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Giuseppe Cavalli – Fotografie dal 1936 al 1961
Ad oltre quaranta anni dalla sua scomparsa, il Festival presenta la prima grande mostra antologica dedicata ad uno dei maestri della fotografia contemporanea in Italia
Comunicato stampa
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Ad oltre quaranta anni dalla sua scomparsa, il Festival presenta la prima grande mostra antologica dedicata ad uno dei maestri della fotografia contemporanea in Italia. A metà del secolo scorso Cavalli si è battuto per affrancare la fotografia dalla sua funzione documentaria e sociale e renderle l’autonomia espressiva dell’opera d’arte, creando un linguaggio per immagini, immediato e simbolico, frutto della volontà, della sensibilità e delle scelte dell’autore: la cura dell’inquadratura significante, la limpidezza delle immagini, l’essenzialità delle linee, la varietà dei toni, rendono le sue atmosfere uniche, sospese fuori dal tempo. Le sue immagini ci parlano di equilibri armoniosi, di spazi senza limiti dove l’immaginazione dell’osservatore può liberarsi. Talvolta lo spazio si apre verso l’alto, il cielo, lasciando campo alla rappresentazione dell’infinito, del “non visto”, dell’ideale. Lo spazio, il vuoto, è definito con pause sapienti, testimonianze del suo bisogno di assoluto, gestito e controllato attraverso lo studio della rappresentazione.
Giuseppe Cavalli è nato nel 1904, compie le prime prove fotografiche negli anni '30, emergendo da subito con una sua impronta personale, anche come critico e protagonista del dibattito culturale, con frequentazioni dei più noti pittori dell'epoca. L'esperienza fotografica e la riflessione estetica promossa anche attraverso i gruppi fotografici da lui fondati, “La bussola” nel '47 il “Misa” nel '54, costituiscono il fondamento del linguaggio fotografico come linguaggio artistico autonomo, in opposizione alle retoriche formule fasciste, per esprimere piuttosto un concetto di espressione pura, essenziale e rigorosa, dal tono alto. Continuò l'attività artistica e di ricerca sino alla morte nel 1961.
Giuseppe Cavalli e il piacere del Bello
di Diego Mormorio
Nella comunità scientifica internazionale c’è ormai da diversi decenni il preciso convincimento che una teoria non può essere separata dalla sua bellezza. O, ancora meglio, per dirla con Richard Feynman: che deve essere dotata anche di eleganza. A introdurre questo concetto nella fisica fu, nel 1905, Einstein, quando ancora lavorava all’Ufficio Brevetti di Berna.
Qualcuno addirittura è arrivato a dire che “è più importante che le equazioni abbiano una bellezza intrinseca, che non il fatto che esse soddisfino un esperimento”. Si potrebbe pensare che sia la frase di un matto, ma è addirittura di Paul Dirac, lo scienziato che, nel tentativo di trovare una teoria che conciliasse i principi della meccanica quantistica con quelli della relatività ristretta, per primo ipotizzò l’esistenza dell’antimateria.
Una teoria scientifica priva di bellezza è più facilmente priva di verità. In questo modo la comunità scientifica contemporanea ha ripristinato l’antico nesso tra il bello e il vero.
Nel mondo scientifico, la bellezza è strettamente connessa con la simmetria. È dunque oggettiva e misurabile. Mentre nel mondo dell’arte e della vita quotidiana molti sono portati a credere che non possa esserci una bellezza staccata dalla soggettività – e dunque dai luoghi e dalla storia. Noi ora, però, senza negare che in ogni tempo e in ogni luogo ci siano particolari inclinazioni – che, come dice Rosario Assunto, “varie e molteplici sono le bellezze” –, possiamo comunque certamente affermare che l’umanità nella sua interezza cerca di portare al centro di ogni bellezza la lievità. Cerca cioè di dare alle cose una forza opposta a quella della gravità. Più è mastodontico l’oggetto creato, più questo senso antigravitazionale è considerato una conquista. Si pensi soprattutto alle moderne costruzioni realizzate da grandi architetti: nonostante la loro immensa mole sembrano essere leggere come foglie, e lì pronte a volare o, come la nave di Renzo Piano ad Amsterdam, a prendere il largo.
