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Giuliano Sale / Silvia Argiolas
La CATANIA ART GALLERY, il nuovo presidio d’arte del capoluogo etneo inaugurato lo scorso dicembre dalla madrina Beatrice Buscaroli, domenica 17 marzo aprirà al pubblico una nuova mostra, a cura di Ivan Quaroni, che comprende un doppio progetto: “Piovono pietre” di Giuliano Sale e “Il giorno finisce presto” di Silvia Argiolas
Comunicato stampa
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La CATANIA ART GALLERY, il nuovo presidio d’arte del capoluogo etneo inaugurato lo scorso dicembre dalla madrina Beatrice Buscaroli, domenica 17 marzo aprirà al pubblico una nuova mostra, a cura di Ivan Quaroni, che comprende un doppio progetto: “Piovono pietre” di Giuliano Sale e “Il giorno finisce presto” di Silvia Argiolas.
Dopo il grande successo riscosso con le prime due mostre - “Altrove-luogo o poesia” e “Le opere storiche di Aligi Sassu”- il mecenate Salvo Daniele Torrisi, in occasione di questo terzo appuntamento, mette insieme contestualmente due linguaggi di pittura assolutamente opposti. “Da collezionista sono ben contento di ospitare la personale di Giuliano Sale e Silvia Argiolas – afferma Torrisi - in quanto rientra a pieno titolo con le scelte che ho operato da oltre 15 anni, cioe seguire le nuove generazioni che danno lustro all’arte italiana in Europa e nel mondo. Giuliano e Silvia sono due artisti molto validi che si stanno imponendo nel panorama internazionale. Analizzando le loro opere emergono due elementi fondamentali: una qualità indiscussa di pittura, seppur profondamente diversa l’una dall’altra ma paritetica sotto il profilo della concettualità, e il pensiero che attraverso la loro opera pittorica i due artisti riescono a trasporre nelle tele”.Giuliano Sale è un artista visionario – fedele alla visione - perché il suo coinvolgimento con l’oggetto della rappresentazione è il dato sensibile di tutta la sua opera. Giuliano Sale parte dalla realtà, da una corretta conoscenza della morfologia delle forme e dell’anatomia umana. Tutti i suoi soggetti - paesaggi, alberi, pietre, case, persone – sono verosimili, plausibili dal punto di vista ottico, ma le atmosfere, le circostanze (perfino le leggi fisiche) sono il prodotto di un’interpretazione, di una trasformazione prima cerebrale e poi manuale della realtà. Sale dipinge col cervello e con le mani perché non è un ritrattista e nemmeno un paesaggista, ma un distopico inventore di mondi. Silvia Argiolas è, invece, una di quelle pittrici in costante trasformazione, per le quali appare convincente l’applicazione del termine “ricerca artistica”. In poco più di cinque anni, il suo linguaggio pittorico è cambiato radicalmente, muovendo da una figurazione schietta, di matrice fantastica, verso una più originale forma di espressionismo, in cui si mescolano soluzioni sintetiche e apporti gestuali, riduzioni cromatiche e progressive riformulazioni del rapporto tra forma e colore. Anche dal punto di vista tecnico, l’artista ha ampliato notevolmente la gamma dei materiali, introducendo nella tavolozza smalti, spray, carboni e inserti estranei alla tradizione della fine art, come nel caso dei gel e dei siliconi con glitter, peraltro applicati sulla tela con assoluta parsimonia.
Questa sorta di “tensione evolutiva”, che qualifica l’approccio di Silvia Argiolas, contribuisce a rendere ogni nuova serie di opere un episodio unico, difficilmente reiterabile.
La mostra resterà aperta dal 17 marzo al 14 aprile 2013 tutti i giorni dalle ore 16,30 alle ore 20, sabato e domenica pure di mattina dalle ore 10 alle ore 13.
AGATA PATRIZIA SACCONE
PRESS OFFICE - P.R.
(MOBILE 393.3309644)
agatapatriziasaccone@tiscali.it
Il giorno finisce presto
Di Ivan Quaroni
“Qualsiasi esperienza profonda della mia vita è il risultato di uno sforzo costante per stimolare
la mia immaginazione, ampliare i suoi limiti, apprenderne il potenziale terapeutico e trasfiguratore”.
(Alejandro Jodorowsky, Psicomagia)
Gli artisti progressivi, evolutivi, sono una rarità. La maggior parte di essi sviluppa una
sorta di accidia intellettuale e stilistica ed spesso è incline alla ripetizione sintattica e
grammaticale nel linguaggio, come pure nel modus operandi. Tuttavia, una volta in
possesso di una sigla stilistica, la tendenza alla reiterazione può diventare motivo di
successo oppure generare pericolose forme di stagnazione.
