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Gualtiero Bianco – Sculture
Nato nel 1945. Risiede e lavora tra Torino e Nizza Monferrato.Ha frequentato l’Accademia Albertina, annoverando tra i suoi illustri insegnanti Aldo Mondino, Francesco Casorati,Giovanni Amateis da Volpiano, Sandro Cherchi.
Comunicato stampa
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Dal testo critico di Gianfranco Schialvino :
Gualtiero Bianco è artista per elezione, per consapevolezza, per vocazione, per scelta, per caso. Per quell’imperativo categorico che impone, in certi momenti della vita, per tutta la vita, di dar forma a un’idea attraverso un linguaggio. Dove l’ostacolo non è la difficoltà di cercare cosa dire, ma fissare le regole che s’impongono nel trovare un mezzo significante per comunicarlo al di fuori della circostanza, variabile nel luogo, indefinito nel tempo. Nella consapevolezza che un’idea invecchiando con l’ineluttabilità del suo disfacimento materiale, debba dissolversi come la vita di tutte le cose insieme alla sua rappresentazione. Perché qui sta, inscindibile dal suo significato recondito e primario ma opinabile per chi guarda, il perché del suo lavoro artistico, deciso e immutabile, eppure fluido: è la consapevolezza dell’impossibilità dell’uomo di accedere al concetto di infinito, di poter dare all’opera un inizio di vita, nell’assoluta certezza della sua atemporalità.
Gualtiero, deciso la via del concetto, sceglie quindi di partire da un oggetto, il manufatto preesistente nobilitato in senso artistico da Duchamp un secolo esatto fa, e conferendogli un’inedita e ancora inespressa capacità semantica lo colloca in un limbo ondeggiante tra realtà e illusione. Ne contempla la nascita nuova, gli infonde un’intenzione – non un’anima, ché l’anima è immortale! –, ne carica l’immagine di rimandi ed allusioni che gli inventano, su una nuova misura, una realtà diversa, stratificata e ondivaga, da cui chi osserva trarrà le sue certezze nella pluralità delle personali esperienze pregresse.
E via via costruisce nuovi satelliti intorno al proprio nucleo inventivo, dando alle sculture l’irrequietezza del gioco, il caos della fantasia, la sfrenatezza della creatività, l’abaco della ragione. Regalando loro l’infermità della perfezione, l’algore della logica, l’assenza della spititualità. Arricchendole di aspetti decorativi, mnemonici, contradditori. Che non sono altro che l’esternazione di ciò che vede dentro di sé, immagini delle sue allucinazioni, espressioni rivelatrici di desideri reconditi. Facendosi insieme creatore e contemplatore della propria opera, costruisce ibridi, plasma androidi, assembla tecnologici congegni antropomorfi, li ritaglia su fondali derivati dal caso e invitati al caos. Un’ambiguità semantica che si fonda nella consapevole utopia che l’uomo è privilegiato sul resto del creato da due cose soltanto, ambedue rare tanto quanto preziose: la fede e l’ironia. La prima presuppone la rivelazione, la folgore che ti inchioda sulla via, e genera la convinzione dell’immortalità dell’anima. L’altra ti pone al di sopra della contingenza di un’esistenza spesso indesiderata che ha come unica stagione l’incertezza del futuro.
Le sue opere sono il frutto di questo travaglio interiore, la scintilla che le fa diventare arte. Il pensiero creativo esplode allora attraverso la rappresentazione di un mondo immaginario che prende spunto dalla realtà. I suoi personaggi sono figure informi e spesso malate. Ritratti inquietanti che rievocano pensieri irrequieti. Immagini legate alla medicina, alle malattie, alla pelle che si decompone e al corpo costruito in tutte le sue imperfezioni e irregolarità con frammenti di oggetti casalinghi e tipici di vita quotidiana.
Gualtiero cerca memorie tattili e visive, taglia pezzettini qua e la per comporre donne e uomini abnormi e sempre mancanti di qualcosa, affolla la stanza di oggetti che creano un gorgo spaziale caotico e ristretto che trova respiro appoggiandosi a un paravento, cercando una porta, stendendosi su un divano, rifugiandosi in un amplesso. Ricalcando le scene sui teleri d’asfalto di un Tintoretto disordinato e scabroso, nelle ossessioni di Füssli, nelle memorie di Böcklin, negli ori tarlati di Moreau. In una dimensione non rassicurante ma disonesta, né lineare ma gessosa, scabra e intellettuale. Che mostra senza mezzi termini e vie di fuga la dimensione umana, in un’ironica causticità.