Questa lievità potrebbe tradursi in modelli matematici: essere così oggettivamente misurabile e divenire del tutto simile all’idea di bellezza che affascina gli scienziati, la simmetria, la quale, a sua volta, altro non è che una forma della leggerezza che risponde al bisogno di misurabilità e di anticaos1.
Sì. È questo, da sempre, il nemico che atterrisce l’uomo: il caos – l’indistinto e l’imprevedibile. Ogni sforzo che si compie va verso questa direzione: la distinzione, la prevedibilità, l’armonia.
Ciò ci porta a contraddire una famosa frase dei Minima moralia di Theodor W. Adorno, che voleva che il compito dell’arte fosse nella nostra epoca quello di portare caos nell’ordine2. Un’idea tutta ideologica e, diciamo pure, del tutto opposta a quella che l’umanità coltiva nel fondo del suo cuore e della quale informa ogni sua techne. La bellezza, infatti, in quanto vero sostegno del mondo – regolatrice di tutte le leggi della fisica – è negazione del caos. In quanto tale, riparo dallo smarrimento. Giardino.
A un lettore abituato a leggere della predilezione di Giuseppe Cavalli per il pensiero crociano questo lungo preambolo a un breve discorso intorno alla sua opera fotografica potrebbe risultare una provocazione. Diciamolo pure: lo è. E non solo pensando a Croce – che, come pochi altri filosofi, è stato lontano dalla scienza e dallo spirito della techne –, ma anche a certi fotografi e “pensatori” enganges, che in Cavalli hanno visto solo un fotoamatore disimpegnato e un po’ languido.
Considerare la bellezza come fondamento del mondo e collegarla alla scienza è seguire una via che porta lontanissimo da certi limiti che hanno pesato sulla fotografia come su tutta la società italiana.
L’idealismo dei vari Croce e Gentile ha infatti fortemente contrastato la presenza del sapere tecnico-scientifico nella scuola e nell’università italiane, e dunque, conseguentemente, nella società. Il fisico Tullio Regge ha recentemente raccontato ai lettori dell’edizione italiana di Scientific american un fatterello che mostra in modo eclatante questa marginalità in cui per decenni hanno vissuto la scienza e la tecnologia in Italia. “Anni or sono – scrive Regge – mi fu riferito un aneddoto significativo che varrebbe la pena di controllare. Negli anni trenta ci fu un incontro tra Fermi e Croce in cui lo scienziato illustrò al filosofo l’attività del gruppo di Roma. Pare che, uscito Fermi, il primo commento di Croce sia stato: ingegneria, ossia la scienza non è sapere”3.
D’altro lato, per dirla con le parole Lionello Venturi che è stato “famoso critico” e ha tenuto cattedra di storia dell’arte, le “benemerenze” accumulate dal filosofo non si limitano a questo: “è merito dell’estetica di Benedetto Croce di aver escluso il concetto di bello”4.
Il concetto di bello! Il bello! Anche per la folta schiera degli enganges si trattava di cose ridicole: di decadenza borghese, di una forma di malattia sociale. Pure i fotografi meno “impegnati” dovevano naturalmente fare attenzione a non contrarre questo virus – e, come testimonia il paesaggista americano Robert Adams, non solo in Italia. “[Da studente] bellezza mi sembrava – scrive Adams – una parola antiquata, buona per i sepolcri e la morte che contengono; ma cosa aveva a che fare con la realtà di questo secolo? Da allora, però, ho imparato che il termine bellezza è praticamente inevitabile, e questa sua presenza in effetti è stata determinante nella mia decisione di fotografare”5
Credo che sia andata così anche per Giuseppe Cavalli: che egli abbia voluto, con la sua pratica della fotografia, entrare e restare nel giardino della bellezza, pur dissimulando questa attrazione e mettendo invece l’accento sulla “fotografia come arte”.
