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Giuseppe Gavazzi
personale di scultura
Comunicato stampa
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Antonio Paolucci
A me Giuseppe Gavazzi fa venire in mente Pinocchio e spiegherò perché. La prosa di Lorenzini è dimessa, svagata e disincantata, elegantemente vernacolare. Il suo è un racconto reale e irreale nello stesso tempo, è verità ed è metafora. Poi chiudi il libro – chiunque abbia letto Pinocchio lo sa – e devi riconoscere che quell’opera apparentemente leggera è uno dei grandi testi dell’Ottocento italiano e forse non solo italiano.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire che esiste nel genio toscano (mi sia consentito per una volta l’uso di questa parola così pericolosamente metastorica) una specie di dissimulazione, di sagace understatement. Tenersi al di qua della lingua alta (pur conoscendola e dominandola perfettamente), esorcizzare la retorica con il minimalismo, bilanciare l’ironia con il disincanto, procedere per allusioni e per finzioni. Non sono questi elementi distintivi del carattere toscano, specie della periferia toscana che è la patria di Giuseppe Gavazzi?
Lo scultore che Max Seidel e Crispolti, Baldini e Carli, Santi e Bagnoli amano (e anche a me piace molto) è un naïf astuto.
Dire naïf astuto è un ossimoro ma l’ossimoro, a mio giudizio, è in questo caso necessario. Giuseppe Gavazzi, anche per il mestiere che fa, conosce perfettamente e ha, in un certo senso, assimilato per osmosi, la lingua grande della nostra storia artistica. Sa benissimo cosa vogliono dire in Italia e in Toscana, ritmo, proporzioni, prospettiva, profondità, bilanciamento delle figure, giustapposizione dei colori, messa in scena. Lo sa, perché chissà quante volte, lui pistoiese, si è fermato a guardare e riguardare le formelle policrome con le Opere di Misericordia al Ceppo. In quel fregio colorato di cinque secoli fa c’è già tutto Gavazzi. Solo che Giuseppe Gavazzi è un uomo del nostro tempo e non può (come saprebbe benissimo fare) mettersi oggi a plasticare, a colorare, a invetriare alla maniera dei maestri antichi. E allora opera come se quelle cose (Giovanni Pisano, i Lorenzetti, Piero della Francesca, i Della Robbia etc. ...) non le conoscesse. Fa finta di averle dimenticate.
Allo stesso modo, nel suo Pinocchio, Lorenzini fa finta di aver dimenticato Boccaccio e Manzoni, Dickens e Gogol. Ecco perché ho parlato, per Gavazzi, di naïf astuto.
Attenzione però perché far finta di dimenticare non basta. I risultati potrebbero essere deludenti come sa bene chi conosce tanta scultura finto-primitivista e pseudo-citazionista dei nostri giorni. Dagli autori che si finge di dimenticare bisogna saper trarre il nucleo significante e quello (è la cosa più difficile) saperlo poi trasfigurare in poesia cioè in linguaggio espressivo nuovo originale contemporaneo. Giuseppe Gavazzi, naïf astuto, ci riesce e il fatto che ci riesca mi riempie di stupore e di ammirazione.
Antonio Paolucci
_______________________________________
L’iconografia di Gavazzi
di Max Seidel
Traduzione dal tedesco di Silvana Seidel Menchi
per Ilaria
1.
Con questa mostra nella Certosa di Firenze gli amici di Giuseppe Gavazzi festeggiano il settantesimo compleanno dell’artista. Non è un caso che siano stati gli storici dell’arte a farsi ideatori e promotori della mostra. Fino a oggi l’opera di Giuseppe Gavazzi ha trovato i suoi apprezzatori non tanto tra i critici d’arte di professione o tra gli espositori e gli organizzatori di mostre – come accade alla maggior parte degli artisti moderni –, ma prevalentemente tra gli storici dell’arte, che hanno seguito per anni, oltre alla sua produttività di scultore, anche la sua attività di restauratore di opere famose – gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella “Sala della Pace”, la “Maestà” di Simone Martini, le pitture murali recentemente scoperte nella chiesa inferiore del duomo di Siena. Tra questi apprezzatori dello scultore percettivo-intuitivo e del restauratore di talento figurano Cecilia Alessi, Alessandro Bagnoli, Umberto Baldini, Enzo Carli, Enrico Crispoldi, Bruno Santi.
La scelta della Certosa come sede della mostra è il punto d’approdo dell’esperimento –avviato nel 1996 nel Palazzo Comunale di San Gimignano, riproposto nel 2004 nel Museo Civico di Montalcino – di mettere in mostra le sculture di Giuseppe Gavazzi in edifici storici, esponendole al confronto diretto con opere d’arte di secoli passati. Una serie di fotografie scattate da Andrea Lensini a San Gimignano e a Montalcino mi aiuteranno a dimostrare come questo connubio tutt’altro che scontato – alcuni critici rifiutano in linea di principio accostamenti del genere come troppo azzardati – si sia rivelato molto felice. No, gli intrusi dall’attualità non profanano l’aura veneranda delle opere antiche. In una delle sale minori di San Gimignano il busto rinascimentale di una incantevole, delicata, santa dai capelli d’oro intreccia un dialogo lieve e ironico con un adolescente pistoiese che la guarda stupito. Nella stessa sala, la figura di un ragazzo che dà da mangiare a un piccione si inserisce nella nicchia che si apre nella parete di fondo con la naturalezza di una collocazione permanente. Il titolo di quest’ultima scultura, “Siena, Piazza del Campo”, è un riferimento dell’artista alla sua doppia identità professionale di scultore e di restauratore e all’intreccio di queste due competenze. La scultura fu realizzata nell’anno in cui Gavazzi eseguiva nel Palazzo Pubblico di Siena, prospiciente al Campo, l’incarico di riportare in luce un capolavoro di Duccio, l’affresco del castello di Giuncarico da poco scoperto, che è entrato nella storia dell’arte del Trecento come una delle più antiche e cospicue “rappresentazioni topografiche del paesaggio”.