E in un lampo di sincerità fa improvvisamente riapparire gli oggetti nella loro realtà, nella loro provvisorietà fisica e spirituale, legati da fili invisibili, sospesi sull’incertezza, destinati tutti a disgregarsi, a cadere, in uno strano regolamento di conti tra l’uomo e la natura. Che sotto il simbolo della falce non riconosce Dio.
Presentazione di Elio Bianco :
Perché un’arte “ironica”? Non solo per divertimento dell’artista.
L’ironia è un’arma dell’intelligenza per sconfiggere quello che tende a sopraffarci, il troppo importante e il troppo difficile, ma anche per esplorare senza paura i labirinti razionali e irrazionali in cui viviamo. Porta alla catarsi, non alla sterilizzazione, dell’emozione e dell’immaginazione. Può permettersi tutto, senza ingenuità o presunzione. Perciò, più che provocatoria, è sottilmente seduttiva.
Da più di un secolo l’arte moltiplica e consuma rapidamente le proprie innovazioni, come la società che interpreta. Non meritano tutte e due, per le ossessioni che accompagnano le possibilità che ci danno, la metamorfosi ironica?
Un’arte ironica non è soltanto dissacratoria, né irridente piuttosto che angosciata, se vince le restrizioni ideologiche, che si ripropongono in ogni posizione, con la libertà e la gioia dell’espressione. Infatti sa ritrovare – come si vede in questa mostra – con lucidità critica e proprietà formale, nella complessità culturale, la fantasia, il gioco e persino il sogno, o l’animismo fondamentale nell’irradiazione simbolica con la quale, attraverso il difficile lavoro, l’oggetto diventa opera e può affrontare il giudizio estetico.
Gualtiero Bianco è artista per elezione, per consapevolezza, per vocazione, per scelta, per caso. Per quell’imperativo categorico che impone, in certi momenti della vita, per tutta la vita, di dar forma a un’idea attraverso un linguaggio. Dove l’ostacolo non è la difficoltà di cercare cosa dire, ma fissare le regole che s’impongono nel trovare un mezzo significante per comunicarlo al di fuori della circostanza, variabile nel luogo, indefinito nel tempo. Nella consapevolezza che un’idea invecchiando con l’ineluttabilità del suo disfacimento materiale, debba dissolversi come la vita di tutte le cose insieme alla sua rappresentazione. Perché qui sta, inscindibile dal suo significato recondito e primario ma opinabile per chi guarda, il perché del suo lavoro artistico, deciso e immutabile, eppure fluido: è la consapevolezza dell’impossibilità dell’uomo di accedere al concetto di infinito, di poter dare all’opera un inizio di vita, nell’assoluta certezza della sua atemporalità.
Gualtiero, deciso la via del concetto, sceglie quindi di partire da un oggetto, il manufatto preesistente nobilitato in senso artistico da Duchamp un secolo esatto fa, e conferendogli un’inedita e ancora inespressa capacità semantica lo colloca in un limbo ondeggiante tra realtà e illusione. Ne contempla la nascita nuova, gli infonde un’intenzione – non un’anima, ché l’anima è immortale! –, ne carica l’immagine di rimandi ed allusioni che gli inventano, su una nuova misura, una realtà diversa, stratificata e ondivaga, da cui chi osserva trarrà le sue certezze nella pluralità delle personali esperienze pregresse.