Nel manifesto del gruppo della Bussola – fondato nel 1947 insieme a Mario Finazzi, Ferruccio Leiss, Federico Vender e Luigi Veronesi – Cavalli scrive: “Noi crediamo nella fotografia come arte. Questo mezzo di espressione moderno e sensibilissimo ha raggiunto, con l’ausilio della tecnica che oggi chimica e ottica mettono a nostra disposizione, la duttilità la ricchezza l’efficacia di un linguaggio indipendente e vivo. È dunque possibile essere poeti con l’obiettivo come col pennello lo scalpello la penna: anche con l’obiettivo si può trasformare la realtà in fantasia: che è la indispensabile e prima condizione dell’arte. Ma ecco nascere da queste premesse una conseguenza di grande importanza: la necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte dal binario morto della cronaca documentaria. Chi dicesse che la fotografia artistica deve soltanto documentare i nostri tempi, ad esempio le rovine della guerra, o macchine e uomini negli aspetti dell’attuale civiltà veloce e meccanica ecc., commetterebbe lo stesso sorprendente errore d’un critico d’arte o letterario che volesse imporre a pittori o poeti l’obbligo di trarre ispirazione da cose ed avvenimenti determinati e solo da quelli, dimenticando, con siffatta pretesa, l’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza. Quel che soltanto importa è l’opera d’arte, qualunque sia il soggetto, abbia o meno raggiunto il cielo dell’arte: sia bella o no. Dire: basta coi nudi, niente più natura morta o così via è, come ognuno comprende, un errore estetico di evidenza palmare. Non si suol con questo disconoscere l’utilità nel campo pratico del documento fotografico e com’esso sia vitale per la cronaca e il ricordo dei tempi. Ma il documento non è arte; e se lo è, lo è indipendentemente dalla sua natura di documento, anzi solo in quanto questa natura è stata, per così dire, annullata e trasfigurata in un universale sentimento lirico misteriosamente sbocciato nel cuore dell’artista per virtù dell’intuizione”.
In realtà, sembra di leggere una pagina del Breviario di estetica di Benedetto Croce. E in contesto di dominio crociano non poteva forse essere diversamente. “L’arte è visione o intuizione”6.
In ogni caso, al di là del suo valore filosofico, la frase di Croce bene si addice alla fotografia di Cavalli, che, come ho già scritto, costituisce per l’autore così come per chi guarda le sue immagini un autentico piacere della visione7. Un puro piacere di vedere, e di vagare con lo sguardo nella luce.
Si tratta del piacere di una visione del bello che il fotografo sperimenta naturalmente attraverso una precisa scelta tecnica: e non potrebbe essere altrimenti, perché come giustamente ha scritto Benjamin “l’elemento decisivo per la fotografia resta sempre il rapporto del fotografo con la sua tecnica”8. La scelta di Cavalli è quella dei cosiddetti “toni alti”, e cioè quelli più chiari, tendenti al bianco.
È nella luce che trabocca che questo fotografo cerca la sua dea. Lo ha detto chiaramente già nel 1950 Piero Donzelli, uno dei migliori fotografi italiani del Novecento, sulla rivista “Ferrania”: “Cavalli ha il senso della contemplazione e della filosofia del bello, e pochi come lui sanno trasfondere nelle nature morte una lievità impalpabile e comprendono il pessimismo del sole abbacinante sui muri”.
Vedere pessimismo nel “sole abbacinante sui muri” apparteneva all’animo di Donzelli, il quale si trovava ben lontano dall’avvertire la contraddizione nella sua stessa frase. Come la filosofia del bello e la visione di “una lievità impalpabile” può condurre al pessimismo?