Silvia Argiolas è, invece, una di quelle pittrici in costante trasformazione, per le quali
appare convincente l’applicazione del termine “ricerca artistica”. In poco più di cinque anni,
il suo linguaggio pittorico è cambiato radicalmente, muovendo da una figurazione schietta,
di matrice fantastica, verso una più originale forma di espressionismo, in cui si mescolano
soluzioni sintetiche e apporti gestuali, riduzioni cromatiche e progressive riformulazioni
del rapporto tra forma e colore. Anche dal punto di vista tecnico, l’artista ha ampliato
notevolmente la gamma dei materiali, introducendo nella tavolozza smalti, spray, carboni e
inserti estranei alla tradizione della fine art, come nel caso dei gel e dei siliconi con glitter,
peraltro applicati sulla tela con assoluta parsimonia.
Questa sorta di “tensione evolutiva”, che qualifica l’approccio di Silvia Argiolas,
contribuisce a rendere ogni nuova serie di opere un episodio unico, difficilmente reiterabile.
I lavori del ciclo intitolato “Il giorno finisce presto” si differenziano, infatti, da quelli
precedenti per la presenza di grafemi e sintagmi inediti. Ad esempio, l’inserimento di
geometrie sghembe nel corpo dei personaggi, l’annullamento di alcune fisionomie, in certi
casi sostituite da maschere circolari, così come l’estrema rarefazione della descrizione
paesaggistica e la sua riduzione a pochi, eloquenti segni, sono i cardini di una grammatica
nuova che, in sintonia con le ricerche di altri artisti internazionali, tende a fondere elementi
figurativi e astratti. In altre parole, sembra che nella ricerca di Argiolas, l’attenzione verso le
potenzialità del linguaggio pittorico si divenuta più stringente rispetto alla necessità di una
rappresentazione facilmente decodificabile. Ciò non esclude la presenza di un tema, di un
racconto intorno al quale s’incardinano i motivi tipici della sua iconografia. Semplicemente,
il tema resta sottotraccia, come un prerequisito, un elemento in fondo pretestuoso, sebbene
decisivo a innescare l’indagine di nuovi paradigmi visivi.
Piuttosto, osservando la progressione stilistica dell’artista nell’arco di un solo lustro, è
possibile ravvisare nel climax emotivo, ossia in quell’atmosfera visionaria e sinistra che
pervade le sue opere, un solido elemento di continuità. Non è, quindi, la specificità del tema
a caratterizzare i diversi cicli pittorici dell’artista, ma la coerenza dell’umore, insomma del
mood, come direbbero gli anglosassoni.
Silvia Argiolas si definisce un’attenta osservatrice della condotta umana, delle manie e delle
ossessioni, degli slanci e dei conflitti interiori nel nostro tempo. Protagonisti delle sue opere
sono personaggi ibridi, dalla sessualità indefinita, figure che incarnano pulsioni e istanze
emotive, topoi psichici, più che persone in carne e ossa.
Anche i suoi paesaggi, teatri di curiosi e misteriosi rituali, sono il frutto di una proiezione
interiore, di una sorta di metaforica traslazione di stati d’animo. Si potrebbe dire che sono
luoghi dello spirito, dove la natura incarna l’aspetto più selvaggio e inconfessabile dei moti
dell’animo.
Di fatto, Silvia Argiolas esprime la meraviglia del mondo, liberando energie represse o
latenti. La sua pittura può essere considerata come una sorta di esorcismo, come un atto
catartico che affida alla rappresentazione visiva l’alto compito di rigenerare lo spirito.
Qualcosa di simile alla psicomagia di Alejandro Jodorowsky, una terapia panica, alternativa
alla comune psicologia, che confonde la realtà con l’immaginazione per il tramite di una
ritualità complessa, che salta gli steccati della logica razionale e attinge alle più remote e
sinistre - ma anche indubitabili - verità dell’inconscio.
Il giorno finisce presto, titolo ripreso da un dramma teatrale giovanile di Ingmar Bergman,
è un progetto nato da una riflessione dell’artista sulla solitudine e la noia, ma anche sul
trascorrere del tempo nella dimensione dilatata della psiche, dove aleggiano inquiete larve,
minacciosi spettri e mostruose figure di canidi dalle fauci spalancate.