In un’altra immagine della mostra di San Gimignano, un gruppo di bambine – in quella fase dell’infanzia che si avvia all’adolescenza – si arrampica per una scala stretta e ripida. La cornice architettonica potenzia l’espressività delle sculture, creando la suggestione che una variopinta scolaresca stia salendo la scala.
Nel museo di Montalcino questo concetto espositivo è stato ulteriormente sviluppato e notevolmente raffinato. In una delle sale del museo che nel corso del recente restauro sono state strutturate in modo consapevolmente sobrio, la combinazione di finestre fittizie e finestre reali apre un gioco di effetti illusionistici. Tuttavia le “finestre figurate” di Gavazzi non fanno esplodere lo spazio dall’interno, ma vi si inseriscono così armoniosamente da entrare idealmente nella fisionomia duratura, non transitoria, della sala. Un’analoga impronta di domesticità affettivamente armoniosa contrassegna la composizione della sedia carica di panni (in terracotta) appena raccolti dopo l’asciugatura (“Dopo li stiro”) e la scultura del bambino che si nasconde sotto una accappatoio dai ricchi effetti cromatici. Il fascino di questo contrappunto nasce dal gioco dell’artista con l’effetto illusionistico dei tessuti: da una parte un variopinto, disordinato mucchio di panni appena asciutti, dall’altra il delinearsi di un corpo celato sotto la stoffa.
In alcune, pochissime, scenografie si è azzardato un dialogo tra una scultura del Trecento e un’opera di Gavazzi. Anche i puristi rigorosi, avversi in linea di principio a esperimenti di questo genere, riusciranno difficilmente a sottrarsi al fascino dell’accostamento, fianco a fianco, della Madonna di Angelo di Narduccio che si erge sul dorso in atteggiamento di rigida verticalità e la fanciulla di Gavazzi che si curva sulla sua sedia fino a toccare la terra con la testa. In un contesto come quello di Montalcino figure come queste diventano visitatori che animano le sale severe del museo.
Il sorriso di sorpresa e divertimento, che la schiera delle sculture irrompenti con tanta grazia nel museo avrà strappato ad alcuni dei visitatori in carne ed ossa, si sarà prevedibilmente accentuato nelle ultime sale della mostra, soprattutto quando i visitatori si saranno trovati di fronte il gruppo dei “monelli di Gavazzi” che seguono attentissimi, sullo schermo, il video di presentazione del loro creatore.
Al momento della stesura di questo testo, la mostra nella Certosa è fissata nel concetto ma non è prevedibile nell’effetto: è difficile, ora, giudicare se questa idea espositiva si farà valere anche in quella cornice. Qui le premesse sono completamente diverse. A differenza di San Gimignano e di Montalcino l’iniziativa è incentrata non sul dialogo con opere d’arte dei secoli passati, ma sull’ambiente storico e sulla sua funzione. Una particolare difficoltà nasce dall’estrema diversità di proporzioni degli spazi della Certosa, dal contrasto tra l’enorme sala di rappresentanza all’inizio della mostra, la larga area antistante la chiesa, l’incantevole piccolo chiostro e lo stretto refettorio.
Il nostro concetto espositivo perciò s’incardina sull’idea di distribuire le sculture in base alla corrispondenza tra la connotazione espressiva della singola opera e lo spazio di accoglienza. Abbiamo così rinunciato a un ordinamento cronologico o a un raggruppamento tematico delle figure, a vantaggio del dialogo tra la scultura moderna e la secolare cornice architettonica.
2.
Numerosi saggi e ancora più numerose mostre in sedi prestigiose testimoniano l’importanza dell’arte di Giuseppe Gavazzi. Vorrei ricordare in particolare le mostre di Parigi (Grand Palais, 1980), di Fribourg (Galerie de la Cathédrale, 2000; Gmünd (Galerie im Prediger Schwäbisch 2001): Neuchâtel (Galerie Ditesheim, 2004), di Monaco di Baviera (Galerie Van Braunbehrens) e soprattutto la sua partecipazione alla massima esposizione mondiale dell’arte moderna, l’ “Art” di Basilea (1980, 1984). Tuttavia questo vocabolario formale di difficile catalogazione suscita in molti spettatori reazioni di dubbio o almeno perplessità sostanziali. François Ditesheim (Galerie Jan Krugier, Ditesheim & Cie.), il “profeta” svizzero di Gavazzi, ha affrontato francamente questo problema nel suo contributo a un catalogo del 2004:
“Il va sans dire que l’oeuvre du sculpteur Giuseppe Gavazzi se situe, isolée, en marge de la création artistique contemporaine et ne rentre dans aucune classification possible de genre. Par conséquent elle peut prêter à confusion, être mal comprise ou même mal aimée. La sincérité de l’acte artistique, l’absence de ruse, l’expressivité dont toute sophistication est exclue, une apparente naïveté, tout cela peut faire sourire certains amateurs plus habitués à des espaces depouillés issus de “l’arte povera”, lui-même né en partie dans cette même Italie où le riche patrimoine artistique a en quelque sorte effrayé le créateur contemporain.”
