Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Giuliano Ravazzini – Stauros
Le croci di Giuliano Ravazzini, con la forza della loro semplicità, ci pongono di fronte alla potenza di questo simbolo elementare
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Croci. Croci che non portano un corpo appeso, ma che narrano il peso del tempo. Croci spoglie, croci senza un crocifisso, croci senza Gesù di Nazaret, il Crocifisso. Croci riportate alla loro nuda essenzialità, alla loro densa semplicità. Una semplicità che ha reso la croce simbolo universale ben prima che il cristianesimo ne facesse il segno centrale dell’inaudito che esso narra al mondo: il Dio fatto uomo, il Dio crocifisso.
La croce, che nella sua forma più semplice è formata dall’incontro di due linee che si intersecano in un punto centrale dal quale si dipartono quattro direzioni, è segno attestato in un gran numero di culture e civiltà e riveste differenti significati nei diversi contesti linguistici e culturali. Segni cruciformi si incontrano nelle civiltà preistoriche. Nell’antico Egitto l’ankh, la croce ansata (formata da un tau sovrastato da una sorta di cappio capovolto), esprimeva il mistero della vita e della vita oltre la morte all’interno del sistema ideologico della regalità faraonica. Nel mondo mesopotamico la forma della croce era spesso associata al dio solare Shamash. In Cina l’ideogramma a forma di croce indica il numero dieci e quindi la completezza. In India, la croce uncinata (una croce greca con le estremità piegate ad angolo retto: quattro lettere gamma maiuscole saldate insieme in un unico punto centrale) era un antico simbolo solare, emblema del dio Visnu, il dio che aveva il potere di mantenere unito tutto il cosmo. Se i bracci di questa croce sono orientati verso destra essa prende nome di svastika e rappresenta il principio maschile: attestata nella civiltà prevedica della valle dell’Indo, questo segno si è diffuso al seguito delle migrazioni ariane ed è attestato in Anatolia, in Grecia, nella regione danubiana, in Italia, presso i Celti, i Galli e i Germani, in Scandinavia. La sua storia è ormai segnata dall’infausto uso fattone da Hitler come emblema del nazismo. Ma in origine essa indicava il corso del sole, la ruota cosmica che gira intorno a un asse centrale. Anche le civiltà precolombiane d’America hanno conosciuto simboli cruciformi: se in Perù tali simboli erano legati al culto solare, in Messico indicavano l’unità del mondo. Questo infatti era visto come costruito su una croce, all’incrocio delle strade che collegano l’est all’ovest e il nord al sud.
“La diffusione straordinaria della croce nelle parti più diverse del mondo prima del Cristianesimo e al di fuori della sua influenza si spiega con la multivalenza e la densità del suo significato simbolico. La croce è un simbolo primordiale che ha attinenza con tre altri simboli fondamentali: il centro, il cerchio e il quadrato. Con l’intersecazione delle due linee rette, che coincide con il centro, la croce apre il centro verso l’esterno, divide il cerchio in quattro parti, genera il quadrato” (Julien Ries). La croce appare così un simbolo fondamentale dell’homo religiosus, un simbolo che consente all’uomo di orientarsi nel mondo. E di orientarsi nello spazio come nel tempo. L’orientamento spazio-temporale si articola attorno ai quattro bracci della croce. “L’orientamento spaziale si articola secondo l’asse est-ovest, corrispondente al sorgere e al calare del sole; l’orientamento temporale si articola attorno all’asse di rotazione del mondo, nord e sud e alto e basso, cioè intorno all’asse verticale che unisce i poli e taglia, all’orizzonte, il piano orizzontale terrestre. L’incrocio di questi due assi dà alla croce la sua terza dimensione, condizione per un orientamento totale. L’orientamento spaziale mette l’uomo in accordo con il suo ambiente vitale, la concordanza degli orientamenti spaziali e temporali lo mette in accordo con il mondo soprannaturale, trascendente: dall’ambito terrestre si passa a quest’ultimo attraverso l’asse verticale, l’Axis mundi. Tutti i significati della croce vengono da qui” (Jean Hani).