Attraverso una pittura dai toni forti e dai colori acidi, che intervalla densi grumi materici
e scabre scarnificazioni, Argiolas mette in scena un dramma popolato di eroi violenti e
autodistruttivi, ministri di un culto efferato, di una liturgia dissoluta, che equipara vittime
e carnefici. Il suo è un teatro di crudeltà e afflizioni, declinato in una sequela di atti unici,
simili, per certi versi, alle formelle medioevali con le raffigurazioni dei supplizi infernali,
ma a differenza di queste, privi di ogni sottinteso moralistico. “Mi pongo di continuo
domande sui comportamenti umani”, confessa l’artista, “senza però esprimere alcun
giudizio, perché non voglio essere io a distinguere i buoni dai cattivi. Un compito che, al
limite, lascio allo spettatore delle mie opere”. Non è un caso, infatti, che i suoi psicodrammi
paiono consumarsi in un clima sorprendentemente festoso, di orgiastica comunione panica,
che quasi contrasta con la truce lascivia dei personaggi.
A dirla tutta, Silvia Argiolas dipinge antinomie che spezzano la consecutio logica del
racconto per far prevalere la sintassi di un linguaggio che parla direttamente al cuore e
ai sensi. E così, la geometria delle forme, l’incisività del segno, la sicurezza del gesto e
l’alchimia dei colori prendono il sopravvento sui significati e i contenuti presunti dell’opera.
Alla stregua di altre pittrici contemporanee – penso soprattutto all’americana Dana Schutz
e all’ingese Chantal Joffe – Silvia Argiolas rivendica l’unicità del dominio operativo della
pittura, la sua assoluta autonomia da ogni forma di narrazione.
Si tratta di un atteggiamento fondante, che non implica necessariamente l’adesione ai
dettami di un rigido formalismo. Come affermava Picasso, “Dipingere non è un'operazione
estetica: è una forma di magia intesa a compiere un'opera di mediazione fra questo mondo
estraneo e ostile e noi”.1 Ed è esattamente questo il senso ultimo della pittura di Silvia
Argiolas.
Françoise Gilot, Carlton Lake, Vita con Picasso, Garzanti, Milano, 1965.
Piovono pietre
Di Ivan Quaroni
“Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in aureo stile
in cui danza il languore del sole”
(Paul Verlaine, Languore)
“Si dipinge col cervello e con le mani”. Così la pensava Michelangelo Buonarroti.
Curiosamente, gli occhi non sono inclusi in questa affermazione del grande maestro
rinascimentale, forse perché guardare, osservare e dunque riportare sulla tela un oggetto
non è propriamente il compito della pittura. Semmai, il suo scopo è restituirci il senso di
una visione che non è necessariamente mimetica, cioè fedele al dato sensibile, fenomenico.
Soprattutto oggi che, per registrare la realtà è sufficiente ricorrere ad altri strumenti,
tecnologicamente più precisi, come il video e la fotografia.
La pittura, invece, è un medium ancora capace di sondare i territori dell’ineffabile e
dell’indicibile, di restituirci il senso (talora incompiuto) di un prospetto mentale, di una
costruzione astratta, immaginifica, ma che con la realtà sensibile conserva un rapporto
critico. Dipingere è, in sostanza, una forma molto più assertiva di descrizione della realtà,
che introduce elementi imprevisti, forme analogiche e figure metaforiche generate dal
pensiero e, dunque, non mutuate dalla semplice osservazione documentaria dei fatti.
Secondo Jacques Lacan esiste una differenza tra vedere e guardare. Il filosofo francese
la definisce una “schisi fra occhio e sguardo”, ossia una separazione tra il funzionamento
dell’occhio e quel particolare accadimento che chiamiamo sguardo. Nella visione ottica,
infatti, c’è una distanza tra l’osservatore e la cosa osservata, mentre nello sguardo c’è un
coinvolgimento da parte dell’osservatore, il quale viene letteralmente assorbito dall’oggetto
della visione. La pittura è il prodotto dello sguardo dell’artista proprio perché non ritrae mai
l’oggetto come entità a se stante, ma la sua relazione con il soggetto percipiente.
Giuliano Sale è un artista visionario perché il suo coinvolgimento con l’oggetto della
rappresentazione è il dato sensibile di tutta la sua opera. Visionario, in questo caso, non
significa “fantastico”, ma, appunto, fedele alla visione, cioè a quell’esperienza immersiva di
fusione tra soggetto e oggetto. Giuliano Sale parte dalla realtà, da una corretta conoscenza
della morfologia delle forme e dell’anatomia umana. Tutti i suoi soggetti - paesaggi, alberi,
pietre, case, persone – sono verosimili, plausibili dal punto di vista ottico, ma le atmosfere,
le circostanze (perfino le leggi fisiche) sono il prodotto di un’interpretazione, di una
trasformazione prima cerebrale e poi manuale della realtà. Sale dipinge col cervello e con
le mani perché non è un ritrattista e nemmeno un paesaggista, ma un distopico inventore
di mondi. Nel suo DNA è lecito rintracciare i geni del Simbolismo, del Realismo Magico
e della Nuova Oggettività, da cui derivano lo stile nitido, quasi scultoreo, e la predilezione
per atmosfere enigmatiche e crepuscolari. Eppure, nonostante gli evidenti tributi alla
pittura tardoromantica e a quella italiana e tedesca tra le due guerre (Valori Plastici e Neue
Sachlichkeit), Giuliano Sale non è un artista anacronista, perché la sua visione è radicata nel
presente e, anzi, si configura come l’assalto a “un tempo devastato e vile”, in cui l’umanità
attraversa una crisi d’ideali e valori senza precedenti.
