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Happy Undergrowth
Happy Undergrowth, a cura di Benedetta Monti presenta il lavoro di Paul Booth, Aisha Christison, Davide Franca, David Hanes, Adam Lupton, Anousha Payne. L’agglomerato di lavori si comporta come una struttura unica, si fa voce, corpo, ambiente e parla di una cosalità nuova.
Comunicato stampa
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Andrea Festa presenta: Happy Undergrowth, a cura di Benedetta Monti, dal 4 luglio 2022 al 01 settembre 2022.
L’agglomerato di lavori si comporta come una struttura unica, si fa voce, corpo, ambiente e parla di una cosalità nuova, costruendo parentesi di significato libere. La palese complicità tra le varie opere diventa poesia visiva che traduce il sintomo di una tendenza fresca e singolare, una terra di mezzo che sta prendendo sempre più spazio nel linguaggio odierno dell’arte contemporanea e che anche per questo deve essere raccontata. Allo stesso tempo, questo nuovo eclettico paesaggio sembra sottrarsi a classificazioni convenzionali, avanzando nella zona dell’imprepensabile.
In Happy Undergrowth è evidente l’urgenza di far abbandonare lo spettatore all’immagine e all’immaginabile creando magico eco e mistico riverbero; ogni segno è utile a farci curiosare in un limbo in cui qualcosa, ogni tanto e con fanciullesca ingenuità, si palesa. Qualcosa che è visibile e in trasformazione tra un evidentemente prima e un chiaramente dopo, tra un esplicitamente sotto e un indubbiamente sopra. Un sottobosco di qualche nostalgica memoria, tra le radici e le fronde, un sottobosco felice e severamente fertile.
Le scultoree figure presenti nelle tele di Paul Booth (1978, Akron, Ohio) esprimono una selvaggia e austera fragilità, affine al Newton di Blake e a Melancholy di Botero. In the dance la scala cromatica dalle nuance esuberanti, gli sguardi persi, i corpi tanto solidi quanto ingannevoli e surreali, trascinano lo spettatore in un momento sospeso tra il drammatico e lo spaesante. I protagonisti sono come compressi e deformi, sono in procinto di strabordare dall’opera, per un momento si fanno largo riempiendo anche gli occhi di chi guarda e la mente di chi osserva - con il rischio di rimanerne completamente assuefatti.
Happy Undergrowth provoca l’osservatore con delicatezza e lo disorienta con nonchalance - come il nastro da regalo intorno alle opere di Aisha Christison (1989, Margate, UK) - in armonia con lo stile dell’artista e dissonanza con le tematiche presentate. Slow cycle or drum mostra l’ipnotico ciclo di una lavatrice, soggetto posto fuori da ogni contesto a cui è possibile aggrapparsi. Così, cruda, non sembra più elemento domestico o funzionale, corrompendo la comfort zone visiva e andando a inclinare le coordinate di riconoscimento utili per ambientarsi nello spazio dell'opera. Si può scorgere attraverso il vetro un airone, o forse ne è il riflesso, temporaneo alter ego di chi sta osservando? Il contorno dell’animale si fonde con i panneggi presenti all’interno dell’oblò andando a completare l’opera ed elevando il senso di smarrimento che l’avvolge.
Il titolo della collettiva si ispira a un’opera di Davide Franca (1993, Pesaro, Italy), sottobosco da cui emergono molte delle sue figure, ibride e libere come nel disegno She has been seen me, the other retires because of the knowledge "I am seen". Sottobosco da cui si diramano le filamentose e feconde radici che troviamo in The regret of Laio e Giocasta e che proliferano tra i suoi protagonisti, spesso frutto della ricostruzione in chiave contemporanea della mitologia di Tebe. Franca rielabora la narrazione del mito e della storia come ci è sempre stata raccontata, sdogana il contraddittorio e il rovesciabile, come anche il segno ipocrita e la campitura inconcludente, facendo atterrare l’osservatore in un qui e ora sfuggente che carica di senso ogni domanda che queste visioni possono provocare.
Adam Lupton (1987, Vancouver, Canada) prende spunto da miti greci, rituali religiosi, testi rock, relazioni amorose e sociali, routine domestica, storia, introspezione e sessualità - le sue tele, tanto impermeabili quanto loquaci, sono come un labirinto dove lo spettatore può provare a perdersi. In Landscape With Branches And Figs, Lupton mette in scena un passo del libro La campana di vetro di Sylvia Plath, dove un albero di fichi diventa simbolo dell’indecisione cronica di fronte all’eccesso di possibili strade da intraprendere o scelte da fare nella vita. L’artista esplicita i disagi che la società contemporanea provoca all’essere umano, oggi in costante ricerca di approvazioni e garanzie, esplorando i disordini mentali come chiave di lettura del mondo esterno, per giungere a vere e proprie scoperte in una realtà folle.