Spesso associato al tema dell’albero, che unisce i livelli celeste, terrestre e sotterraneo, il simbolo cruciforme evoca fertilità, vitalità, ma anche la dimensione ascensionale verso l’invisibile, l’unità fra celeste e infero. Il simbolismo del centro, così sottolineato da Mircea Eliade, è decisivo nella croce, e spesso associato all’albero cosmico posto al centro del mondo. Il numero quattro, con le sue valenze cosmiche, designa totalità, pienezza, universalità. Se la croce rinvia al macrocosmo, essa evoca pure quel microcosmo che è l’uomo: l’uomo in piedi con le braccia aperte disegna la figura della croce. E fa sì che il simbolo cruciforme sia chiave ermeneutica che consente all’uomo di decifrare se stesso e il mondo, di collocare se stesso nel mondo.
***
Certo, nel nostro mondo occidentale così segnato dal Cristianesimo, la croce evoca immediatamente il patibolo, lo strumento di tortura e di condanna a morte in uso presso i Romani, e a cui fu appeso Gesù di Nazaret. E se è vero che la storia dell’interpretazione cristiana della croce ha conosciuto la ripresa di molti significati rivestiti anche in precedenza dal simbolo cruciforme (si pensi all’ankh egiziano che, ripreso dai cristiani egiziani, i copti, vede cristianizzato il suo riferimento alla vita oltre la morte e arriva a designare la vita eterna a cui introduce Cristo), è altrettanto vero che la croce cristiana ha una valenza storica precisa e rinvia a un evento storico determinato e tragico.
Gli storici e i letterati romani parlano della croce come del “supplizio più crudele e orrendo” (Cicerone), del “sommo male” (Plauto), della “pena estrema e massima riservata agli schiavi” (Cicerone): la morte cui conduceva era la mors turpissima crucis (Tacito). La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito ritrovato sui muri di Pompei: “Che tu sia crocifisso”. Per la società romana del tempo la croce era dunque il simbolo più disgraziato, terribile e umiliante. Eppure, nel Nuovo Testamento, e in particolare con Paolo, che più di ogni altro autore neotestamentario ha elaborato una theologia crucis, essa diviene l’elemento decisivo centrale dell’agire salvifico di Dio verso l’umanità. La croce, con la sua portata di scandalo e stoltezza, diviene la diretta rivelazione del volto di Dio. Dal cuore dell’evangelo discende pertanto la fisionomia paradossale e scandalosa della fede cristiana. Anzi, la fede cristiana si esprime in forma di ossimoro: si tratta di credere l’incredibile (il Rivelatore di Dio è l’appeso alla croce), di amare chi non è amabile (il nemico), di sperare l’insperabile (la morte della morte). La croce contesta ormai la razionalità pagana e la religiosità che si nutre di segni, miracoli e portenti.
Certo, dire “croce” nel Cristianesimo significa rinviare a chi vi è steso sopra. È Gesù che, con la sua vita, la sua pro-esistenza, la sua santità ospitale, la bellezza che ha irradiato nel suo vivere e amare, dà senso anche all’orrore della croce, al “legno disgraziato” (Seneca). L’amore che ha guidato il vivere di Gesù, ha abitato anche il suo morire e questo amore ha aperto la morte, l’ha resa un passaggio, una Pasqua di resurrezione. Ormai, nello spazio cristiano, il fatto che Dio, nel Figlio Gesù Cristo, abbia abitato il luogo dell’assenza di Dio, il luogo “ateo”, della maledizione (Cristo “è diventato maledizione per noi come sta scritto: ‘Maledetto chi pende dal legno’”: Gal 3,13), indica che non vi è inferno esistenziale che non possa conoscere la comunione con Dio. Paradossalmente, da strumento di pena capitale, e quindi da simbolo disgraziato e tragico, la croce nel Cristianesimo diviene apertura alla più sconfinata speranza: il cielo abita non solo la terra, ma anche le regioni infernali. Questa è la croce a cui il cristiano può rivolgersi cantando: Ave, crux, spes unica! Questa è la croce “veramente capace di farci conoscere Dio” (Lutero). Scrive Gregorio di Nissa: “La croce è teologa per coloro che hanno uno sguardo penetrante e proclama con sua forma la potenza sovrana di colui che compare su di lei ed è tutto in tutti”.