Fulcro di Piovono pietre è, a suo dire, “la triste e in qualche modo ineluttabile parabola
terrena dei vinti, l’incedere lento e faticoso di un destino che si compie, poiché anche la
fine, per questi eroi sconfitti, è ardua e penosa”. La loro presenza è, infatti, ridotta all’osso,
come fagocitata dai luoghi impervi e dai paesaggi inospitali, dove penetra una luce fredda,
fioca come un pallido raggio lunare.
Le loro azioni sono prive di scopo e senso, come per effetto di gestualità compulsiva e
meccanica, di una fisiologia funerea da revenant. Dominano, invece, scorci di paesaggi
capovolti, panorami alieni, sottoposti a improvvise inversioni di scala, sintomi di una
perdita di orientamento che rovescia ogni bussola interiore, preludendo alla formazione di
una nuova geografia apocalittica, dove le leggi della fisica tradizionale si sciolgono in una
sinistra, straniante allucinazione spazio-temporale.
Piovono pietre è il titolo di un celebre film di Ken Loach, cineasta cantore delle vicende
working class britannica, ma l’artista si riferisce piuttosto al proverbio inglese secondo cui
“quando piove sui poveri, piovono pietre”. E’ noto, infatti, come la miseria, soprattutto
in questi tempi di crisi, si abbatta sui reietti e gli sconfitti, sugli emarginati che occupano
i gradini più bassi della scala sociale. Per Giuliano Sale la schiera dei vinti si allarga a
comprendere una fetta sempre più vasta di umanità, diventa addirittura metafora di una
condizione di decadenza cronica, che prelude a un’imminente estinzione della specie.
Per questo, l’opera dell’artista, che si autodefinisce un pessimista catastrofico, assomiglia
alla prefigurazione di un universo morente, colto nella sua fase estrema, terminale. Nei suoi
paesaggi desolati, trafitti da piogge meteoritiche, costellati d’imponenti macigni, la fine del
mondo coincide con la caduta dell’umanità. Sotto cieli plumbei, nel sussultante ansito del
pianeta, sorgono soli neri come la pece e lune gemelle tra le coltri di nero fumo. Le case,
un tempo simbolo di stabilità, ultimo rifugio accogliente, sono divenute scheletri di una
tramontata civiltà, architetture precarie, reliquie semisommerse dalle acque, minacciate da
pendenti monoliti. Giuliano Sale immagina una realtà in frantumi, uno scenario rovinoso
in cui si aggirano sparute ed esili figure. Sono paesaggi ipotetici, al limite dell’astrazione,
sovente risolti con l’utilizzo di una tavolozza dominata da toni cupi, da antraciti fossili, terre
bruciate e blu quasi metallici. “Il colore blu, in particolare, assume per la prima volta un
significato nelle mie opere”, racconta l’artista, “un colore freddo, che da forma alle cose
e che, in un certo senso, allude a uno stato di distacco emotivo”. In dipinti come Soulside
Journey, Raining Stones e World Coming Down, il paesaggio sembra pietrificato in una
sorta di siderale immobilità, mentre in The Woods Blue Uncertain, il cobalto del bosco si
avvolge intorno a un nucleo di vivido carminio, suscitando l’impressione di un vulcano in
procinto di esplodere. Il colore è per Giuliano Sale uno strumento di espressione del mood
emotivo, che egli declina sulle sue tele con puntiglioso raziocinio. Ogni dipinto ha, infatti,
una dominante cromatica, come nel caso di To Late Frozen, Push the Sky e Where the Cold
Wind Blow, dove il nero gioca un ruolo essenziale, o di Can’t Lose You, strutturato come
una progressione di strisce cromatiche orizzontali, dalla terra della spiaggia all’azzurro del
mare, fino al bianco delle nuvole e al bruno dell’enorme masso che proietta un’inquietante
ombra sulle due piccole figure di bagnati. Can’t Lose You è anche uno dei dipinti più
significativi dell’ultimo Giuliano Sale, immagine emblematica di un pericolo incombente e,
insieme, perfetta allegoria della fragilità umana.