Si aprono diverse strade di confronto critico con questo opus problematico. Enrico Crispolti ha scelto il classico metodo della storia dell’arte, quello del confronto stilistico con artisti italiani del XX secolo (“Asterischi brevi per un confronto di ‘Scultura dipinta’ ”, 2004). Alessandro Bagnoli ha individuato le connessioni sostanziali che legano l’opera di Gavazzi alla scultura dipinta della Toscana tardo-medievale e rinascimentale (“Scultura dipinta – L’esperienza contemporanea di Giuseppe Gavazzi”, 2004).
Per parte mia, cercherò qui di illustrare l’arte di Gavazzi nell’ottica della sua iconografia. Mezzo secolo di attività ha reso la produzione dell’artista – peraltro ancora aperta a sorprese future – così organica e articolata, da consentire l’individuazione di un decalogo tematico: di almeno dieci temi, con i quali Gavazzi si è misurato con tenacia e perseveranza fin dai suoi esordi. Per quanto alcuni di questi temi siano presenti anche in altri artisti italiani contemporanei, nel loro complesso essi individuano un codice emozionale e un lessico espressivo, in forza dei quali Giuseppe Gavazzi acquista un suo profilo d’artista individuale e inconfondibile.
Il tema centrale di Gavazzi è il tema classico di tutta l’arte italiana – la “maternità”. Il peso di una imponente tradizione condiziona in modo così grave il moderno che la maggior parte degli artisti, per sottrarsi a ogni tentazione di revival religioso, evitano questo tema. Gavazzi invece si è sentito fin dagli esordi così pervaso da esso – una sorta di coazione psichica – che è riuscito a liberarsi dai vincoli della tradizione storica. Soprattutto nella sua produzione recente, a partire dagli anni ’90, il tema ha ritrovato tutta la sua forza arcaica in iperdimenzionali figure lignee. La “Maternità” di Gavazzi è, nonostante la sua declinazione moderna, anzi quotidiana – o forse proprio in grazie di essa –, l’evocazione e la raffigurazione dell’ancestrale, dell’atemporale “Grande Madre”.
Un altro grande tema dell’arte cristiana riemerge fortemente trasformato nell’arte di Gavazzi: la figura velata. La prassi di velare le immagini più venerate – per esempio la “Veronica” romana – era una consuetudine diffusa nel medioevo, non solo nel medioevo italiano. Opere d’arte celeberrime, che oggi conosciamo soltanto in forma disvelata, venivano allora celate sotto un telo e scoperte alla venerazione dei fedeli soltanto in festività molto solenni (come, per citare un altro esempio universalmente conosciuto, i bassorilievi del pulpito senese di Nicola Pisano). Gavazzi si è appropriato del tema, probabilmente non in forza di una esplorazione erudita di questa tradizione, ma per un processo di intelligenza intuitiva, alimentata dall’esperienza della domesticità, e lo ha trasposto in quel in quel registro psicologico che gli è proprio. L’alternanza del celare/svelare l’identità è un gioco prediletto dei bambini: nascondersi sotto un telo, un manto, una cortina, per poi emergerne in un festoso atto di epifania, è un rito basilare di conferma dell’identità. La trasposizione di un motivo classico dell’iconografia nel lessico del gioco infantile è un connotato fondamentale del registro creativo di Gavazzi, osservabile anche in altri temi.
Il motivo della figura velata è particolarmente congeniale a Gavazzi per due ragioni. Qui la sua predilezione per stoffe variopinte o riccamente decorate può trovare pieno dispiegamento. Non è un caso che i titoli delle sue sculture contengano frequenti riferimenti ai tessuti e ai loro colori: “Maternità con vestito scozzese” (1976), “Busto di ragazza con maglia a strisce rosse e grigie” (1986), “Ragazza con vestito a righe” (1988), “Ragazza con vestito a fiori gialli “ (1989), “Maternità con vestito a ghirigori” (1996), e così via. Ancora più importante è l’effetto compositivo. La stoffa liberamente ricadente, il morbido gioco di pieghe particolarmente caro a Gavazzi, conferiscono alla corporeità assente/presente un potere evocativo forte e al tempo stesso delicato. La plasticità di queste corporeità appena accennate è così perfetta che il potere evocativo della figura permane costante in tutte le prospettive possibili.
Nessun altro tema rivela l’ampiezza del ventaglio espressivo di Gavazzi, e la ricchezza delle sue variazioni, come “La sedia”. Su una sedia medita “Il pensieroso” (1990-91); su una sedia si è arrampicata la ragazzina dalla lunga chioma nera (1992-93); da una sieda si piega, curvandosi fino a terra, la bambina dal vestito azzurro (“Riposo”, 1993); su una sedia si ammucchiano i panni in attesa di stiratura (“Dopo li stiro”, 1994).
