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Grazia Menna – Ritorno. Il trekking scientifico di Grazia Menna
Gli interessi etnografici di Grazia Menna sono due: il viaggio, naturalmente, un viaggio”estremo” e la documentazione fotografica del viaggio. Un interesse scientifico corredato, come in questo caso del viaggio in Etiopia, da un diario dell’impresa e da una serie di immagini fotografiche.
Comunicato stampa
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Gli interessi etnografici di Grazia Menna sono due, a mio avviso: il viaggio, naturalmente, un viaggio”estremo” e la documentazione fotografica del viaggio. Un interesse scientifico corredato, come in questo caso del viaggio in Etiopia, da un diario dell’impresa, da una serie di immagini fotografiche, da una riflessione scritta sulle ragioni e sui risultati della ricerca.
Il viaggio: oggi tutti viaggiano, i giovani e i vecchi specialmente. Ma come viaggiano? I primi si trascinano da una discoteca ad un’altra, da un piatto di spaghetti ed un altro (specialmente alle Maldive) gli altri si trasportano da un museo all’altro, da un sito ad un altro, senza preparazione, per lo più. L’importante è passare il tempo che resta. Non voglio parlare degli squallidi viaggi erotici.
Il viaggio, una volta, era altra cosa. C’era il viaggio di scoperta e di conquista, Colombo, Vespucci, Magellano, Jacques Chartier che scopre il Quebec risalendo il fiume San Lorenzo. C’era il viaggio alla Montaigne, un viaggio culturale, certamente, ma senza un itinerario preciso, seguendo un po’ dove voleva andare il cavallo, per intenderci. Il vagabondare come arte del viaggiare. Nel Settecento sembra accentuarsi ed intensificarsi quello che veniva chiamato “l’orrore del domicilio” finalizzato però alla scoperta di nuove terre: Bougainville, James Cook, ad esempio.
Nell’Ottocento, Baudelaire, che si era recato malvolentieri alle isole Maurice, invitava a Citèra la sua donna del momento, alla ricerca della bellezza,del lusso, della calma, del piacere. Ma il Baudelaire maturo diventa possibilista sull’idea del viaggio, che in pratica non aveva mai amato, se non come paradiso artificiale e mentale, dichiarando che il viaggio non fosse così necessario: ” Parti se vuoi, altrimenti resta”.
Il Gran Tour ottocentesco, seduceva i giovani aristocratici e borghesi, seduceva enormemente e giustamente, gli intellettuali, che sapevano “vedere” e si pensi a Goethe e a Stendhal, che hanno lasciato pagine sublimi dei loro viaggi.
Nel Novecento, seguitando ancora il gusto per il Gran Tour, a mano a mano che ci si avvicina alla fine del secolo, per la diffusione dei film e dei documentari, si ha come l’impressione, ovunque, del déjà vu.
Allora si fa strada l’avventura: quella vera, a rischio della vita, con i pericoli, cui si sottopongono i partecipanti. Il guru di tale gusto, fu, negli anni Sessanta, Bruce Chatwin, che lascia i suoi libri sulla Patagonia, le sue guide di viaggio, a stimolare l’”on the road” avventuroso e spesso solitario, come nel romanzo di Kerouac.
La distinzione di Moravia del viaggio nel passato o nel futuro, oggi perde valore in quanto la scoperta, l’autentico, diventano sempre più rari. Le mitiche tribù Masai, dedite alla pastorizia ancora oggi, stanno più tempo al cellulare che non a guardia del loro gregge. D’altra parte, che può mai più dirci, dal vero, l’avveniristica, recentissima torre di Dubai, alta più di ottocento metri, dopo averla vista da tutte le angolazioni in reportage giornalistici? Il viaggio oggi ha perso quindi molto del suo fascino e si risolve in rapidi spostamenti, alla ricerca di posti diversi, guidata dalla moda del momento, con grande emissione di CO2 nell’atmosfera, come sappiamo.
Le foto:
Giustificatissimo invece il viaggio scientifico di Grazia Menna, che ora espone parte dei suoi scatti ( la foto è, come è stato detto, un mezzo per impadronirsi delle cose e dei luoghi) ed i risultati della sua ricerca.
Ad alta quota, sugli altopiani dell’Etiopia, il trekking di Grazia Menna, avventuroso ma anche, in qualche modo organizzato e protetto, è una ricerca documentata sugli usi e costumi della tribù dei Surma.