Dopo il grande successo riscosso con le prime due mostre - “Altrove-luogo o poesia” e “Le opere storiche di Aligi Sassu”- il mecenate Salvo Daniele Torrisi, in occasione di questo terzo appuntamento, mette insieme contestualmente due linguaggi di pittura assolutamente opposti. “Da collezionista sono ben contento di ospitare la personale di Giuliano Sale e Silvia Argiolas – afferma Torrisi - in quanto rientra a pieno titolo con le scelte che ho operato da oltre 15 anni, cioe seguire le nuove generazioni che danno lustro all’arte italiana in Europa e nel mondo. Giuliano e Silvia sono due artisti molto validi che si stanno imponendo nel panorama internazionale. Analizzando le loro opere emergono due elementi fondamentali: una qualità indiscussa di pittura, seppur profondamente diversa l’una dall’altra ma paritetica sotto il profilo della concettualità, e il pensiero che attraverso la loro opera pittorica i due artisti riescono a trasporre nelle tele”.Giuliano Sale è un artista visionario – fedele alla visione - perché il suo coinvolgimento con l’oggetto della rappresentazione è il dato sensibile di tutta la sua opera. Giuliano Sale parte dalla realtà, da una corretta conoscenza della morfologia delle forme e dell’anatomia umana. Tutti i suoi soggetti - paesaggi, alberi, pietre, case, persone – sono verosimili, plausibili dal punto di vista ottico, ma le atmosfere, le circostanze (perfino le leggi fisiche) sono il prodotto di un’interpretazione, di una trasformazione prima cerebrale e poi manuale della realtà. Sale dipinge col cervello e con le mani perché non è un ritrattista e nemmeno un paesaggista, ma un distopico inventore di mondi. Silvia Argiolas è, invece, una di quelle pittrici in costante trasformazione, per le quali appare convincente l’applicazione del termine “ricerca artistica”. In poco più di cinque anni, il suo linguaggio pittorico è cambiato radicalmente, muovendo da una figurazione schietta, di matrice fantastica, verso una più originale forma di espressionismo, in cui si mescolano soluzioni sintetiche e apporti gestuali, riduzioni cromatiche e progressive riformulazioni del rapporto tra forma e colore. Anche dal punto di vista tecnico, l’artista ha ampliato notevolmente la gamma dei materiali, introducendo nella tavolozza smalti, spray, carboni e inserti estranei alla tradizione della fine art, come nel caso dei gel e dei siliconi con glitter, peraltro applicati sulla tela con assoluta parsimonia.
Questa sorta di “tensione evolutiva”, che qualifica l’approccio di Silvia Argiolas, contribuisce a rendere ogni nuova serie di opere un episodio unico, difficilmente reiterabile.
La mostra resterà aperta dal 17 marzo al 14 aprile 2013 tutti i giorni dalle ore 16,30 alle ore 20, sabato e domenica pure di mattina dalle ore 10 alle ore 13.
AGATA PATRIZIA SACCONE
PRESS OFFICE - P.R.
(MOBILE 393.3309644)
agatapatriziasaccone@tiscali.it
Il giorno finisce presto
Di Ivan Quaroni
“Qualsiasi esperienza profonda della mia vita è il risultato di uno sforzo costante per stimolare
la mia immaginazione, ampliare i suoi limiti, apprenderne il potenziale terapeutico e trasfiguratore”.
(Alejandro Jodorowsky, Psicomagia)
Gli artisti progressivi, evolutivi, sono una rarità. La maggior parte di essi sviluppa una
sorta di accidia intellettuale e stilistica ed spesso è incline alla ripetizione sintattica e
grammaticale nel linguaggio, come pure nel modus operandi. Tuttavia, una volta in
possesso di una sigla stilistica, la tendenza alla reiterazione può diventare motivo di
successo oppure generare pericolose forme di stagnazione.
Silvia Argiolas è, invece, una di quelle pittrici in costante trasformazione, per le quali
appare convincente l’applicazione del termine “ricerca artistica”. In poco più di cinque anni,
il suo linguaggio pittorico è cambiato radicalmente, muovendo da una figurazione schietta,
di matrice fantastica, verso una più originale forma di espressionismo, in cui si mescolano
soluzioni sintetiche e apporti gestuali, riduzioni cromatiche e progressive riformulazioni
del rapporto tra forma e colore. Anche dal punto di vista tecnico, l’artista ha ampliato
notevolmente la gamma dei materiali, introducendo nella tavolozza smalti, spray, carboni e
inserti estranei alla tradizione della fine art, come nel caso dei gel e dei siliconi con glitter,
peraltro applicati sulla tela con assoluta parsimonia.