Al classico tema del monumento equestre Gavazzi si accosta – come all’immagine velata –, dalla prospettiva dell’infanzia. La “Bambina su cavallino grigio” del 1977, in stucco forte policromato, è a mio avviso il capolavoro di Gavazzi. Sdrammatizzare il monumento equestre trasferendolo nella dimensione del gioco è un’operazione che Gavazzi ha arricchito di variazioni nel 1994 con la “Bambina a cavallo con vestito verde” e la “Bambina a cavallo con vestito a decori gialli”.
Dai bambini che si nascondono sotto accappatoi, dalle bambine a cavallo, il percorso dell’artista si snoda attraverso molte regioni del gioco infantile. La “Casina verde”, che si offre all’osservazione sia dall’esterno che dall’interno, appartiene alla dimensione delle case di bambola. Questo filone tematico tocca il suo apice in “Il cortile” (1990-91), la cui concezione rinvia non soltanto alle case di bambole, ma anche e soprattutto a un presepe napoletano. Affascinato dalla magistrale orchestrazione scenografica, che fa convergere tutti gli elementi del racconto nel centro della composizione, l’osservatore rischia di lasciarsi sfuggire il collegamento di questo racconto al tema fondamentale di Gavazzi – la “maternità”, qui trasposta in chiave ironica. A comporre la lite dei ragazzi è l’energico intervento della madre (non del padre), davanti alla cui autorità tutti i protagonisti del dramma del cortile recedono intimiditi.
Una proposta come “La casina verde” o come “Il cortile” induce l’osservatore a riprendere in considerazione, applicandola a Gavazzi, la categoria della scultura di “genere”, quella corrente creativa che lascia libero corso alla fantasia, indipendentemente dall’esplorazione di significati più profondi. Anche in questa dimensione, il codice emozionale di Gavazzi conosce stratificazioni plurime. Tra queste, una delle più frequentate dall’artista è l’ironia. All’ingresso del grande sagrato della chiesa della Certosa abbiamo riunito un gruppo di sculture nelle quali Gavazzi modula la sua ironia affettuosa: “Arriva l’onda” (1981), “Ragazzo non piove più” (1982),”Bambina nel vuoto” (1991).
Accanto alle figure velate, accanto alle sedie così estrosamente utilizzate, Gavazzi è affascinato – come testimonia anche “Il cortile” – dal tema “finestra”. Come i due temi qui sopra ricordati, le finestre rendono possibili quegli effetti illusionistici che sono un connotato fondamenale dell’arte di Gavazzi. Le pareti delle sale della Certosa non si prestano come quelle del Museo civico di Montalcino a queste messe in scena illusionistiche; così abbiamo utilizzato il pilastro centrale della prima grande sala della mostra come sostituto delle pareti.
Tra i moduli clssici dell’arte italiana rivisistati da Gavazzi – il monumento equestre, il rilievo, la statua, in particolare la statua del bambino che si nasconde sotto un telo o un manto – il busto gode della speciale predilezione dell’artista. Il catalogo di Gavazzi è densamente popolato di busti che non perseguono l’obiettivo del ritratto realistico, ma modulano in forma stilizzata il suo codice emozionale (“Il bambino”, “Il ragazzo biondino”).
Se si prescinde dal filone tematico della “maternità”, Gavazzi evita i contenuti drammatici. Alla sua sensibilità si confà meglio il gioco dei bambini, attraverso il quale egli può esprimere la malinconia del suo temperamento. Tuttavia l’iconografia politica è una dimensione espressiva di grande potenzialità, che forse Gavazzi potrebbe sviluppare in futuro – non nel senso di una propaganda ideologica, ma nella rappresentazione di grandi idee liberatorie. Soltanto una volta l’artista si è addentrato in questa dimensione – nella concezione de “Il giorno della pace” (1973). Una ragazza con le braccia drammaticamente alzate annuncia la fine della guerra in Vietnam – una testimonianza profondamente umana nella sua commovente semplicità. Modula sommessamente questa idea un’opera del 1978, “Il saluto”, l’immagine di copertina della mostra della Certosa. Propongo di chiamare da ora in poi questa figura intensamente espressiva “Il giorno della pace 2”, come l’immagine gemella. Nell’iconografia politica rientra indubbiamente anche il rilievo delle femministe, una vivace testimonianza della profonda trasformazione della società italiana negli anni ’70.
A partire dagli anni ’90 Gavazzi si è avventurato sul rischioso terreno della moderna iconografia sacra. Devo confessare che non tutti questi esperimenti mi convincono. Le mie perplessità si esprimono nel fatto che ho osato separare, in questa mostra, la monumentale figura dell’Annunziata (1994-98) dal suo pendant, il giovanilmente terrestre angelo annunciante. Pienamente convincente mi sembra invece la “Madonna della misericordia” (1998), sotto il cui manto trova rifiugio una folla di sculture, tra le quali è ben riconoscibile la bambina di Gavazzi con il suo telo da bagno in una versione lievemente modificata (“Figura con mantello a fiori”, 1980). Se questa opera di iconografia sacra dovesse avere in futuro una funzione ecclesiale, la sua collocazione ideale sarebbe una cappella dedicata alla memoria degli scultori – analogamente alla cappella dedicata agli artisti nella chiesa della SS. Annunziata a Firenze.