***
Le croci di Giuliano Ravazzini, con la forza della loro semplicità, hanno il merito di porci di fronte alla potenza di questo simbolo elementare. Le diverse forme di croci ripropongono alcune delle tante realizzazioni che la tradizione ha elaborato nel corso del tempo (croce latina, croce greca, croce decussata o di s. Andrea, a forma di X …), ma soprattutto ci chiedono un lavoro interiore. Scrive Paul Ricoeur: “Il simbolo dà a pensare. Questa sentenza dice due cose; il simbolo dà; io non pongo il senso, è il simbolo che dà il senso – ma ciò che dà è da pensare. A partire dalla donazione, la posizione. La sentenza suggerisce quindi, nel medesimo tempo, che tutto è già detto in forma di enigma e tuttavia tutto deve sempre essere ricominciato nella dimensione del pensiero”. Queste croci chiedono di ascoltare e accogliere un messaggio, un dono, e di compiere un’attività ermeneutica. Da quel centro che la croce rappresenta, siamo condotti al nostro centro, al nostro cuore. A ritrovare un centro. Siamo invitati a orientarci, a volgerci a est, alla luce, alla fonte della vita. Nel nostro mondo pieno di immagini e privo di simboli, le opere di Ravazzini ci pongono una domanda. O forse ci mettono in questione. Fanno di noi una domanda a noi stessi. E ci consentono di discernere il non-essenziale di cui viviamo, gli idoli che si sono impadroniti della nostra anima, le “cose di cui siamo pieni e che ci gettano fuori di noi” (Pascal).
Le sue croci sono un invito al silenzio e all’ascolto. Lasciamole parlare, lasciamo parlare i simboli: ritroveremo qualcosa di noi stessi che avevamo dimenticato, occultato, smarrito.
La croce, che nella sua forma più semplice è formata dall’incontro di due linee che si intersecano in un punto centrale dal quale si dipartono quattro direzioni, è segno attestato in un gran numero di culture e civiltà e riveste differenti significati nei diversi contesti linguistici e culturali. Segni cruciformi si incontrano nelle civiltà preistoriche. Nell’antico Egitto l’ankh, la croce ansata (formata da un tau sovrastato da una sorta di cappio capovolto), esprimeva il mistero della vita e della vita oltre la morte all’interno del sistema ideologico della regalità faraonica. Nel mondo mesopotamico la forma della croce era spesso associata al dio solare Shamash. In Cina l’ideogramma a forma di croce indica il numero dieci e quindi la completezza. In India, la croce uncinata (una croce greca con le estremità piegate ad angolo retto: quattro lettere gamma maiuscole saldate insieme in un unico punto centrale) era un antico simbolo solare, emblema del dio Visnu, il dio che aveva il potere di mantenere unito tutto il cosmo. Se i bracci di questa croce sono orientati verso destra essa prende nome di svastika e rappresenta il principio maschile: attestata nella civiltà prevedica della valle dell’Indo, questo segno si è diffuso al seguito delle migrazioni ariane ed è attestato in Anatolia, in Grecia, nella regione danubiana, in Italia, presso i Celti, i Galli e i Germani, in Scandinavia. La sua storia è ormai segnata dall’infausto uso fattone da Hitler come emblema del nazismo. Ma in origine essa indicava il corso del sole, la ruota cosmica che gira intorno a un asse centrale. Anche le civiltà precolombiane d’America hanno conosciuto simboli cruciformi: se in Perù tali simboli erano legati al culto solare, in Messico indicavano l’unità del mondo. Questo infatti era visto come costruito su una croce, all’incrocio delle strade che collegano l’est all’ovest e il nord al sud.