Questa sorta di “tensione evolutiva”, che qualifica l’approccio di Silvia Argiolas,
contribuisce a rendere ogni nuova serie di opere un episodio unico, difficilmente reiterabile.
I lavori del ciclo intitolato “Il giorno finisce presto” si differenziano, infatti, da quelli
precedenti per la presenza di grafemi e sintagmi inediti. Ad esempio, l’inserimento di
geometrie sghembe nel corpo dei personaggi, l’annullamento di alcune fisionomie, in certi
casi sostituite da maschere circolari, così come l’estrema rarefazione della descrizione
paesaggistica e la sua riduzione a pochi, eloquenti segni, sono i cardini di una grammatica
nuova che, in sintonia con le ricerche di altri artisti internazionali, tende a fondere elementi
figurativi e astratti. In altre parole, sembra che nella ricerca di Argiolas, l’attenzione verso le
potenzialità del linguaggio pittorico si divenuta più stringente rispetto alla necessità di una
rappresentazione facilmente decodificabile. Ciò non esclude la presenza di un tema, di un
racconto intorno al quale s’incardinano i motivi tipici della sua iconografia. Semplicemente,
il tema resta sottotraccia, come un prerequisito, un elemento in fondo pretestuoso, sebbene
decisivo a innescare l’indagine di nuovi paradigmi visivi.
Piuttosto, osservando la progressione stilistica dell’artista nell’arco di un solo lustro, è
possibile ravvisare nel climax emotivo, ossia in quell’atmosfera visionaria e sinistra che
pervade le sue opere, un solido elemento di continuità. Non è, quindi, la specificità del tema
a caratterizzare i diversi cicli pittorici dell’artista, ma la coerenza dell’umore, insomma del
mood, come direbbero gli anglosassoni.
Silvia Argiolas si definisce un’attenta osservatrice della condotta umana, delle manie e delle
ossessioni, degli slanci e dei conflitti interiori nel nostro tempo. Protagonisti delle sue opere
sono personaggi ibridi, dalla sessualità indefinita, figure che incarnano pulsioni e istanze
emotive, topoi psichici, più che persone in carne e ossa.
Anche i suoi paesaggi, teatri di curiosi e misteriosi rituali, sono il frutto di una proiezione
interiore, di una sorta di metaforica traslazione di stati d’animo. Si potrebbe dire che sono
luoghi dello spirito, dove la natura incarna l’aspetto più selvaggio e inconfessabile dei moti
dell’animo.
Di fatto, Silvia Argiolas esprime la meraviglia del mondo, liberando energie represse o
latenti. La sua pittura può essere considerata come una sorta di esorcismo, come un atto
catartico che affida alla rappresentazione visiva l’alto compito di rigenerare lo spirito.
Qualcosa di simile alla psicomagia di Alejandro Jodorowsky, una terapia panica, alternativa
alla comune psicologia, che confonde la realtà con l’immaginazione per il tramite di una
ritualità complessa, che salta gli steccati della logica razionale e attinge alle più remote e
sinistre - ma anche indubitabili - verità dell’inconscio.
Il giorno finisce presto, titolo ripreso da un dramma teatrale giovanile di Ingmar Bergman,
è un progetto nato da una riflessione dell’artista sulla solitudine e la noia, ma anche sul
trascorrere del tempo nella dimensione dilatata della psiche, dove aleggiano inquiete larve,
minacciosi spettri e mostruose figure di canidi dalle fauci spalancate.
Attraverso una pittura dai toni forti e dai colori acidi, che intervalla densi grumi materici
e scabre scarnificazioni, Argiolas mette in scena un dramma popolato di eroi violenti e
autodistruttivi, ministri di un culto efferato, di una liturgia dissoluta, che equipara vittime
e carnefici. Il suo è un teatro di crudeltà e afflizioni, declinato in una sequela di atti unici,
simili, per certi versi, alle formelle medioevali con le raffigurazioni dei supplizi infernali,
ma a differenza di queste, privi di ogni sottinteso moralistico. “Mi pongo di continuo
domande sui comportamenti umani”, confessa l’artista, “senza però esprimere alcun
giudizio, perché non voglio essere io a distinguere i buoni dai cattivi. Un compito che, al
limite, lascio allo spettatore delle mie opere”. Non è un caso, infatti, che i suoi psicodrammi
paiono consumarsi in un clima sorprendentemente festoso, di orgiastica comunione panica,
che quasi contrasta con la truce lascivia dei personaggi.