Anousha Payne (1991, Southampton, UK) mette in discussione le gerarchie sottintese del nostro quotidiano abitare il mondo, ponendo sullo stesso piano gli elementi che ci circondano: oggetto e spazio, umano e animale, organico e inorganico, animato e inanimato, rendendo possibile uno scambio orizzontale e fluido tra questi. Anche grazie all’utilizzo delle libere associazioni e dell’automatismo psichico, la pratica di Payne emette simbolismo religioso e mostra l’idea di un comune sentire. Ogni sua opera ci ricorda che la quotidianità è costellata di veli di Maya e che il sapere, succube di aspre limitazioni e appiattimenti, può rivelarsi arbitrario o arrugginito.
Si può immaginare di danzare nel deserto e vedere il sole ballare con noi, un sole che luccica nella nostra direzione e infonde pianezza e sacralità. Il bagliore-simbolo in A morning star di David Hanes (1987, Toronto, Canada) pare accendere verità ancestrali; la struttura del dipinto, dai colori languidi e dal segno vibrante, è tanto essenziale quanto complessa e vale la pena meditare in una caverna spoglia con quest’opera appesa. Hanes si riallaccia al mito, alla religione, alla cultura zen, all’essenziale. Le tele sono impresse di mistica universalità e solenne semplicità, a tal punto che si può riuscire a visualizzare le stesse in qualche terra lontana e pura, dominata solo da spiriti guida e natura incontaminata.
Gli artisti in esposizione dimostrano che è possibile accedere a un sottobosco dove tutto si rivela esplicito e disinibito, quasi incontaminato, dove si celebra l’alterità, l’ambiguo e la rielaborazione, dove ci si può scambiare vicendevolmente le vite come Roberto Benigni e Steven Wright in Coffee and Cigarettes perchè, dopotutto - come dice lo Jago di Pasolini - noi siamo in un sogno dentro un sogno.
L’agglomerato di lavori si comporta come una struttura unica, si fa voce, corpo, ambiente e parla di una cosalità nuova, costruendo parentesi di significato libere. La palese complicità tra le varie opere diventa poesia visiva che traduce il sintomo di una tendenza fresca e singolare, una terra di mezzo che sta prendendo sempre più spazio nel linguaggio odierno dell’arte contemporanea e che anche per questo deve essere raccontata. Allo stesso tempo, questo nuovo eclettico paesaggio sembra sottrarsi a classificazioni convenzionali, avanzando nella zona dell’imprepensabile.
In Happy Undergrowth è evidente l’urgenza di far abbandonare lo spettatore all’immagine e all’immaginabile creando magico eco e mistico riverbero; ogni segno è utile a farci curiosare in un limbo in cui qualcosa, ogni tanto e con fanciullesca ingenuità, si palesa. Qualcosa che è visibile e in trasformazione tra un evidentemente prima e un chiaramente dopo, tra un esplicitamente sotto e un indubbiamente sopra. Un sottobosco di qualche nostalgica memoria, tra le radici e le fronde, un sottobosco felice e severamente fertile.
Le scultoree figure presenti nelle tele di Paul Booth (1978, Akron, Ohio) esprimono una selvaggia e austera fragilità, affine al Newton di Blake e a Melancholy di Botero. In the dance la scala cromatica dalle nuance esuberanti, gli sguardi persi, i corpi tanto solidi quanto ingannevoli e surreali, trascinano lo spettatore in un momento sospeso tra il drammatico e lo spaesante. I protagonisti sono come compressi e deformi, sono in procinto di strabordare dall’opera, per un momento si fanno largo riempiendo anche gli occhi di chi guarda e la mente di chi osserva - con il rischio di rimanerne completamente assuefatti.
