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Giuseppe Facciotto – L’occhio che vede
Dal 24 settembre al 6 ottobre la Galleria “Arianna Sartori – Arte” di Mantova, in via Ippolito Nievo 10, ospita una mostra retrospettiva dell’artista mantovano Giuseppe Facciotto (Cavriana 1904 – Mantova 1945) intitolata “L’occhio che vede”.
La mostra, curata da Arianna Sartori, comprende 50 opere:
Comunicato stampa
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Dal 24 settembre al 6 ottobre la Galleria “Arianna Sartori - Arte” di Mantova, in via Ippolito Nievo 10, ospita una mostra retrospettiva dell’artista mantovano Giuseppe Facciotto (Cavriana 1904 - Mantova 1945) intitolata “L’occhio che vede”.
La mostra, curata da Arianna Sartori, comprende 50 opere: acquerelli, disegni e pastelli.
L’inaugurazione è prevista per Sabato 24 Settembre alle ore 17.30.
La mostra è corredata dalla presentazione di Maria Gabriella Savoia.
La galleria sarà aperta al pubblico dal lunedì al sabato dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 19.30.
Giuseppe Facciotto. L’occhio che vede.
“Giuseppe Facciotto. L’occhio che vede” è il titolo che insieme alla figlia di Facciotto, abbiamo scelto di dare alla rassegna di opere su carta che si tiene alla Galleria Arianna Sartori; trattasi di ben cinquantatre preziosi fogli tra disegni, acquerelli e pastelli, raccolti e conservati con vero affetto filiale da Gabriella Facciotto figlia dell’artista. Il titolo della mostra omaggio all’artista mantovano, di forte capacità introspettiva, è fortemente motivato: è indubbio che gli occhi servono per vedere, ma è altrettanto certo che quasi tutti, più semplicemente guardano; nello specifico riconosciamo a Giuseppe Facciotto questa capacità di vedere, di osservare e di saper cogliere e rappresentare l’essenzialità del soggetto raffigurato. Operazione non facile, questa, anzi che richiede un lungo esercizio e una pratica costante, per arrivare a quella essenzialità del segno che la mano porterà sul foglio con gesto affermativo e sicuro.
Certo i preziosi taccuini di Facciotto ci parlano di un’alta abitudine al segno ricercato, con la costante tensione al raggiungimento della completa acquisizione dell’aspetto disegnativo cercato, ma mi piace pensare che ogni volta che Facciotto aveva tra le mani uno dei suoi taccuini si sentisse estremamente vitale, positivo, certo che il suo percorso fosse valido.
Il suo tentativo, non vorrei usare la parola tecnica, termine che l’artista detestava, piuttosto la sua scelta artistica lo portava nelle opere ad una sistematica semplificazione del segno, tanto da essere lette, a volte, e fraintese, come eccessivamente semplici, dove ‘semplice’ poteva acquisire il significato di modesto, di limitato e privo di capacità o quant’altro.
“…Certo non sempre gli riuscì di schivare i compromessi di stile e qualcosa concesse anche al gusto dell’aneddoto o alla velleità di registrare gli attimi di un fenomeno atmosferico: è stato il caso della ragazza che saluta agitando il fazzoletto da una barca nel porticciolo degli Angeli - in un quadro comunque mirabile per equilibrio di partiti compositivi -, oppure quello di un effetto di pioggia che batte obliquamente sui tetti e sulle pareti di una casa che stava dietro l’Ospedale Psichiatrico. A quest’ultimo quadro è legata peraltro una mia testimonianza che ritengo abbastanza significativa circa il suo addestramento al tratteggio nella fase di elaborazione degli abbozzi a matita. Ricordo che era angustiato dalla difficoltà di realizzare l’esatta e costante coincidenza dei singoli segni nell’impatto della pioggia con l’angolo tetto-parete e che a lungo, con foga ma non con impazienza, ripeté le sue prove con scarti ininterrotti, suggeriti da un’autocritica puntigliosa e severa, fino a quando non gli parve di esser pervenuto all’automatismo del gesto e per conseguenza all’aggiustamento e alla messa a fuoco dell’immagine nello spazio: Il momento migliore è questo -concluse appagato-: quando non è più necessario pensare a quello che si fa.” (Emilio Faccioli, 1980).
Facciotto vive le tensioni ed è tra i personaggi di spicco del “chiarismo mantovano”, in lui sono vive le dinamiche della destrutturazione formale, della luminosità cromatica, ma aggiungerei i valori della trasparenza e della levità.