“La diffusione straordinaria della croce nelle parti più diverse del mondo prima del Cristianesimo e al di fuori della sua influenza si spiega con la multivalenza e la densità del suo significato simbolico. La croce è un simbolo primordiale che ha attinenza con tre altri simboli fondamentali: il centro, il cerchio e il quadrato. Con l’intersecazione delle due linee rette, che coincide con il centro, la croce apre il centro verso l’esterno, divide il cerchio in quattro parti, genera il quadrato” (Julien Ries). La croce appare così un simbolo fondamentale dell’homo religiosus, un simbolo che consente all’uomo di orientarsi nel mondo. E di orientarsi nello spazio come nel tempo. L’orientamento spazio-temporale si articola attorno ai quattro bracci della croce. “L’orientamento spaziale si articola secondo l’asse est-ovest, corrispondente al sorgere e al calare del sole; l’orientamento temporale si articola attorno all’asse di rotazione del mondo, nord e sud e alto e basso, cioè intorno all’asse verticale che unisce i poli e taglia, all’orizzonte, il piano orizzontale terrestre. L’incrocio di questi due assi dà alla croce la sua terza dimensione, condizione per un orientamento totale. L’orientamento spaziale mette l’uomo in accordo con il suo ambiente vitale, la concordanza degli orientamenti spaziali e temporali lo mette in accordo con il mondo soprannaturale, trascendente: dall’ambito terrestre si passa a quest’ultimo attraverso l’asse verticale, l’Axis mundi. Tutti i significati della croce vengono da qui” (Jean Hani).
Spesso associato al tema dell’albero, che unisce i livelli celeste, terrestre e sotterraneo, il simbolo cruciforme evoca fertilità, vitalità, ma anche la dimensione ascensionale verso l’invisibile, l’unità fra celeste e infero. Il simbolismo del centro, così sottolineato da Mircea Eliade, è decisivo nella croce, e spesso associato all’albero cosmico posto al centro del mondo. Il numero quattro, con le sue valenze cosmiche, designa totalità, pienezza, universalità. Se la croce rinvia al macrocosmo, essa evoca pure quel microcosmo che è l’uomo: l’uomo in piedi con le braccia aperte disegna la figura della croce. E fa sì che il simbolo cruciforme sia chiave ermeneutica che consente all’uomo di decifrare se stesso e il mondo, di collocare se stesso nel mondo.
***
Certo, nel nostro mondo occidentale così segnato dal Cristianesimo, la croce evoca immediatamente il patibolo, lo strumento di tortura e di condanna a morte in uso presso i Romani, e a cui fu appeso Gesù di Nazaret. E se è vero che la storia dell’interpretazione cristiana della croce ha conosciuto la ripresa di molti significati rivestiti anche in precedenza dal simbolo cruciforme (si pensi all’ankh egiziano che, ripreso dai cristiani egiziani, i copti, vede cristianizzato il suo riferimento alla vita oltre la morte e arriva a designare la vita eterna a cui introduce Cristo), è altrettanto vero che la croce cristiana ha una valenza storica precisa e rinvia a un evento storico determinato e tragico.
Gli storici e i letterati romani parlano della croce come del “supplizio più crudele e orrendo” (Cicerone), del “sommo male” (Plauto), della “pena estrema e massima riservata agli schiavi” (Cicerone): la morte cui conduceva era la mors turpissima crucis (Tacito). La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito ritrovato sui muri di Pompei: “Che tu sia crocifisso”. Per la società romana del tempo la croce era dunque il simbolo più disgraziato, terribile e umiliante. Eppure, nel Nuovo Testamento, e in particolare con Paolo, che più di ogni altro autore neotestamentario ha elaborato una theologia crucis, essa diviene l’elemento decisivo centrale dell’agire salvifico di Dio verso l’umanità. La croce, con la sua portata di scandalo e stoltezza, diviene la diretta rivelazione del volto di Dio. Dal cuore dell’evangelo discende pertanto la fisionomia paradossale e scandalosa della fede cristiana. Anzi, la fede cristiana si esprime in forma di ossimoro: si tratta di credere l’incredibile (il Rivelatore di Dio è l’appeso alla croce), di amare chi non è amabile (il nemico), di sperare l’insperabile (la morte della morte). La croce contesta ormai la razionalità pagana e la religiosità che si nutre di segni, miracoli e portenti.