Su questo punto si ha la sensazione – direi, anzi, la certezza – che il cattolico Cavalli fosse in questo più vicino all’anima pagana della Grecia antica. Egli viveva la gioia del vedere, e attraverso il vedere quella del bello e dell’arte. E lo dice chiaramente citando i fratelli De Goncourt: “Apprendre à voir est les plus long apprentissage de tous les artes”.
Giuseppe Cavalli è nato nel 1904, compie le prime prove fotografiche negli anni '30, emergendo da subito con una sua impronta personale, anche come critico e protagonista del dibattito culturale, con frequentazioni dei più noti pittori dell'epoca. L'esperienza fotografica e la riflessione estetica promossa anche attraverso i gruppi fotografici da lui fondati, “La bussola” nel '47 il “Misa” nel '54, costituiscono il fondamento del linguaggio fotografico come linguaggio artistico autonomo, in opposizione alle retoriche formule fasciste, per esprimere piuttosto un concetto di espressione pura, essenziale e rigorosa, dal tono alto. Continuò l'attività artistica e di ricerca sino alla morte nel 1961.
Giuseppe Cavalli e il piacere del Bello
di Diego Mormorio
Nella comunità scientifica internazionale c’è ormai da diversi decenni il preciso convincimento che una teoria non può essere separata dalla sua bellezza. O, ancora meglio, per dirla con Richard Feynman: che deve essere dotata anche di eleganza. A introdurre questo concetto nella fisica fu, nel 1905, Einstein, quando ancora lavorava all’Ufficio Brevetti di Berna.
Qualcuno addirittura è arrivato a dire che “è più importante che le equazioni abbiano una bellezza intrinseca, che non il fatto che esse soddisfino un esperimento”. Si potrebbe pensare che sia la frase di un matto, ma è addirittura di Paul Dirac, lo scienziato che, nel tentativo di trovare una teoria che conciliasse i principi della meccanica quantistica con quelli della relatività ristretta, per primo ipotizzò l’esistenza dell’antimateria.
Una teoria scientifica priva di bellezza è più facilmente priva di verità. In questo modo la comunità scientifica contemporanea ha ripristinato l’antico nesso tra il bello e il vero.
Nel mondo scientifico, la bellezza è strettamente connessa con la simmetria. È dunque oggettiva e misurabile. Mentre nel mondo dell’arte e della vita quotidiana molti sono portati a credere che non possa esserci una bellezza staccata dalla soggettività – e dunque dai luoghi e dalla storia. Noi ora, però, senza negare che in ogni tempo e in ogni luogo ci siano particolari inclinazioni – che, come dice Rosario Assunto, “varie e molteplici sono le bellezze” –, possiamo comunque certamente affermare che l’umanità nella sua interezza cerca di portare al centro di ogni bellezza la lievità. Cerca cioè di dare alle cose una forza opposta a quella della gravità. Più è mastodontico l’oggetto creato, più questo senso antigravitazionale è considerato una conquista. Si pensi soprattutto alle moderne costruzioni realizzate da grandi architetti: nonostante la loro immensa mole sembrano essere leggere come foglie, e lì pronte a volare o, come la nave di Renzo Piano ad Amsterdam, a prendere il largo.
Questa lievità potrebbe tradursi in modelli matematici: essere così oggettivamente misurabile e divenire del tutto simile all’idea di bellezza che affascina gli scienziati, la simmetria, la quale, a sua volta, altro non è che una forma della leggerezza che risponde al bisogno di misurabilità e di anticaos1.
Sì. È questo, da sempre, il nemico che atterrisce l’uomo: il caos – l’indistinto e l’imprevedibile. Ogni sforzo che si compie va verso questa direzione: la distinzione, la prevedibilità, l’armonia.