A me Giuseppe Gavazzi fa venire in mente Pinocchio e spiegherò perché. La prosa di Lorenzini è dimessa, svagata e disincantata, elegantemente vernacolare. Il suo è un racconto reale e irreale nello stesso tempo, è verità ed è metafora. Poi chiudi il libro – chiunque abbia letto Pinocchio lo sa – e devi riconoscere che quell’opera apparentemente leggera è uno dei grandi testi dell’Ottocento italiano e forse non solo italiano.
Cosa vuol dire questo? Vuol dire che esiste nel genio toscano (mi sia consentito per una volta l’uso di questa parola così pericolosamente metastorica) una specie di dissimulazione, di sagace understatement. Tenersi al di qua della lingua alta (pur conoscendola e dominandola perfettamente), esorcizzare la retorica con il minimalismo, bilanciare l’ironia con il disincanto, procedere per allusioni e per finzioni. Non sono questi elementi distintivi del carattere toscano, specie della periferia toscana che è la patria di Giuseppe Gavazzi?
Lo scultore che Max Seidel e Crispolti, Baldini e Carli, Santi e Bagnoli amano (e anche a me piace molto) è un naïf astuto.
Dire naïf astuto è un ossimoro ma l’ossimoro, a mio giudizio, è in questo caso necessario. Giuseppe Gavazzi, anche per il mestiere che fa, conosce perfettamente e ha, in un certo senso, assimilato per osmosi, la lingua grande della nostra storia artistica. Sa benissimo cosa vogliono dire in Italia e in Toscana, ritmo, proporzioni, prospettiva, profondità, bilanciamento delle figure, giustapposizione dei colori, messa in scena. Lo sa, perché chissà quante volte, lui pistoiese, si è fermato a guardare e riguardare le formelle policrome con le Opere di Misericordia al Ceppo. In quel fregio colorato di cinque secoli fa c’è già tutto Gavazzi. Solo che Giuseppe Gavazzi è un uomo del nostro tempo e non può (come saprebbe benissimo fare) mettersi oggi a plasticare, a colorare, a invetriare alla maniera dei maestri antichi. E allora opera come se quelle cose (Giovanni Pisano, i Lorenzetti, Piero della Francesca, i Della Robbia etc. ...) non le conoscesse. Fa finta di averle dimenticate.
Allo stesso modo, nel suo Pinocchio, Lorenzini fa finta di aver dimenticato Boccaccio e Manzoni, Dickens e Gogol. Ecco perché ho parlato, per Gavazzi, di naïf astuto.
Attenzione però perché far finta di dimenticare non basta. I risultati potrebbero essere deludenti come sa bene chi conosce tanta scultura finto-primitivista e pseudo-citazionista dei nostri giorni. Dagli autori che si finge di dimenticare bisogna saper trarre il nucleo significante e quello (è la cosa più difficile) saperlo poi trasfigurare in poesia cioè in linguaggio espressivo nuovo originale contemporaneo. Giuseppe Gavazzi, naïf astuto, ci riesce e il fatto che ci riesca mi riempie di stupore e di ammirazione.
Antonio Paolucci
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L’iconografia di Gavazzi
di Max Seidel
Traduzione dal tedesco di Silvana Seidel Menchi
per Ilaria
1.
Con questa mostra nella Certosa di Firenze gli amici di Giuseppe Gavazzi festeggiano il settantesimo compleanno dell’artista. Non è un caso che siano stati gli storici dell’arte a farsi ideatori e promotori della mostra. Fino a oggi l’opera di Giuseppe Gavazzi ha trovato i suoi apprezzatori non tanto tra i critici d’arte di professione o tra gli espositori e gli organizzatori di mostre – come accade alla maggior parte degli artisti moderni –, ma prevalentemente tra gli storici dell’arte, che hanno seguito per anni, oltre alla sua produttività di scultore, anche la sua attività di restauratore di opere famose – gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella “Sala della Pace”, la “Maestà” di Simone Martini, le pitture murali recentemente scoperte nella chiesa inferiore del duomo di Siena. Tra questi apprezzatori dello scultore percettivo-intuitivo e del restauratore di talento figurano Cecilia Alessi, Alessandro Bagnoli, Umberto Baldini, Enzo Carli, Enrico Crispoldi, Bruno Santi.
La scelta della Certosa come sede della mostra è il punto d’approdo dell’esperimento –avviato nel 1996 nel Palazzo Comunale di San Gimignano, riproposto nel 2004 nel Museo Civico di Montalcino – di mettere in mostra le sculture di Giuseppe Gavazzi in edifici storici, esponendole al confronto diretto con opere d’arte di secoli passati. Una serie di fotografie scattate da Andrea Lensini a San Gimignano e a Montalcino mi aiuteranno a dimostrare come questo connubio tutt’altro che scontato – alcuni critici rifiutano in linea di principio accostamenti del genere come troppo azzardati – si sia rivelato molto felice. No, gli intrusi dall’attualità non profanano l’aura veneranda delle opere antiche. In una delle sale minori di San Gimignano il busto rinascimentale di una incantevole, delicata, santa dai capelli d’oro intreccia un dialogo lieve e ironico con un adolescente pistoiese che la guarda stupito. Nella stessa sala, la figura di un ragazzo che dà da mangiare a un piccione si inserisce nella nicchia che si apre nella parete di fondo con la naturalezza di una collocazione permanente. Il titolo di quest’ultima scultura, “Siena, Piazza del Campo”, è un riferimento dell’artista alla sua doppia identità professionale di scultore e di restauratore e all’intreccio di queste due competenze. La scultura fu realizzata nell’anno in cui Gavazzi eseguiva nel Palazzo Pubblico di Siena, prospiciente al Campo, l’incarico di riportare in luce un capolavoro di Duccio, l’affresco del castello di Giuncarico da poco scoperto, che è entrato nella storia dell’arte del Trecento come una delle più antiche e cospicue “rappresentazioni topografiche del paesaggio”.