Certo, dire “croce” nel Cristianesimo significa rinviare a chi vi è steso sopra. È Gesù che, con la sua vita, la sua pro-esistenza, la sua santità ospitale, la bellezza che ha irradiato nel suo vivere e amare, dà senso anche all’orrore della croce, al “legno disgraziato” (Seneca). L’amore che ha guidato il vivere di Gesù, ha abitato anche il suo morire e questo amore ha aperto la morte, l’ha resa un passaggio, una Pasqua di resurrezione. Ormai, nello spazio cristiano, il fatto che Dio, nel Figlio Gesù Cristo, abbia abitato il luogo dell’assenza di Dio, il luogo “ateo”, della maledizione (Cristo “è diventato maledizione per noi come sta scritto: ‘Maledetto chi pende dal legno’”: Gal 3,13), indica che non vi è inferno esistenziale che non possa conoscere la comunione con Dio. Paradossalmente, da strumento di pena capitale, e quindi da simbolo disgraziato e tragico, la croce nel Cristianesimo diviene apertura alla più sconfinata speranza: il cielo abita non solo la terra, ma anche le regioni infernali. Questa è la croce a cui il cristiano può rivolgersi cantando: Ave, crux, spes unica! Questa è la croce “veramente capace di farci conoscere Dio” (Lutero). Scrive Gregorio di Nissa: “La croce è teologa per coloro che hanno uno sguardo penetrante e proclama con sua forma la potenza sovrana di colui che compare su di lei ed è tutto in tutti”.
***
Le croci di Giuliano Ravazzini, con la forza della loro semplicità, hanno il merito di porci di fronte alla potenza di questo simbolo elementare. Le diverse forme di croci ripropongono alcune delle tante realizzazioni che la tradizione ha elaborato nel corso del tempo (croce latina, croce greca, croce decussata o di s. Andrea, a forma di X …), ma soprattutto ci chiedono un lavoro interiore. Scrive Paul Ricoeur: “Il simbolo dà a pensare. Questa sentenza dice due cose; il simbolo dà; io non pongo il senso, è il simbolo che dà il senso – ma ciò che dà è da pensare. A partire dalla donazione, la posizione. La sentenza suggerisce quindi, nel medesimo tempo, che tutto è già detto in forma di enigma e tuttavia tutto deve sempre essere ricominciato nella dimensione del pensiero”. Queste croci chiedono di ascoltare e accogliere un messaggio, un dono, e di compiere un’attività ermeneutica. Da quel centro che la croce rappresenta, siamo condotti al nostro centro, al nostro cuore. A ritrovare un centro. Siamo invitati a orientarci, a volgerci a est, alla luce, alla fonte della vita. Nel nostro mondo pieno di immagini e privo di simboli, le opere di Ravazzini ci pongono una domanda. O forse ci mettono in questione. Fanno di noi una domanda a noi stessi. E ci consentono di discernere il non-essenziale di cui viviamo, gli idoli che si sono impadroniti della nostra anima, le “cose di cui siamo pieni e che ci gettano fuori di noi” (Pascal).
Le sue croci sono un invito al silenzio e all’ascolto. Lasciamole parlare, lasciamo parlare i simboli: ritroveremo qualcosa di noi stessi che avevamo dimenticato, occultato, smarrito.
15
marzo 2008
Giuliano Ravazzini – Stauros
Dal 15 marzo al 13 aprile 2008
arte contemporanea
Location
PALAZZO DUCALE
Sabbioneta, Piazza Ducale, 2, (Mantova)
Sabbioneta, Piazza Ducale, 2, (Mantova)
Orario di apertura
dalle 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 17.30, chiuso il lunedì
Vernissage
15 Marzo 2008, ore 16.30
Autore
Curatore