Nello specifico della mostra si parla di acquerelli, di pastelli e di disegni in bianco e nero, quindi opere su carta, in genere così distanti per loro natura dal mondo del dipinto ad olio, ma non nel caso di Facciotto, che disegna come dipinge e non disegna come preparazione ad un dipinto, ma disegna come dipingesse con la stessa certezza di compiere un’opera completa e a sé stante.
“…Il percorso del suo lavoro è fatto di una trama di parole poetiche e di segni che si presentano in una successione sempre più affollata, costituendo una sorta di catena di illuminazioni particolari che vanno organizzandosi attorno ad un centro. Dall’appunto all’abbozzo al disegno compiuto, s’intravede un fitto e denso coagularsi di emozioni, come se si trattasse di portare in emergenza un traliccio più consistente, un’architettura generale in cui trova alla fine il suo posto definitivo. Ci si accorge proprio sfogliando i quaderni di appunti che anche i segni più elementari e apparentemente svagati rispondono al bisogno di sollecitare l’occhio di fronte alla vita, di prepararlo all’intuizione… L’armatura-base delle figure e dei paesaggi è costruita con delle linee di forza che, lungi dall’essere le antiche quadrature fisse dello spazio intellettualmente misurabile, mutano continuamente e svariano nella dinamica del tempo e del provvisorio. Protagonista di questa nuova spazialità è l’ora intima dell’artista, il suo modo di incrociarsi con il momento prospettico, che subito si frantuma, dei fenomeni. Nei paesaggi questo metodo di organizzare la visione, pur restando costante, dà luogo ad articolazioni plurime e si esplicita in differenti telai inventivi. In un repertorio di soluzioni che appare subito vastissimo, si impongono tuttavia alcune soluzioni privilegiate…” (Francesco Bartoli, 1968)
In mostra vengono presentati disegni diversi per caratteristiche esecutive, per il tipo di traccia di matita usata, da quella appuntita a quella grossolana e arrotondata, dalla penna con vari pennini al pennello inchiostrato, dal nero compatto della matita grassa a quello diverso del pastello, steso con trasparenze e velature o piuttosto pesante; ed in più l’attenzione al supporto cartaceo che sceglieva con cura tra quelle proposte dall’allora mercato artistico e che lo portava a sfruttare appieno le rese dei vari tipi di carta.
Insomma questa di Facciotto si presenta come una mostra di disegni, pastelli e acquerelli ricchi di valori intrinseci, una mostra che ti resta nel cuore.
Maria Gabriella Savoia, 2011
Angelo Giuseppe Facciotto nasce il 31 luglio 1904 a Cavriana nell’Alto Mantovano, da Giovan Battista e Lucia Maddi, contadini. Nel 1917, trasferitasi la famiglia a Castiglione delle Stiviere, frequenta le scuole tecniche e, alcune stagioni dopo, a quindici anni, inizia a dipingere sotto la guida di Umberto Bignotti, un pittore “a torto dimenticato”, come scriverà più tardi Facciotto. Da lui riceve un’intensa ed inquietata iniziazione all’idea di paesaggio e di ritratto, ad una pittura che, mentre conserva sicure radici nella tradizione lombarda, si spinge ad interrogare gli esiti del postimpressionismo.
Dopo il diploma di computista, è assunto come avventizio nella locale “Congregazione di Carità”. Frequenta a Castiglione una “Scuola domenicale di disegno”, esegue mappe e miniature su commissione, dipinge i primi oli (Mia madre, 1922), piuttosto descrittivi e scolastici.
Nel ‘27 nasce la figlia Lidia e tre anni dopo Gabriella.
Dall’agosto 1930 gli viene assegnato l’incarico di economo nella sezione staccata dello Psichiatrico di Mantova e, due anni più tardi, pur non avendo ancora ricevuto la nomina ufficiale, si trasferisce con i genitori e le figlie al Dosso. Finalmente riceve l’incarico nel luglio del 1933 e può dar avvio ad alcune iniziative. Nascono così un piccolo teatro, dei laboratori di falegnameria e stampa, una biblioteca e perfino una “colonia agricola”, che danno al pittore rinnovati motivi di osservazione e appunto grafico.