Happy Undergrowth provoca l’osservatore con delicatezza e lo disorienta con nonchalance - come il nastro da regalo intorno alle opere di Aisha Christison (1989, Margate, UK) - in armonia con lo stile dell’artista e dissonanza con le tematiche presentate. Slow cycle or drum mostra l’ipnotico ciclo di una lavatrice, soggetto posto fuori da ogni contesto a cui è possibile aggrapparsi. Così, cruda, non sembra più elemento domestico o funzionale, corrompendo la comfort zone visiva e andando a inclinare le coordinate di riconoscimento utili per ambientarsi nello spazio dell'opera. Si può scorgere attraverso il vetro un airone, o forse ne è il riflesso, temporaneo alter ego di chi sta osservando? Il contorno dell’animale si fonde con i panneggi presenti all’interno dell’oblò andando a completare l’opera ed elevando il senso di smarrimento che l’avvolge.
Il titolo della collettiva si ispira a un’opera di Davide Franca (1993, Pesaro, Italy), sottobosco da cui emergono molte delle sue figure, ibride e libere come nel disegno She has been seen me, the other retires because of the knowledge "I am seen". Sottobosco da cui si diramano le filamentose e feconde radici che troviamo in The regret of Laio e Giocasta e che proliferano tra i suoi protagonisti, spesso frutto della ricostruzione in chiave contemporanea della mitologia di Tebe. Franca rielabora la narrazione del mito e della storia come ci è sempre stata raccontata, sdogana il contraddittorio e il rovesciabile, come anche il segno ipocrita e la campitura inconcludente, facendo atterrare l’osservatore in un qui e ora sfuggente che carica di senso ogni domanda che queste visioni possono provocare.
Adam Lupton (1987, Vancouver, Canada) prende spunto da miti greci, rituali religiosi, testi rock, relazioni amorose e sociali, routine domestica, storia, introspezione e sessualità - le sue tele, tanto impermeabili quanto loquaci, sono come un labirinto dove lo spettatore può provare a perdersi. In Landscape With Branches And Figs, Lupton mette in scena un passo del libro La campana di vetro di Sylvia Plath, dove un albero di fichi diventa simbolo dell’indecisione cronica di fronte all’eccesso di possibili strade da intraprendere o scelte da fare nella vita. L’artista esplicita i disagi che la società contemporanea provoca all’essere umano, oggi in costante ricerca di approvazioni e garanzie, esplorando i disordini mentali come chiave di lettura del mondo esterno, per giungere a vere e proprie scoperte in una realtà folle.
Anousha Payne (1991, Southampton, UK) mette in discussione le gerarchie sottintese del nostro quotidiano abitare il mondo, ponendo sullo stesso piano gli elementi che ci circondano: oggetto e spazio, umano e animale, organico e inorganico, animato e inanimato, rendendo possibile uno scambio orizzontale e fluido tra questi. Anche grazie all’utilizzo delle libere associazioni e dell’automatismo psichico, la pratica di Payne emette simbolismo religioso e mostra l’idea di un comune sentire. Ogni sua opera ci ricorda che la quotidianità è costellata di veli di Maya e che il sapere, succube di aspre limitazioni e appiattimenti, può rivelarsi arbitrario o arrugginito.
Si può immaginare di danzare nel deserto e vedere il sole ballare con noi, un sole che luccica nella nostra direzione e infonde pianezza e sacralità. Il bagliore-simbolo in A morning star di David Hanes (1987, Toronto, Canada) pare accendere verità ancestrali; la struttura del dipinto, dai colori languidi e dal segno vibrante, è tanto essenziale quanto complessa e vale la pena meditare in una caverna spoglia con quest’opera appesa. Hanes si riallaccia al mito, alla religione, alla cultura zen, all’essenziale. Le tele sono impresse di mistica universalità e solenne semplicità, a tal punto che si può riuscire a visualizzare le stesse in qualche terra lontana e pura, dominata solo da spiriti guida e natura incontaminata.
Gli artisti in esposizione dimostrano che è possibile accedere a un sottobosco dove tutto si rivela esplicito e disinibito, quasi incontaminato, dove si celebra l’alterità, l’ambiguo e la rielaborazione, dove ci si può scambiare vicendevolmente le vite come Roberto Benigni e Steven Wright in Coffee and Cigarettes perchè, dopotutto - come dice lo Jago di Pasolini - noi siamo in un sogno dentro un sogno.
04
luglio 2022
Happy Undergrowth
Dal 04 luglio al primo settembre 2022
arte contemporanea
Evento online
Link di partecipazione
Orario di apertura
Online view: sempre visibile
Opere visibili in galleria su appuntamento via mail
Vernissage
4 Luglio 2022, 18:00 - 21:00
Sito web
Autore
Curatore
Autore testo critico