, della natura. Così, dalla magia per i bambini delle carte ritagliate che divengono le caravelle che solcano i mari della fantasia, tutti i personaggi e le cose del castello, l’artista ateniese fa nascere un linguaggio che – come quello di Alice del paese delle meraviglie – coltiva sistematicamente il non-sense della metamorfosi metafisica e surrealista: scava nel Regno dello Specchio, oltre “la luminosa nebbia d’argento”, dove tutto è capovolto. Nel bronzo Fenicottero di Alice del 1980 la Sotilis sceglie i simboli più visibili, attraverso un discorso lirico nutrito di antichi riferimenti culturali, che portano il procedimento del “gioco” al suo valore più profondo di rivelazione del vero nelle regole della finzione.
Con la sua pittura – dall’Autoritratto del 1959 Afrodite del 1972 e alle Due atlete del 1980 – la Sotilis mostra di voler aiutare la bambina che è ancora in lei, a tener ben fermo nel suo cuore ciò che ama e non vuole perdere: il piacere del volo fantastico, il volo nello spazio cosmico, il volo intorno all’eraclitea psyches peirata, confine dell’anima, per attraversare la strada della “favola” legata a un tempo puro e distanziante, ad una grazia intatta intessuta di realtà e simboli, che possiedono la semplicità festosa dell’infanzia insieme a una profonda spiritualità. Ma ciò che elude l’intelligibile non elude l’intuibile e consegna alla visione un reale potere suggestivo, un sospetto sottile e malinconico di attualità. Nella materia policroma di Terra di Agamennone del 1969, Tramonto a Cartagine del 1980 ed Esplosione vitale del 2008, le forme bruciano come impronte; la luce emerge piano dalle grotte, dai fondi, dagli orizzonti; ali oscure ovunque fremono, si distendono, proteggono e minacciano; a volte dagli spessori abbruniti delle nuvole nasce uno smeraldo d’aria o dalle onde dense come lava un taglio di azzurro; a volte i bruni del cielo e i bruni del mare si fondono così mirabilmente da formare una sola parete di viola.
Oltre al mito, la Sotilis e de Chirico hanno in comune proprio l’elaborazione del sogno, e l’aver intrapreso questa via non significa affatto aver aderito alla poiesis surrealista; anzi nessuno dei due si è mai riconosciuto nel movimento di Breton. Nel caso del maestro della Metafisica la causa di questo rifiuto è forse più complessa, ma rasenta, benché apoditticamente e con violenza polemica, quelle stesse motivazioni anti-programmatiche che nella Sotilis appaiono chiarissime e serenamente ragionate. Per la scultrice di Omaggio a Fidia del 2005, Poesia di Saffo del 2006 e Metamorfosi di Persefone del 2007, la dimensione del miracoloso è qualcosa che si manifesta abnormemente nell’ambito del naturale, servendosi delle sue leggi sia pure per sconvolgerle, o semplicemente capovolgerle. Il surreale è invece l’autre, un’altra realtà, ignota e allucinante, suprema ma anche sotterranea, dotata di leggi e meccanismi diversi, suoi propri, inaccessibili, oscuramente profondi. Laddove nella Sotilis non è mai l’oscurità ad annunciarne il messaggio, ma come un improvviso intensificarsi di luce; quella luce che modula il bassorilievo di bronzo dorato Autoritratto con fiori del 1975 come se fosse tessuto da un’ape: come un moto d’onda o una caduta di piuma, che continuamente debordino dall’assiologia e dall’assioma del presente.
01
aprile 2009
Giorgio de Chirico / Lisa Sotilis – Il mito
Dal primo aprile al 02 maggio 2009
arte contemporanea
Location
GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE – PALAZZO DUCALE
Urbino, Piazzale Duca Federico, 3, (Pesaro E Urbino)
Urbino, Piazzale Duca Federico, 3, (Pesaro E Urbino)
Orario di apertura
ore 16,00 – 19,00
Vernissage
1 Aprile 2009, ore 19,00
Sito web
www.sotilis.com
Autore
Curatore