Ciò ci porta a contraddire una famosa frase dei Minima moralia di Theodor W. Adorno, che voleva che il compito dell’arte fosse nella nostra epoca quello di portare caos nell’ordine2. Un’idea tutta ideologica e, diciamo pure, del tutto opposta a quella che l’umanità coltiva nel fondo del suo cuore e della quale informa ogni sua techne. La bellezza, infatti, in quanto vero sostegno del mondo – regolatrice di tutte le leggi della fisica – è negazione del caos. In quanto tale, riparo dallo smarrimento. Giardino.
A un lettore abituato a leggere della predilezione di Giuseppe Cavalli per il pensiero crociano questo lungo preambolo a un breve discorso intorno alla sua opera fotografica potrebbe risultare una provocazione. Diciamolo pure: lo è. E non solo pensando a Croce – che, come pochi altri filosofi, è stato lontano dalla scienza e dallo spirito della techne –, ma anche a certi fotografi e “pensatori” enganges, che in Cavalli hanno visto solo un fotoamatore disimpegnato e un po’ languido.
Considerare la bellezza come fondamento del mondo e collegarla alla scienza è seguire una via che porta lontanissimo da certi limiti che hanno pesato sulla fotografia come su tutta la società italiana.
L’idealismo dei vari Croce e Gentile ha infatti fortemente contrastato la presenza del sapere tecnico-scientifico nella scuola e nell’università italiane, e dunque, conseguentemente, nella società. Il fisico Tullio Regge ha recentemente raccontato ai lettori dell’edizione italiana di Scientific american un fatterello che mostra in modo eclatante questa marginalità in cui per decenni hanno vissuto la scienza e la tecnologia in Italia. “Anni or sono – scrive Regge – mi fu riferito un aneddoto significativo che varrebbe la pena di controllare. Negli anni trenta ci fu un incontro tra Fermi e Croce in cui lo scienziato illustrò al filosofo l’attività del gruppo di Roma. Pare che, uscito Fermi, il primo commento di Croce sia stato: ingegneria, ossia la scienza non è sapere”3.
D’altro lato, per dirla con le parole Lionello Venturi che è stato “famoso critico” e ha tenuto cattedra di storia dell’arte, le “benemerenze” accumulate dal filosofo non si limitano a questo: “è merito dell’estetica di Benedetto Croce di aver escluso il concetto di bello”4.
Il concetto di bello! Il bello! Anche per la folta schiera degli enganges si trattava di cose ridicole: di decadenza borghese, di una forma di malattia sociale. Pure i fotografi meno “impegnati” dovevano naturalmente fare attenzione a non contrarre questo virus – e, come testimonia il paesaggista americano Robert Adams, non solo in Italia. “[Da studente] bellezza mi sembrava – scrive Adams – una parola antiquata, buona per i sepolcri e la morte che contengono; ma cosa aveva a che fare con la realtà di questo secolo? Da allora, però, ho imparato che il termine bellezza è praticamente inevitabile, e questa sua presenza in effetti è stata determinante nella mia decisione di fotografare”5
Credo che sia andata così anche per Giuseppe Cavalli: che egli abbia voluto, con la sua pratica della fotografia, entrare e restare nel giardino della bellezza, pur dissimulando questa attrazione e mettendo invece l’accento sulla “fotografia come arte”.