Nel ‘34 inaugura una delle stagioni pittoriche più intense. Partecipa per la prima volta ad una collettiva sindacale con tre opere (Mantova, Palazzo Aldegatti). Nel clima delle fervide amicizie castiglionesi e mantovane approfondisce una sua speciale poetica del “vero”, con espliciti richiami al “chiarismo” e alla tradizione veneziana. Dipinge Uomo che mangia (‘34), Nudo disteso col gatto (‘35) e Pagliai in Toscana (‘36 ca.).
Che Facciotto stia approdando ad una originale visione, avendo lucida coscienza dello sforzo da compiere per bruciare (ma non negare) i grandi modelli francesi, lo testimoniano i numerosi appunti scritti, nei quali viene ritagliata una idea di magia pittorica capace di fondere insieme emozione e verità naturali. Il dibattito è tutto condotto fra l’attesa di una rivelazione e l’acquisto di uno stile che non vuole essere più tecnica, ma mestiere trasvalutato in linguaggio, prorompimento quasi automatico di immagini.
Fra il ‘35 e il ‘37, allargandosi anche il registro degli esercizi disegnativi (acquaforte, illustrazione di un libro), Facciotto svolge un acceso confronto con le ricerche di Di Capi, Cavicchini, Dal Prato, Bergonzoni, Perina. È questo il momento in cui una giovane generazione d’artisti, a Mantova, apre ipotesi di rinnovamento, lasciando, alle spalle (senza tuttavia farne mai oggetto di dimenticanza” le ragioni dei Pesenti, Monfardini, Giorgi, o quelle dei Guindani, Lomini e Bresciani, ossia le ragioni degli anni Dieci e Venti. Fra amori novecentisti e rivolte antisarfattiane, funzionano alcuni luoghi privilegiati di riferimento: la Firenze di Rosai e del Frontespizio, la Milano (e Monza) di Persico, Del Bon, Birolli, la Venezia di Semeghini e dei “buranesi” soprattutto.
Oreste Marini e, per altri aspetti, Sandro Bini gettano nuovi semi di riflessione: l’uno a Castiglione, che Facciotto non smise mai di frequentare, il secondo a Mantova durante i numerosi rientri da Milano.
L’artista deve però interrompere questo complesso giro di esperienze, per una malattia che lo colpisce alla fine del ‘37. Subisce un intervento chirurgico, da cui si riprende con lentezza nella primavera successiva. Recandosi a Garda in convalescenza, frequenta Lilloni e dipinge la prima serie di oli ispirati al paesaggio veronese. Da Garda si trasferisce poi a Burano e Mazzorbo, luoghi che costituiranno per un quinquennio una fonte eccitata e costante di ispirazione.
Risultati assai alti vengono raggiunti in questo periodo, il più “felice” forse di tutto il dodicennio creativo: dalla nature morte, ai paesaggi (molteplici versioni di Garda, Canale a Mazzorbo, Periferia), ai ritratti e autoritratti. Sue opere vengono esposte al Premio Bergamo del ‘39, alla rassegna dell’Otto-Novecento mantovano dello stesso anno, alla Permanente. Sbocco naturale di questa compatta epoca inventiva sono le due personali del ‘43, la prima nel gennaio, presso la “Galleria dell’Annunciata” di Milano, e la seconda a Rovereto, in giugno, da Gaifas (Galleria “Cortina”). Nelle due occasioni Alfonso Gatto e Leonardo Borgese dettano poche ma penetranti pagine di interpretazione.
Nell’autunno del ‘43, proprio mentre Facciotto sta preparandosi ad un nuovo capitolo pittorico, si spezza bruscamente il corso dell’esperienze e dei rapporti con Milano.
L’artista continua sì a dipingere ma non si muove quasi più dal Dosso, preso nel giro di una febbrile ricerca formale, di autocritiche e ripensamenti, di soprassalti sentimentali e di oscuri presagi. La pittura tocca ancor più l’universo della mitografia personale, degli “interni” e dei luoghi familiari. Il disegno, lo schizzo, l’appunto prevalgono sulla pratica pittorica, che finisce per costituirsi come capitolo inconcluso rispetto alla riflessione grafica o come esito d’eccezione.
Nell’arco di neppure due anni (dal novembre ‘43 al giugno ‘45) si consuma l’estrema avventura artistica, ancora densa di interrogativi. Scompaiono i genitori durante il ‘44 (la madre nel maggio e il padre nel novembre). In agosto Facciotto è colpito dal tifo e resta a lungo in ospedale. Sembra riprendersi. Torna a disegnare e dipingere. Scrive.