E via via costruisce nuovi satelliti intorno al proprio nucleo inventivo, dando alle sculture l’irrequietezza del gioco, il caos della fantasia, la sfrenatezza della creatività, l’abaco della ragione. Regalando loro l’infermità della perfezione, l’algore della logica, l’assenza della spititualità. Arricchendole di aspetti decorativi, mnemonici, contradditori. Che non sono altro che l’esternazione di ciò che vede dentro di sé, immagini delle sue allucinazioni, espressioni rivelatrici di desideri reconditi. Facendosi insieme creatore e contemplatore della propria opera, costruisce ibridi, plasma androidi, assembla tecnologici congegni antropomorfi, li ritaglia su fondali derivati dal caso e invitati al caos. Un’ambiguità semantica che si fonda nella consapevole utopia che l’uomo è privilegiato sul resto del creato da due cose soltanto, ambedue rare tanto quanto preziose: la fede e l’ironia. La prima presuppone la rivelazione, la folgore che ti inchioda sulla via, e genera la convinzione dell’immortalità dell’anima. L’altra ti pone al di sopra della contingenza di un’esistenza spesso indesiderata che ha come unica stagione l’incertezza del futuro.
Le sue opere sono il frutto di questo travaglio interiore, la scintilla che le fa diventare arte. Il pensiero creativo esplode allora attraverso la rappresentazione di un mondo immaginario che prende spunto dalla realtà. I suoi personaggi sono figure informi e spesso malate. Ritratti inquietanti che rievocano pensieri irrequieti. Immagini legate alla medicina, alle malattie, alla pelle che si decompone e al corpo costruito in tutte le sue imperfezioni e irregolarità con frammenti di oggetti casalinghi e tipici di vita quotidiana.
Gualtiero cerca memorie tattili e visive, taglia pezzettini qua e la per comporre donne e uomini abnormi e sempre mancanti di qualcosa, affolla la stanza di oggetti che creano un gorgo spaziale caotico e ristretto che trova respiro appoggiandosi a un paravento, cercando una porta, stendendosi su un divano, rifugiandosi in un amplesso. Ricalcando le scene sui teleri d’asfalto di un Tintoretto disordinato e scabroso, nelle ossessioni di Füssli, nelle memorie di Böcklin, negli ori tarlati di Moreau. In una dimensione non rassicurante ma disonesta, né lineare ma gessosa, scabra e intellettuale. Che mostra senza mezzi termini e vie di fuga la dimensione umana, in un’ironica causticità.
E in un lampo di sincerità fa improvvisamente riapparire gli oggetti nella loro realtà, nella loro provvisorietà fisica e spirituale, legati da fili invisibili, sospesi sull’incertezza, destinati tutti a disgregarsi, a cadere, in uno strano regolamento di conti tra l’uomo e la natura. Che sotto il simbolo della falce non riconosce Dio.
Presentazione di Elio Bianco :
Perché un’arte “ironica”? Non solo per divertimento dell’artista.
L’ironia è un’arma dell’intelligenza per sconfiggere quello che tende a sopraffarci, il troppo importante e il troppo difficile, ma anche per esplorare senza paura i labirinti razionali e irrazionali in cui viviamo. Porta alla catarsi, non alla sterilizzazione, dell’emozione e dell’immaginazione. Può permettersi tutto, senza ingenuità o presunzione. Perciò, più che provocatoria, è sottilmente seduttiva.
Da più di un secolo l’arte moltiplica e consuma rapidamente le proprie innovazioni, come la società che interpreta. Non meritano tutte e due, per le ossessioni che accompagnano le possibilità che ci danno, la metamorfosi ironica?
Un’arte ironica non è soltanto dissacratoria, né irridente piuttosto che angosciata, se vince le restrizioni ideologiche, che si ripropongono in ogni posizione, con la libertà e la gioia dell’espressione. Infatti sa ritrovare – come si vede in questa mostra – con lucidità critica e proprietà formale, nella complessità culturale, la fantasia, il gioco e persino il sogno, o l’animismo fondamentale nell’irradiazione simbolica con la quale, attraverso il difficile lavoro, l’oggetto diventa opera e può affrontare il giudizio estetico.
21
giugno 2012
Gualtiero Bianco – Sculture
Dal 21 giugno al 13 luglio 2012
arte contemporanea
Location
STUDIO LABORATORIO ANNA VIRANDO
Torino, Corso Giovanni Lanza, 105, (Torino)
Torino, Corso Giovanni Lanza, 105, (Torino)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì dalle 17,00 alle 20,00 - Fuori orario su appuntamento
Vernissage
21 Giugno 2012, dalle ore 18,00 alle 23,00
Autore
Curatore