Nel manifesto del gruppo della Bussola – fondato nel 1947 insieme a Mario Finazzi, Ferruccio Leiss, Federico Vender e Luigi Veronesi – Cavalli scrive: “Noi crediamo nella fotografia come arte. Questo mezzo di espressione moderno e sensibilissimo ha raggiunto, con l’ausilio della tecnica che oggi chimica e ottica mettono a nostra disposizione, la duttilità la ricchezza l’efficacia di un linguaggio indipendente e vivo. È dunque possibile essere poeti con l’obiettivo come col pennello lo scalpello la penna: anche con l’obiettivo si può trasformare la realtà in fantasia: che è la indispensabile e prima condizione dell’arte. Ma ecco nascere da queste premesse una conseguenza di grande importanza: la necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte dal binario morto della cronaca documentaria. Chi dicesse che la fotografia artistica deve soltanto documentare i nostri tempi, ad esempio le rovine della guerra, o macchine e uomini negli aspetti dell’attuale civiltà veloce e meccanica ecc., commetterebbe lo stesso sorprendente errore d’un critico d’arte o letterario che volesse imporre a pittori o poeti l’obbligo di trarre ispirazione da cose ed avvenimenti determinati e solo da quelli, dimenticando, con siffatta pretesa, l’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza. Quel che soltanto importa è l’opera d’arte, qualunque sia il soggetto, abbia o meno raggiunto il cielo dell’arte: sia bella o no. Dire: basta coi nudi, niente più natura morta o così via è, come ognuno comprende, un errore estetico di evidenza palmare. Non si suol con questo disconoscere l’utilità nel campo pratico del documento fotografico e com’esso sia vitale per la cronaca e il ricordo dei tempi. Ma il documento non è arte; e se lo è, lo è indipendentemente dalla sua natura di documento, anzi solo in quanto questa natura è stata, per così dire, annullata e trasfigurata in un universale sentimento lirico misteriosamente sbocciato nel cuore dell’artista per virtù dell’intuizione”.
In realtà, sembra di leggere una pagina del Breviario di estetica di Benedetto Croce. E in contesto di dominio crociano non poteva forse essere diversamente. “L’arte è visione o intuizione”6.
In ogni caso, al di là del suo valore filosofico, la frase di Croce bene si addice alla fotografia di Cavalli, che, come ho già scritto, costituisce per l’autore così come per chi guarda le sue immagini un autentico piacere della visione7. Un puro piacere di vedere, e di vagare con lo sguardo nella luce.
Si tratta del piacere di una visione del bello che il fotografo sperimenta naturalmente attraverso una precisa scelta tecnica: e non potrebbe essere altrimenti, perché come giustamente ha scritto Benjamin “l’elemento decisivo per la fotografia resta sempre il rapporto del fotografo con la sua tecnica”8. La scelta di Cavalli è quella dei cosiddetti “toni alti”, e cioè quelli più chiari, tendenti al bianco.
È nella luce che trabocca che questo fotografo cerca la sua dea. Lo ha detto chiaramente già nel 1950 Piero Donzelli, uno dei migliori fotografi italiani del Novecento, sulla rivista “Ferrania”: “Cavalli ha il senso della contemplazione e della filosofia del bello, e pochi come lui sanno trasfondere nelle nature morte una lievità impalpabile e comprendono il pessimismo del sole abbacinante sui muri”.
Vedere pessimismo nel “sole abbacinante sui muri” apparteneva all’animo di Donzelli, il quale si trovava ben lontano dall’avvertire la contraddizione nella sua stessa frase. Come la filosofia del bello e la visione di “una lievità impalpabile” può condurre al pessimismo?
Su questo punto si ha la sensazione – direi, anzi, la certezza – che il cattolico Cavalli fosse in questo più vicino all’anima pagana della Grecia antica. Egli viveva la gioia del vedere, e attraverso il vedere quella del bello e dell’arte. E lo dice chiaramente citando i fratelli De Goncourt: “Apprendre à voir est les plus long apprentissage de tous les artes”.
07
aprile 2006
Giuseppe Cavalli – Fotografie dal 1936 al 1961
Dal 07 aprile al 28 maggio 2006
fotografia
Location
MUSEO DI ROMA – PALAZZO BRASCHI
Roma, PIAZZA San Pantaleo, 10, (Roma)
Roma, PIAZZA San Pantaleo, 10, (Roma)
Biglietti
intero: € 8,00
ridotto: € 4.50
Orario di apertura
martedì– domenica: 9.00 – 19.00 (la biglietteria chiude un'ora prima). Chiuso il lunedì
Vernissage
7 Aprile 2006, ore 18
Autore
Curatore