Nel giugno del ‘45 la caduta definitiva. Ricoverato per un attacco di peritonite, muore il giorno 27.
La mostra, curata da Arianna Sartori, comprende 50 opere: acquerelli, disegni e pastelli.
L’inaugurazione è prevista per Sabato 24 Settembre alle ore 17.30.
La mostra è corredata dalla presentazione di Maria Gabriella Savoia.
La galleria sarà aperta al pubblico dal lunedì al sabato dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 19.30.
Giuseppe Facciotto. L’occhio che vede.
“Giuseppe Facciotto. L’occhio che vede” è il titolo che insieme alla figlia di Facciotto, abbiamo scelto di dare alla rassegna di opere su carta che si tiene alla Galleria Arianna Sartori; trattasi di ben cinquantatre preziosi fogli tra disegni, acquerelli e pastelli, raccolti e conservati con vero affetto filiale da Gabriella Facciotto figlia dell’artista. Il titolo della mostra omaggio all’artista mantovano, di forte capacità introspettiva, è fortemente motivato: è indubbio che gli occhi servono per vedere, ma è altrettanto certo che quasi tutti, più semplicemente guardano; nello specifico riconosciamo a Giuseppe Facciotto questa capacità di vedere, di osservare e di saper cogliere e rappresentare l’essenzialità del soggetto raffigurato. Operazione non facile, questa, anzi che richiede un lungo esercizio e una pratica costante, per arrivare a quella essenzialità del segno che la mano porterà sul foglio con gesto affermativo e sicuro.
Certo i preziosi taccuini di Facciotto ci parlano di un’alta abitudine al segno ricercato, con la costante tensione al raggiungimento della completa acquisizione dell’aspetto disegnativo cercato, ma mi piace pensare che ogni volta che Facciotto aveva tra le mani uno dei suoi taccuini si sentisse estremamente vitale, positivo, certo che il suo percorso fosse valido.
Il suo tentativo, non vorrei usare la parola tecnica, termine che l’artista detestava, piuttosto la sua scelta artistica lo portava nelle opere ad una sistematica semplificazione del segno, tanto da essere lette, a volte, e fraintese, come eccessivamente semplici, dove ‘semplice’ poteva acquisire il significato di modesto, di limitato e privo di capacità o quant’altro.
“…Certo non sempre gli riuscì di schivare i compromessi di stile e qualcosa concesse anche al gusto dell’aneddoto o alla velleità di registrare gli attimi di un fenomeno atmosferico: è stato il caso della ragazza che saluta agitando il fazzoletto da una barca nel porticciolo degli Angeli - in un quadro comunque mirabile per equilibrio di partiti compositivi -, oppure quello di un effetto di pioggia che batte obliquamente sui tetti e sulle pareti di una casa che stava dietro l’Ospedale Psichiatrico. A quest’ultimo quadro è legata peraltro una mia testimonianza che ritengo abbastanza significativa circa il suo addestramento al tratteggio nella fase di elaborazione degli abbozzi a matita. Ricordo che era angustiato dalla difficoltà di realizzare l’esatta e costante coincidenza dei singoli segni nell’impatto della pioggia con l’angolo tetto-parete e che a lungo, con foga ma non con impazienza, ripeté le sue prove con scarti ininterrotti, suggeriti da un’autocritica puntigliosa e severa, fino a quando non gli parve di esser pervenuto all’automatismo del gesto e per conseguenza all’aggiustamento e alla messa a fuoco dell’immagine nello spazio: Il momento migliore è questo -concluse appagato-: quando non è più necessario pensare a quello che si fa.” (Emilio Faccioli, 1980).
Facciotto vive le tensioni ed è tra i personaggi di spicco del “chiarismo mantovano”, in lui sono vive le dinamiche della destrutturazione formale, della luminosità cromatica, ma aggiungerei i valori della trasparenza e della levità.
Nello specifico della mostra si parla di acquerelli, di pastelli e di disegni in bianco e nero, quindi opere su carta, in genere così distanti per loro natura dal mondo del dipinto ad olio, ma non nel caso di Facciotto, che disegna come dipinge e non disegna come preparazione ad un dipinto, ma disegna come dipingesse con la stessa certezza di compiere un’opera completa e a sé stante.