L’obiettivo principale del progetto di Grazia Menna è vedere e fotografare la scarificazione, una pratica che i Surma e forse altre popolazioni, attuano sul loro corpo, tagliuzzandolo con lamette e riempiendo i tagli con terra e sangue al fine di crearne i rilievi ben evidenti al posto di tatuaggi che non avrebbero visibilità sui corpi neri.(figura 12) Prova di coraggio per gli uomini era segno che essi avevano ucciso almeno una volta. Per le donne è invece una forma di abbellimento del corpo, una sorta di decorazione fissa, non eliminabile una volta fatta.
Le foto in B/N hanno caratteristiche e qualità che si possono definire decisamente artistiche e singolari.
Molte foto qui esposte sono dedicate alla scarificazione, foto in B/N che accentuano così la drammaticità dell’evento. Non si tratta quasi mai di foto di gruppo, di paesaggi, oppure di ritratti frontali. Lo scatto è lungamente meditato da Grazia Menna, che non ama l’istantanea. I soggetti sono presi sovente di spalle o defilati, in primo piano c’è soltanto una mano, (figura 20) un dettaglio significativo, (figura 2) il particolare della smorfia di dolore del ragazzo che si sta sottoponendo alla scarificazione (figura 6); il racconto è affidato specialmente al dettaglio, (figura 9) che per la sua, a volte, raccapricciante realtà, parla, grida più che l’illustrazione del momento principale che giustificherebbe, in altro fotografo, un momento che chiamerei soltanto narrativo. Il disegno è tracciato sul corpo del ragazzo (l’avambraccio) con la terra,(figura 3 e 4) quindi le linee sono sostituite dai tagli della lametta. I tagli lasciano colare il sangue, che viene subito fatto cicatrizzare con la terra.(figura 13 e 14) In altra foto,(figura 10) la lametta raccoglie tutta la luce e costituisce il particolare crudo e impressionante dell’immagine, liscia e pericolosamente tagliente, contro la ruvidezza del braccio appena scarificato. La scarificazione è documentata a Tulgit nell’Etiopia del Sud-Ovest.
Il dettaglio è privilegiato, nelle foto di Grazia Menna e il momento descritto è specialmente quello che avviene prima e dopo il fatto principale. Una mano, un braccio, quindi che si accingono a compiere l’evento, che sono in attesa dell’evento (figura 8) non tanto l’evento stesso, sono l’interesse di chi sceglie il dettaglio da fissare nello scatto.
Si vedano inoltre i ritratti: quello dell’uomo di Korum, in cui il disegno corporale si coniuga con la presenza del mitra sulle sue spalle(figura 22) e il bellissimo ritratto in piedi e di traverso del ragazzo Surma a Tulgit (figura 23) preso dal basso in modo da farne risaltare l’alta statura. Oppure il ritratto della ragazza Surma, sempre a Tulgit, con il caratteristico piatto labiale (figura 24).
Il commento alla foto è indispensabile alla comprensione della foto stessa, proprio perché la foto non è ciò che è, ma è presa per un particolare che ha bisogno di essere completato dalla scrittura. Si tratta, in un certo senso, di una poesia visuale, in cui scrittura e iconìa si completano. Come in quella foto, presa, sempre a Tulgit, di una scarpa da tennis, (figura 25) di difficile individuazione, in cui è infilato il braccio di un bambino, ci dice la didascalia, che non la indossa, ma che preferisce giocare con essa. Se non ci fosse la didascalia non si capirebbe molto della foto che potrebbe sembrare “altro”, eppure libera in chi guarda l’interpretazione e la creatività. Foto che guardano chi guarda, dunque, in cui si entra liberamente con la propria fantasia, che lasciano comunque spazio a molte interpretazioni. Foto che a volte sembrano “sporcate”, volutamente confuse e poco comprensibili immediatamente.
Il racconto di Grazia Menna, il suo preciso diario di viaggio, e la più tecnica relazione etnografica, mostrano inoltre la sua volontà di fotografare chi fotografa, coinvolgendo alcuni personaggi della tribù, non sempre collaborativi, che si fanno pagare per rappresentare oggi, in tempi moderni, quello che costituiva la loro tradizione secolare.
La ricerca dell’autentico è comunque una molla che spinge il viaggiatore appassionato, anche se l’autentico va restringendosi. Proviamo dunque un po’ di delusione alla notizia che le scene, le foto, le cerimonie sono in un certo senso “artificiali” e create apposta per essere fotografate, dietro esborso di denaro da parte dei viaggiatori. Il che non toglie nulla al valore intrinseco delle singolari foto di Grazia Menna ed al suo lavoro di ricerca.