In un’altra immagine della mostra di San Gimignano, un gruppo di bambine – in quella fase dell’infanzia che si avvia all’adolescenza – si arrampica per una scala stretta e ripida. La cornice architettonica potenzia l’espressività delle sculture, creando la suggestione che una variopinta scolaresca stia salendo la scala.
Nel museo di Montalcino questo concetto espositivo è stato ulteriormente sviluppato e notevolmente raffinato. In una delle sale del museo che nel corso del recente restauro sono state strutturate in modo consapevolmente sobrio, la combinazione di finestre fittizie e finestre reali apre un gioco di effetti illusionistici. Tuttavia le “finestre figurate” di Gavazzi non fanno esplodere lo spazio dall’interno, ma vi si inseriscono così armoniosamente da entrare idealmente nella fisionomia duratura, non transitoria, della sala. Un’analoga impronta di domesticità affettivamente armoniosa contrassegna la composizione della sedia carica di panni (in terracotta) appena raccolti dopo l’asciugatura (“Dopo li stiro”) e la scultura del bambino che si nasconde sotto una accappatoio dai ricchi effetti cromatici. Il fascino di questo contrappunto nasce dal gioco dell’artista con l’effetto illusionistico dei tessuti: da una parte un variopinto, disordinato mucchio di panni appena asciutti, dall’altra il delinearsi di un corpo celato sotto la stoffa.
In alcune, pochissime, scenografie si è azzardato un dialogo tra una scultura del Trecento e un’opera di Gavazzi. Anche i puristi rigorosi, avversi in linea di principio a esperimenti di questo genere, riusciranno difficilmente a sottrarsi al fascino dell’accostamento, fianco a fianco, della Madonna di Angelo di Narduccio che si erge sul dorso in atteggiamento di rigida verticalità e la fanciulla di Gavazzi che si curva sulla sua sedia fino a toccare la terra con la testa. In un contesto come quello di Montalcino figure come queste diventano visitatori che animano le sale severe del museo.
Il sorriso di sorpresa e divertimento, che la schiera delle sculture irrompenti con tanta grazia nel museo avrà strappato ad alcuni dei visitatori in carne ed ossa, si sarà prevedibilmente accentuato nelle ultime sale della mostra, soprattutto quando i visitatori si saranno trovati di fronte il gruppo dei “monelli di Gavazzi” che seguono attentissimi, sullo schermo, il video di presentazione del loro creatore.
Al momento della stesura di questo testo, la mostra nella Certosa è fissata nel concetto ma non è prevedibile nell’effetto: è difficile, ora, giudicare se questa idea espositiva si farà valere anche in quella cornice. Qui le premesse sono completamente diverse. A differenza di San Gimignano e di Montalcino l’iniziativa è incentrata non sul dialogo con opere d’arte dei secoli passati, ma sull’ambiente storico e sulla sua funzione. Una particolare difficoltà nasce dall’estrema diversità di proporzioni degli spazi della Certosa, dal contrasto tra l’enorme sala di rappresentanza all’inizio della mostra, la larga area antistante la chiesa, l’incantevole piccolo chiostro e lo stretto refettorio.
Il nostro concetto espositivo perciò s’incardina sull’idea di distribuire le sculture in base alla corrispondenza tra la connotazione espressiva della singola opera e lo spazio di accoglienza. Abbiamo così rinunciato a un ordinamento cronologico o a un raggruppamento tematico delle figure, a vantaggio del dialogo tra la scultura moderna e la secolare cornice architettonica.
2.
Numerosi saggi e ancora più numerose mostre in sedi prestigiose testimoniano l’importanza dell’arte di Giuseppe Gavazzi. Vorrei ricordare in particolare le mostre di Parigi (Grand Palais, 1980), di Fribourg (Galerie de la Cathédrale, 2000; Gmünd (Galerie im Prediger Schwäbisch 2001): Neuchâtel (Galerie Ditesheim, 2004), di Monaco di Baviera (Galerie Van Braunbehrens) e soprattutto la sua partecipazione alla massima esposizione mondiale dell’arte moderna, l’ “Art” di Basilea (1980, 1984). Tuttavia questo vocabolario formale di difficile catalogazione suscita in molti spettatori reazioni di dubbio o almeno perplessità sostanziali. François Ditesheim (Galerie Jan Krugier, Ditesheim & Cie.), il “profeta” svizzero di Gavazzi, ha affrontato francamente questo problema nel suo contributo a un catalogo del 2004:
“Il va sans dire que l’oeuvre du sculpteur Giuseppe Gavazzi se situe, isolée, en marge de la création artistique contemporaine et ne rentre dans aucune classification possible de genre. Par conséquent elle peut prêter à confusion, être mal comprise ou même mal aimée. La sincérité de l’acte artistique, l’absence de ruse, l’expressivité dont toute sophistication est exclue, une apparente naïveté, tout cela peut faire sourire certains amateurs plus habitués à des espaces depouillés issus de “l’arte povera”, lui-même né en partie dans cette même Italie où le riche patrimoine artistique a en quelque sorte effrayé le créateur contemporain.”