“…Il percorso del suo lavoro è fatto di una trama di parole poetiche e di segni che si presentano in una successione sempre più affollata, costituendo una sorta di catena di illuminazioni particolari che vanno organizzandosi attorno ad un centro. Dall’appunto all’abbozzo al disegno compiuto, s’intravede un fitto e denso coagularsi di emozioni, come se si trattasse di portare in emergenza un traliccio più consistente, un’architettura generale in cui trova alla fine il suo posto definitivo. Ci si accorge proprio sfogliando i quaderni di appunti che anche i segni più elementari e apparentemente svagati rispondono al bisogno di sollecitare l’occhio di fronte alla vita, di prepararlo all’intuizione… L’armatura-base delle figure e dei paesaggi è costruita con delle linee di forza che, lungi dall’essere le antiche quadrature fisse dello spazio intellettualmente misurabile, mutano continuamente e svariano nella dinamica del tempo e del provvisorio. Protagonista di questa nuova spazialità è l’ora intima dell’artista, il suo modo di incrociarsi con il momento prospettico, che subito si frantuma, dei fenomeni. Nei paesaggi questo metodo di organizzare la visione, pur restando costante, dà luogo ad articolazioni plurime e si esplicita in differenti telai inventivi. In un repertorio di soluzioni che appare subito vastissimo, si impongono tuttavia alcune soluzioni privilegiate…” (Francesco Bartoli, 1968)
In mostra vengono presentati disegni diversi per caratteristiche esecutive, per il tipo di traccia di matita usata, da quella appuntita a quella grossolana e arrotondata, dalla penna con vari pennini al pennello inchiostrato, dal nero compatto della matita grassa a quello diverso del pastello, steso con trasparenze e velature o piuttosto pesante; ed in più l’attenzione al supporto cartaceo che sceglieva con cura tra quelle proposte dall’allora mercato artistico e che lo portava a sfruttare appieno le rese dei vari tipi di carta.
Insomma questa di Facciotto si presenta come una mostra di disegni, pastelli e acquerelli ricchi di valori intrinseci, una mostra che ti resta nel cuore.
Maria Gabriella Savoia, 2011
Angelo Giuseppe Facciotto nasce il 31 luglio 1904 a Cavriana nell’Alto Mantovano, da Giovan Battista e Lucia Maddi, contadini. Nel 1917, trasferitasi la famiglia a Castiglione delle Stiviere, frequenta le scuole tecniche e, alcune stagioni dopo, a quindici anni, inizia a dipingere sotto la guida di Umberto Bignotti, un pittore “a torto dimenticato”, come scriverà più tardi Facciotto. Da lui riceve un’intensa ed inquietata iniziazione all’idea di paesaggio e di ritratto, ad una pittura che, mentre conserva sicure radici nella tradizione lombarda, si spinge ad interrogare gli esiti del postimpressionismo.
Dopo il diploma di computista, è assunto come avventizio nella locale “Congregazione di Carità”. Frequenta a Castiglione una “Scuola domenicale di disegno”, esegue mappe e miniature su commissione, dipinge i primi oli (Mia madre, 1922), piuttosto descrittivi e scolastici.
Nel ‘27 nasce la figlia Lidia e tre anni dopo Gabriella.
Dall’agosto 1930 gli viene assegnato l’incarico di economo nella sezione staccata dello Psichiatrico di Mantova e, due anni più tardi, pur non avendo ancora ricevuto la nomina ufficiale, si trasferisce con i genitori e le figlie al Dosso. Finalmente riceve l’incarico nel luglio del 1933 e può dar avvio ad alcune iniziative. Nascono così un piccolo teatro, dei laboratori di falegnameria e stampa, una biblioteca e perfino una “colonia agricola”, che danno al pittore rinnovati motivi di osservazione e appunto grafico.
Nel ‘34 inaugura una delle stagioni pittoriche più intense. Partecipa per la prima volta ad una collettiva sindacale con tre opere (Mantova, Palazzo Aldegatti). Nel clima delle fervide amicizie castiglionesi e mantovane approfondisce una sua speciale poetica del “vero”, con espliciti richiami al “chiarismo” e alla tradizione veneziana. Dipinge Uomo che mangia (‘34), Nudo disteso col gatto (‘35) e Pagliai in Toscana (‘36 ca.).
Che Facciotto stia approdando ad una originale visione, avendo lucida coscienza dello sforzo da compiere per bruciare (ma non negare) i grandi modelli francesi, lo testimoniano i numerosi appunti scritti, nei quali viene ritagliata una idea di magia pittorica capace di fondere insieme emozione e verità naturali. Il dibattito è tutto condotto fra l’attesa di una rivelazione e l’acquisto di uno stile che non vuole essere più tecnica, ma mestiere trasvalutato in linguaggio, prorompimento quasi automatico di immagini.