Paolo Guzzi
Il viaggio: oggi tutti viaggiano, i giovani e i vecchi specialmente. Ma come viaggiano? I primi si trascinano da una discoteca ad un’altra, da un piatto di spaghetti ed un altro (specialmente alle Maldive) gli altri si trasportano da un museo all’altro, da un sito ad un altro, senza preparazione, per lo più. L’importante è passare il tempo che resta. Non voglio parlare degli squallidi viaggi erotici.
Il viaggio, una volta, era altra cosa. C’era il viaggio di scoperta e di conquista, Colombo, Vespucci, Magellano, Jacques Chartier che scopre il Quebec risalendo il fiume San Lorenzo. C’era il viaggio alla Montaigne, un viaggio culturale, certamente, ma senza un itinerario preciso, seguendo un po’ dove voleva andare il cavallo, per intenderci. Il vagabondare come arte del viaggiare. Nel Settecento sembra accentuarsi ed intensificarsi quello che veniva chiamato “l’orrore del domicilio” finalizzato però alla scoperta di nuove terre: Bougainville, James Cook, ad esempio.
Nell’Ottocento, Baudelaire, che si era recato malvolentieri alle isole Maurice, invitava a Citèra la sua donna del momento, alla ricerca della bellezza,del lusso, della calma, del piacere. Ma il Baudelaire maturo diventa possibilista sull’idea del viaggio, che in pratica non aveva mai amato, se non come paradiso artificiale e mentale, dichiarando che il viaggio non fosse così necessario: ” Parti se vuoi, altrimenti resta”.
Il Gran Tour ottocentesco, seduceva i giovani aristocratici e borghesi, seduceva enormemente e giustamente, gli intellettuali, che sapevano “vedere” e si pensi a Goethe e a Stendhal, che hanno lasciato pagine sublimi dei loro viaggi.
Nel Novecento, seguitando ancora il gusto per il Gran Tour, a mano a mano che ci si avvicina alla fine del secolo, per la diffusione dei film e dei documentari, si ha come l’impressione, ovunque, del déjà vu.
Allora si fa strada l’avventura: quella vera, a rischio della vita, con i pericoli, cui si sottopongono i partecipanti. Il guru di tale gusto, fu, negli anni Sessanta, Bruce Chatwin, che lascia i suoi libri sulla Patagonia, le sue guide di viaggio, a stimolare l’”on the road” avventuroso e spesso solitario, come nel romanzo di Kerouac.
La distinzione di Moravia del viaggio nel passato o nel futuro, oggi perde valore in quanto la scoperta, l’autentico, diventano sempre più rari. Le mitiche tribù Masai, dedite alla pastorizia ancora oggi, stanno più tempo al cellulare che non a guardia del loro gregge. D’altra parte, che può mai più dirci, dal vero, l’avveniristica, recentissima torre di Dubai, alta più di ottocento metri, dopo averla vista da tutte le angolazioni in reportage giornalistici? Il viaggio oggi ha perso quindi molto del suo fascino e si risolve in rapidi spostamenti, alla ricerca di posti diversi, guidata dalla moda del momento, con grande emissione di CO2 nell’atmosfera, come sappiamo.
Le foto:
Giustificatissimo invece il viaggio scientifico di Grazia Menna, che ora espone parte dei suoi scatti ( la foto è, come è stato detto, un mezzo per impadronirsi delle cose e dei luoghi) ed i risultati della sua ricerca.
Ad alta quota, sugli altopiani dell’Etiopia, il trekking di Grazia Menna, avventuroso ma anche, in qualche modo organizzato e protetto, è una ricerca documentata sugli usi e costumi della tribù dei Surma.
L’obiettivo principale del progetto di Grazia Menna è vedere e fotografare la scarificazione, una pratica che i Surma e forse altre popolazioni, attuano sul loro corpo, tagliuzzandolo con lamette e riempiendo i tagli con terra e sangue al fine di crearne i rilievi ben evidenti al posto di tatuaggi che non avrebbero visibilità sui corpi neri.(figura 12) Prova di coraggio per gli uomini era segno che essi avevano ucciso almeno una volta. Per le donne è invece una forma di abbellimento del corpo, una sorta di decorazione fissa, non eliminabile una volta fatta.