Si aprono diverse strade di confronto critico con questo opus problematico. Enrico Crispolti ha scelto il classico metodo della storia dell’arte, quello del confronto stilistico con artisti italiani del XX secolo (“Asterischi brevi per un confronto di ‘Scultura dipinta’ ”, 2004). Alessandro Bagnoli ha individuato le connessioni sostanziali che legano l’opera di Gavazzi alla scultura dipinta della Toscana tardo-medievale e rinascimentale (“Scultura dipinta – L’esperienza contemporanea di Giuseppe Gavazzi”, 2004).
Per parte mia, cercherò qui di illustrare l’arte di Gavazzi nell’ottica della sua iconografia. Mezzo secolo di attività ha reso la produzione dell’artista – peraltro ancora aperta a sorprese future – così organica e articolata, da consentire l’individuazione di un decalogo tematico: di almeno dieci temi, con i quali Gavazzi si è misurato con tenacia e perseveranza fin dai suoi esordi. Per quanto alcuni di questi temi siano presenti anche in altri artisti italiani contemporanei, nel loro complesso essi individuano un codice emozionale e un lessico espressivo, in forza dei quali Giuseppe Gavazzi acquista un suo profilo d’artista individuale e inconfondibile.
Il tema centrale di Gavazzi è il tema classico di tutta l’arte italiana – la “maternità”. Il peso di una imponente tradizione condiziona in modo così grave il moderno che la maggior parte degli artisti, per sottrarsi a ogni tentazione di revival religioso, evitano questo tema. Gavazzi invece si è sentito fin dagli esordi così pervaso da esso – una sorta di coazione psichica – che è riuscito a liberarsi dai vincoli della tradizione storica. Soprattutto nella sua produzione recente, a partire dagli anni ’90, il tema ha ritrovato tutta la sua forza arcaica in iperdimenzionali figure lignee. La “Maternità” di Gavazzi è, nonostante la sua declinazione moderna, anzi quotidiana – o forse proprio in grazie di essa –, l’evocazione e la raffigurazione dell’ancestrale, dell’atemporale “Grande Madre”.
Un altro grande tema dell’arte cristiana riemerge fortemente trasformato nell’arte di Gavazzi: la figura velata. La prassi di velare le immagini più venerate – per esempio la “Veronica” romana – era una consuetudine diffusa nel medioevo, non solo nel medioevo italiano. Opere d’arte celeberrime, che oggi conosciamo soltanto in forma disvelata, venivano allora celate sotto un telo e scoperte alla venerazione dei fedeli soltanto in festività molto solenni (come, per citare un altro esempio universalmente conosciuto, i bassorilievi del pulpito senese di Nicola Pisano). Gavazzi si è appropriato del tema, probabilmente non in forza di una esplorazione erudita di questa tradizione, ma per un processo di intelligenza intuitiva, alimentata dall’esperienza della domesticità, e lo ha trasposto in quel in quel registro psicologico che gli è proprio. L’alternanza del celare/svelare l’identità è un gioco prediletto dei bambini: nascondersi sotto un telo, un manto, una cortina, per poi emergerne in un festoso atto di epifania, è un rito basilare di conferma dell’identità. La trasposizione di un motivo classico dell’iconografia nel lessico del gioco infantile è un connotato fondamentale del registro creativo di Gavazzi, osservabile anche in altri temi.
Il motivo della figura velata è particolarmente congeniale a Gavazzi per due ragioni. Qui la sua predilezione per stoffe variopinte o riccamente decorate può trovare pieno dispiegamento. Non è un caso che i titoli delle sue sculture contengano frequenti riferimenti ai tessuti e ai loro colori: “Maternità con vestito scozzese” (1976), “Busto di ragazza con maglia a strisce rosse e grigie” (1986), “Ragazza con vestito a righe” (1988), “Ragazza con vestito a fiori gialli “ (1989), “Maternità con vestito a ghirigori” (1996), e così via. Ancora più importante è l’effetto compositivo. La stoffa liberamente ricadente, il morbido gioco di pieghe particolarmente caro a Gavazzi, conferiscono alla corporeità assente/presente un potere evocativo forte e al tempo stesso delicato. La plasticità di queste corporeità appena accennate è così perfetta che il potere evocativo della figura permane costante in tutte le prospettive possibili.
Nessun altro tema rivela l’ampiezza del ventaglio espressivo di Gavazzi, e la ricchezza delle sue variazioni, come “La sedia”. Su una sedia medita “Il pensieroso” (1990-91); su una sedia si è arrampicata la ragazzina dalla lunga chioma nera (1992-93); da una sieda si piega, curvandosi fino a terra, la bambina dal vestito azzurro (“Riposo”, 1993); su una sedia si ammucchiano i panni in attesa di stiratura (“Dopo li stiro”, 1994).
Al classico tema del monumento equestre Gavazzi si accosta – come all’immagine velata –, dalla prospettiva dell’infanzia. La “Bambina su cavallino grigio” del 1977, in stucco forte policromato, è a mio avviso il capolavoro di Gavazzi. Sdrammatizzare il monumento equestre trasferendolo nella dimensione del gioco è un’operazione che Gavazzi ha arricchito di variazioni nel 1994 con la “Bambina a cavallo con vestito verde” e la “Bambina a cavallo con vestito a decori gialli”.