Fra il ‘35 e il ‘37, allargandosi anche il registro degli esercizi disegnativi (acquaforte, illustrazione di un libro), Facciotto svolge un acceso confronto con le ricerche di Di Capi, Cavicchini, Dal Prato, Bergonzoni, Perina. È questo il momento in cui una giovane generazione d’artisti, a Mantova, apre ipotesi di rinnovamento, lasciando, alle spalle (senza tuttavia farne mai oggetto di dimenticanza” le ragioni dei Pesenti, Monfardini, Giorgi, o quelle dei Guindani, Lomini e Bresciani, ossia le ragioni degli anni Dieci e Venti. Fra amori novecentisti e rivolte antisarfattiane, funzionano alcuni luoghi privilegiati di riferimento: la Firenze di Rosai e del Frontespizio, la Milano (e Monza) di Persico, Del Bon, Birolli, la Venezia di Semeghini e dei “buranesi” soprattutto.
Oreste Marini e, per altri aspetti, Sandro Bini gettano nuovi semi di riflessione: l’uno a Castiglione, che Facciotto non smise mai di frequentare, il secondo a Mantova durante i numerosi rientri da Milano.
L’artista deve però interrompere questo complesso giro di esperienze, per una malattia che lo colpisce alla fine del ‘37. Subisce un intervento chirurgico, da cui si riprende con lentezza nella primavera successiva. Recandosi a Garda in convalescenza, frequenta Lilloni e dipinge la prima serie di oli ispirati al paesaggio veronese. Da Garda si trasferisce poi a Burano e Mazzorbo, luoghi che costituiranno per un quinquennio una fonte eccitata e costante di ispirazione.
Risultati assai alti vengono raggiunti in questo periodo, il più “felice” forse di tutto il dodicennio creativo: dalla nature morte, ai paesaggi (molteplici versioni di Garda, Canale a Mazzorbo, Periferia), ai ritratti e autoritratti. Sue opere vengono esposte al Premio Bergamo del ‘39, alla rassegna dell’Otto-Novecento mantovano dello stesso anno, alla Permanente. Sbocco naturale di questa compatta epoca inventiva sono le due personali del ‘43, la prima nel gennaio, presso la “Galleria dell’Annunciata” di Milano, e la seconda a Rovereto, in giugno, da Gaifas (Galleria “Cortina”). Nelle due occasioni Alfonso Gatto e Leonardo Borgese dettano poche ma penetranti pagine di interpretazione.
Nell’autunno del ‘43, proprio mentre Facciotto sta preparandosi ad un nuovo capitolo pittorico, si spezza bruscamente il corso dell’esperienze e dei rapporti con Milano.
L’artista continua sì a dipingere ma non si muove quasi più dal Dosso, preso nel giro di una febbrile ricerca formale, di autocritiche e ripensamenti, di soprassalti sentimentali e di oscuri presagi. La pittura tocca ancor più l’universo della mitografia personale, degli “interni” e dei luoghi familiari. Il disegno, lo schizzo, l’appunto prevalgono sulla pratica pittorica, che finisce per costituirsi come capitolo inconcluso rispetto alla riflessione grafica o come esito d’eccezione.
Nell’arco di neppure due anni (dal novembre ‘43 al giugno ‘45) si consuma l’estrema avventura artistica, ancora densa di interrogativi. Scompaiono i genitori durante il ‘44 (la madre nel maggio e il padre nel novembre). In agosto Facciotto è colpito dal tifo e resta a lungo in ospedale. Sembra riprendersi. Torna a disegnare e dipingere. Scrive.
Nel giugno del ‘45 la caduta definitiva. Ricoverato per un attacco di peritonite, muore il giorno 27.
24
settembre 2011
Giuseppe Facciotto – L’occhio che vede
Dal 24 settembre al 06 ottobre 2011
arte moderna e contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
ARIANNA SARTORI ARTE & OBJECT DESIGN
Mantova, Via Ippolito Nievo, 10, (Mantova)
Mantova, Via Ippolito Nievo, 10, (Mantova)
Orario di apertura
Da lunedì a sabato 10.00-12.30 / 16.00-19.30. Chiuso festivi
Vernissage
24 Settembre 2011, Ore 17.30
Autore
Curatore