A dirla tutta, Silvia Argiolas dipinge antinomie che spezzano la consecutio logica del
racconto per far prevalere la sintassi di un linguaggio che parla direttamente al cuore e
ai sensi. E così, la geometria delle forme, l’incisività del segno, la sicurezza del gesto e
l’alchimia dei colori prendono il sopravvento sui significati e i contenuti presunti dell’opera.
Alla stregua di altre pittrici contemporanee – penso soprattutto all’americana Dana Schutz
e all’ingese Chantal Joffe – Silvia Argiolas rivendica l’unicità del dominio operativo della
pittura, la sua assoluta autonomia da ogni forma di narrazione.
Si tratta di un atteggiamento fondante, che non implica necessariamente l’adesione ai
dettami di un rigido formalismo. Come affermava Picasso, “Dipingere non è un'operazione
estetica: è una forma di magia intesa a compiere un'opera di mediazione fra questo mondo
estraneo e ostile e noi”.1 Ed è esattamente questo il senso ultimo della pittura di Silvia
Argiolas.
Françoise Gilot, Carlton Lake, Vita con Picasso, Garzanti, Milano, 1965.
Piovono pietre
Di Ivan Quaroni
“Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in aureo stile
in cui danza il languore del sole”
(Paul Verlaine, Languore)
“Si dipinge col cervello e con le mani”. Così la pensava Michelangelo Buonarroti.
Curiosamente, gli occhi non sono inclusi in questa affermazione del grande maestro
rinascimentale, forse perché guardare, osservare e dunque riportare sulla tela un oggetto
non è propriamente il compito della pittura. Semmai, il suo scopo è restituirci il senso di
una visione che non è necessariamente mimetica, cioè fedele al dato sensibile, fenomenico.
Soprattutto oggi che, per registrare la realtà è sufficiente ricorrere ad altri strumenti,
tecnologicamente più precisi, come il video e la fotografia.
La pittura, invece, è un medium ancora capace di sondare i territori dell’ineffabile e
dell’indicibile, di restituirci il senso (talora incompiuto) di un prospetto mentale, di una
costruzione astratta, immaginifica, ma che con la realtà sensibile conserva un rapporto
critico. Dipingere è, in sostanza, una forma molto più assertiva di descrizione della realtà,
che introduce elementi imprevisti, forme analogiche e figure metaforiche generate dal
pensiero e, dunque, non mutuate dalla semplice osservazione documentaria dei fatti.
Secondo Jacques Lacan esiste una differenza tra vedere e guardare. Il filosofo francese
la definisce una “schisi fra occhio e sguardo”, ossia una separazione tra il funzionamento
dell’occhio e quel particolare accadimento che chiamiamo sguardo. Nella visione ottica,
infatti, c’è una distanza tra l’osservatore e la cosa osservata, mentre nello sguardo c’è un
coinvolgimento da parte dell’osservatore, il quale viene letteralmente assorbito dall’oggetto
della visione. La pittura è il prodotto dello sguardo dell’artista proprio perché non ritrae mai
l’oggetto come entità a se stante, ma la sua relazione con il soggetto percipiente.
Giuliano Sale è un artista visionario perché il suo coinvolgimento con l’oggetto della
rappresentazione è il dato sensibile di tutta la sua opera. Visionario, in questo caso, non
significa “fantastico”, ma, appunto, fedele alla visione, cioè a quell’esperienza immersiva di
fusione tra soggetto e oggetto. Giuliano Sale parte dalla realtà, da una corretta conoscenza
della morfologia delle forme e dell’anatomia umana. Tutti i suoi soggetti - paesaggi, alberi,
pietre, case, persone – sono verosimili, plausibili dal punto di vista ottico, ma le atmosfere,
le circostanze (perfino le leggi fisiche) sono il prodotto di un’interpretazione, di una
trasformazione prima cerebrale e poi manuale della realtà. Sale dipinge col cervello e con
le mani perché non è un ritrattista e nemmeno un paesaggista, ma un distopico inventore
di mondi. Nel suo DNA è lecito rintracciare i geni del Simbolismo, del Realismo Magico
e della Nuova Oggettività, da cui derivano lo stile nitido, quasi scultoreo, e la predilezione
per atmosfere enigmatiche e crepuscolari. Eppure, nonostante gli evidenti tributi alla
pittura tardoromantica e a quella italiana e tedesca tra le due guerre (Valori Plastici e Neue
Sachlichkeit), Giuliano Sale non è un artista anacronista, perché la sua visione è radicata nel
presente e, anzi, si configura come l’assalto a “un tempo devastato e vile”, in cui l’umanità
attraversa una crisi d’ideali e valori senza precedenti.