Dai bambini che si nascondono sotto accappatoi, dalle bambine a cavallo, il percorso dell’artista si snoda attraverso molte regioni del gioco infantile. La “Casina verde”, che si offre all’osservazione sia dall’esterno che dall’interno, appartiene alla dimensione delle case di bambola. Questo filone tematico tocca il suo apice in “Il cortile” (1990-91), la cui concezione rinvia non soltanto alle case di bambole, ma anche e soprattutto a un presepe napoletano. Affascinato dalla magistrale orchestrazione scenografica, che fa convergere tutti gli elementi del racconto nel centro della composizione, l’osservatore rischia di lasciarsi sfuggire il collegamento di questo racconto al tema fondamentale di Gavazzi – la “maternità”, qui trasposta in chiave ironica. A comporre la lite dei ragazzi è l’energico intervento della madre (non del padre), davanti alla cui autorità tutti i protagonisti del dramma del cortile recedono intimiditi.
Una proposta come “La casina verde” o come “Il cortile” induce l’osservatore a riprendere in considerazione, applicandola a Gavazzi, la categoria della scultura di “genere”, quella corrente creativa che lascia libero corso alla fantasia, indipendentemente dall’esplorazione di significati più profondi. Anche in questa dimensione, il codice emozionale di Gavazzi conosce stratificazioni plurime. Tra queste, una delle più frequentate dall’artista è l’ironia. All’ingresso del grande sagrato della chiesa della Certosa abbiamo riunito un gruppo di sculture nelle quali Gavazzi modula la sua ironia affettuosa: “Arriva l’onda” (1981), “Ragazzo non piove più” (1982),”Bambina nel vuoto” (1991).
Accanto alle figure velate, accanto alle sedie così estrosamente utilizzate, Gavazzi è affascinato – come testimonia anche “Il cortile” – dal tema “finestra”. Come i due temi qui sopra ricordati, le finestre rendono possibili quegli effetti illusionistici che sono un connotato fondamenale dell’arte di Gavazzi. Le pareti delle sale della Certosa non si prestano come quelle del Museo civico di Montalcino a queste messe in scena illusionistiche; così abbiamo utilizzato il pilastro centrale della prima grande sala della mostra come sostituto delle pareti.
Tra i moduli clssici dell’arte italiana rivisistati da Gavazzi – il monumento equestre, il rilievo, la statua, in particolare la statua del bambino che si nasconde sotto un telo o un manto – il busto gode della speciale predilezione dell’artista. Il catalogo di Gavazzi è densamente popolato di busti che non perseguono l’obiettivo del ritratto realistico, ma modulano in forma stilizzata il suo codice emozionale (“Il bambino”, “Il ragazzo biondino”).
Se si prescinde dal filone tematico della “maternità”, Gavazzi evita i contenuti drammatici. Alla sua sensibilità si confà meglio il gioco dei bambini, attraverso il quale egli può esprimere la malinconia del suo temperamento. Tuttavia l’iconografia politica è una dimensione espressiva di grande potenzialità, che forse Gavazzi potrebbe sviluppare in futuro – non nel senso di una propaganda ideologica, ma nella rappresentazione di grandi idee liberatorie. Soltanto una volta l’artista si è addentrato in questa dimensione – nella concezione de “Il giorno della pace” (1973). Una ragazza con le braccia drammaticamente alzate annuncia la fine della guerra in Vietnam – una testimonianza profondamente umana nella sua commovente semplicità. Modula sommessamente questa idea un’opera del 1978, “Il saluto”, l’immagine di copertina della mostra della Certosa. Propongo di chiamare da ora in poi questa figura intensamente espressiva “Il giorno della pace 2”, come l’immagine gemella. Nell’iconografia politica rientra indubbiamente anche il rilievo delle femministe, una vivace testimonianza della profonda trasformazione della società italiana negli anni ’70.
A partire dagli anni ’90 Gavazzi si è avventurato sul rischioso terreno della moderna iconografia sacra. Devo confessare che non tutti questi esperimenti mi convincono. Le mie perplessità si esprimono nel fatto che ho osato separare, in questa mostra, la monumentale figura dell’Annunziata (1994-98) dal suo pendant, il giovanilmente terrestre angelo annunciante. Pienamente convincente mi sembra invece la “Madonna della misericordia” (1998), sotto il cui manto trova rifiugio una folla di sculture, tra le quali è ben riconoscibile la bambina di Gavazzi con il suo telo da bagno in una versione lievemente modificata (“Figura con mantello a fiori”, 1980). Se questa opera di iconografia sacra dovesse avere in futuro una funzione ecclesiale, la sua collocazione ideale sarebbe una cappella dedicata alla memoria degli scultori – analogamente alla cappella dedicata agli artisti nella chiesa della SS. Annunziata a Firenze.
29
giugno 2006
Giuseppe Gavazzi
Dal 29 giugno al 29 luglio 2006
arte contemporanea
Location
CERTOSA
Firenze, Via Della Buca Di Certosa, 6, (Firenze)
Firenze, Via Della Buca Di Certosa, 6, (Firenze)
Vernissage
29 Giugno 2006, ore 18
Editore
GLI ORI
Autore
Curatore