Le foto in B/N hanno caratteristiche e qualità che si possono definire decisamente artistiche e singolari.
Molte foto qui esposte sono dedicate alla scarificazione, foto in B/N che accentuano così la drammaticità dell’evento. Non si tratta quasi mai di foto di gruppo, di paesaggi, oppure di ritratti frontali. Lo scatto è lungamente meditato da Grazia Menna, che non ama l’istantanea. I soggetti sono presi sovente di spalle o defilati, in primo piano c’è soltanto una mano, (figura 20) un dettaglio significativo, (figura 2) il particolare della smorfia di dolore del ragazzo che si sta sottoponendo alla scarificazione (figura 6); il racconto è affidato specialmente al dettaglio, (figura 9) che per la sua, a volte, raccapricciante realtà, parla, grida più che l’illustrazione del momento principale che giustificherebbe, in altro fotografo, un momento che chiamerei soltanto narrativo. Il disegno è tracciato sul corpo del ragazzo (l’avambraccio) con la terra,(figura 3 e 4) quindi le linee sono sostituite dai tagli della lametta. I tagli lasciano colare il sangue, che viene subito fatto cicatrizzare con la terra.(figura 13 e 14) In altra foto,(figura 10) la lametta raccoglie tutta la luce e costituisce il particolare crudo e impressionante dell’immagine, liscia e pericolosamente tagliente, contro la ruvidezza del braccio appena scarificato. La scarificazione è documentata a Tulgit nell’Etiopia del Sud-Ovest.
Il dettaglio è privilegiato, nelle foto di Grazia Menna e il momento descritto è specialmente quello che avviene prima e dopo il fatto principale. Una mano, un braccio, quindi che si accingono a compiere l’evento, che sono in attesa dell’evento (figura 8) non tanto l’evento stesso, sono l’interesse di chi sceglie il dettaglio da fissare nello scatto.
Si vedano inoltre i ritratti: quello dell’uomo di Korum, in cui il disegno corporale si coniuga con la presenza del mitra sulle sue spalle(figura 22) e il bellissimo ritratto in piedi e di traverso del ragazzo Surma a Tulgit (figura 23) preso dal basso in modo da farne risaltare l’alta statura. Oppure il ritratto della ragazza Surma, sempre a Tulgit, con il caratteristico piatto labiale (figura 24).
Il commento alla foto è indispensabile alla comprensione della foto stessa, proprio perché la foto non è ciò che è, ma è presa per un particolare che ha bisogno di essere completato dalla scrittura. Si tratta, in un certo senso, di una poesia visuale, in cui scrittura e iconìa si completano. Come in quella foto, presa, sempre a Tulgit, di una scarpa da tennis, (figura 25) di difficile individuazione, in cui è infilato il braccio di un bambino, ci dice la didascalia, che non la indossa, ma che preferisce giocare con essa. Se non ci fosse la didascalia non si capirebbe molto della foto che potrebbe sembrare “altro”, eppure libera in chi guarda l’interpretazione e la creatività. Foto che guardano chi guarda, dunque, in cui si entra liberamente con la propria fantasia, che lasciano comunque spazio a molte interpretazioni. Foto che a volte sembrano “sporcate”, volutamente confuse e poco comprensibili immediatamente.
Il racconto di Grazia Menna, il suo preciso diario di viaggio, e la più tecnica relazione etnografica, mostrano inoltre la sua volontà di fotografare chi fotografa, coinvolgendo alcuni personaggi della tribù, non sempre collaborativi, che si fanno pagare per rappresentare oggi, in tempi moderni, quello che costituiva la loro tradizione secolare.
La ricerca dell’autentico è comunque una molla che spinge il viaggiatore appassionato, anche se l’autentico va restringendosi. Proviamo dunque un po’ di delusione alla notizia che le scene, le foto, le cerimonie sono in un certo senso “artificiali” e create apposta per essere fotografate, dietro esborso di denaro da parte dei viaggiatori. Il che non toglie nulla al valore intrinseco delle singolari foto di Grazia Menna ed al suo lavoro di ricerca.
Paolo Guzzi
19
maggio 2010
Grazia Menna – Ritorno. Il trekking scientifico di Grazia Menna
Dal 19 al 28 maggio 2010
fotografia
Location
GALLERIA LA CUBA D’ORO
Roma, Via Della Pelliccia, 10, (Roma)
Roma, Via Della Pelliccia, 10, (Roma)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 17 - 20
Vernissage
19 Maggio 2010, ore 18
Autore