Fulcro di Piovono pietre è, a suo dire, “la triste e in qualche modo ineluttabile parabola
terrena dei vinti, l’incedere lento e faticoso di un destino che si compie, poiché anche la
fine, per questi eroi sconfitti, è ardua e penosa”. La loro presenza è, infatti, ridotta all’osso,
come fagocitata dai luoghi impervi e dai paesaggi inospitali, dove penetra una luce fredda,
fioca come un pallido raggio lunare.
Le loro azioni sono prive di scopo e senso, come per effetto di gestualità compulsiva e
meccanica, di una fisiologia funerea da revenant. Dominano, invece, scorci di paesaggi
capovolti, panorami alieni, sottoposti a improvvise inversioni di scala, sintomi di una
perdita di orientamento che rovescia ogni bussola interiore, preludendo alla formazione di
una nuova geografia apocalittica, dove le leggi della fisica tradizionale si sciolgono in una
sinistra, straniante allucinazione spazio-temporale.
Piovono pietre è il titolo di un celebre film di Ken Loach, cineasta cantore delle vicende
working class britannica, ma l’artista si riferisce piuttosto al proverbio inglese secondo cui
“quando piove sui poveri, piovono pietre”. E’ noto, infatti, come la miseria, soprattutto
in questi tempi di crisi, si abbatta sui reietti e gli sconfitti, sugli emarginati che occupano
i gradini più bassi della scala sociale. Per Giuliano Sale la schiera dei vinti si allarga a
comprendere una fetta sempre più vasta di umanità, diventa addirittura metafora di una
condizione di decadenza cronica, che prelude a un’imminente estinzione della specie.
Per questo, l’opera dell’artista, che si autodefinisce un pessimista catastrofico, assomiglia
alla prefigurazione di un universo morente, colto nella sua fase estrema, terminale. Nei suoi
paesaggi desolati, trafitti da piogge meteoritiche, costellati d’imponenti macigni, la fine del
mondo coincide con la caduta dell’umanità. Sotto cieli plumbei, nel sussultante ansito del
pianeta, sorgono soli neri come la pece e lune gemelle tra le coltri di nero fumo. Le case,
un tempo simbolo di stabilità, ultimo rifugio accogliente, sono divenute scheletri di una
tramontata civiltà, architetture precarie, reliquie semisommerse dalle acque, minacciate da
pendenti monoliti. Giuliano Sale immagina una realtà in frantumi, uno scenario rovinoso
in cui si aggirano sparute ed esili figure. Sono paesaggi ipotetici, al limite dell’astrazione,
sovente risolti con l’utilizzo di una tavolozza dominata da toni cupi, da antraciti fossili, terre
bruciate e blu quasi metallici. “Il colore blu, in particolare, assume per la prima volta un
significato nelle mie opere”, racconta l’artista, “un colore freddo, che da forma alle cose
e che, in un certo senso, allude a uno stato di distacco emotivo”. In dipinti come Soulside
Journey, Raining Stones e World Coming Down, il paesaggio sembra pietrificato in una
sorta di siderale immobilità, mentre in The Woods Blue Uncertain, il cobalto del bosco si
avvolge intorno a un nucleo di vivido carminio, suscitando l’impressione di un vulcano in
procinto di esplodere. Il colore è per Giuliano Sale uno strumento di espressione del mood
emotivo, che egli declina sulle sue tele con puntiglioso raziocinio. Ogni dipinto ha, infatti,
una dominante cromatica, come nel caso di To Late Frozen, Push the Sky e Where the Cold
Wind Blow, dove il nero gioca un ruolo essenziale, o di Can’t Lose You, strutturato come
una progressione di strisce cromatiche orizzontali, dalla terra della spiaggia all’azzurro del
mare, fino al bianco delle nuvole e al bruno dell’enorme masso che proietta un’inquietante
ombra sulle due piccole figure di bagnati. Can’t Lose You è anche uno dei dipinti più
significativi dell’ultimo Giuliano Sale, immagine emblematica di un pericolo incombente e,
insieme, perfetta allegoria della fragilità umana.
17
marzo 2013
Giuliano Sale / Silvia Argiolas
Dal 17 marzo al 14 aprile 2013
arte contemporanea
Location
CATANIA ART GALLERY
Catania, Via Caronda, 48/48a, (Catania)
Catania, Via Caronda, 48/48a, (Catania)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle ore 16,30 alle ore 20, sabato e domenica anche dalle ore 10 alle ore 13
Vernissage
17 Marzo 2013, h 18
Autore
Curatore