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Ho paura torero
Il 16 e il 17 aprile “Ho paura torero” è al Teatro Argentina di Roma. Accanto al protagonista e dramaturg Lino Guanciale recita Sara Putignano, a lungo accanto a Luca Ronconi al Centro Teatrale Santa Cristina.
La prof.ssa Floriana Conte recensisce lo spettacolo e dialoga con Putignano.
Comunicato stampa
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Recensione di "Ho paura torero" e dialogo con Sara Putignano di Floriana Conte (Università di Foggia e Accademia dell'Arcadia)
C'era il rischio di fare della Fata dell'angolo una macchietta buona per ogni palato allenato da decenni di fate ignoranti e mine vaganti; invece Lino Guanciale si è cucito addosso il ruolo migliore della carriera trasformandosi (non "travestendosi") nel travestito più famoso della narrativa sudamericana: un sentimentale violentato dal padre ma non abbruttito da una vita violenta, che per un amore quasi asessuato mette a rischio la vita. Un dolente di mezza età che ricorda i fasti alla Marilyn della giovinezza e che si guadagna da vivere dignitosamente come un'Aracne dei bassifondi (ma non era, forse, la dotatissima tessitrice "famosa perché era un'artista", scrive Ovidio di Aracne nelle Metamorfosi?). Guanciale commuove, è ironico, seduce con una bellezza ambigua infantile sfuggente issata su plateau, accomodata in un paio di sneakers nere, fasciata in calze di pizzo che sbucano da quei leggings che nel 1986 in cui si svolge la storia di erotismo e politica chiamavamo fuseaux. Il risultato, delicato e pregnante, si deve anche al pensiero costante di Guanciale per sua madre mentre preparava il ruolo (lo ha detto a Peter Gomez durante un’intervista per La confessione).
Convince l'adattamento teatrale dell'unico, barocco romanzo dello scrittore e performer Pedro Lemebel, Ho paura torero, con la regia ronconiana di Claudio Longhi (che in omaggio al maestro ma senza vezzi concettuali recupera anche le macchine sceniche semoventi) e il lavoro di dramaturg di Guanciale. I dialoghi sono quelli del libro, le parti narrative ed ecfrastiche pure, in un adattamento alla scena in cui i personaggi parlano di sé in terza persona: ed è un altro degli aspetti ronconiani di questo spettacolo. Ho paura torero nasce dalla passione di Guanciale per la narrativa sudamericana e dal regalo del romanzo scelto per lui da sua moglie. Più di decine di proclami contemporanei per la cosiddetta inclusione e contro i fascismi, lo spettacolo e il romanzo sono politica attiva e coraggiosa.
Ho paura torero ha anche uno dei migliori libretti di sala della stagione al Piccolo Teatro, tessuto com’è anche su vere e proprie spiegazioni didattico-didascaliche di Longhi e Guanciale su come si realizza una drammaturgia ronconiana e, nello specifico, su come è stata realizzata quella dal romanzo di Lemebel.
Il cast è caldo e affiatato sia al Teatro Strehler di Milano sia all’Argentina di Roma, dove, forse, lo spazio accoglie ancora meglio la complessa scenografia e gli sfondamenti frequenti della quarta parete, nei quali ha posto perfino un’inquadratura di Sara Putignano, emergente da uno dei palchetti, illuminata come in uno dei più famosi ritratti femminili alla finestra che parlano spagnolo, Las galegas di Murrillo.
Spicca nel cast, corale e affiatato, proprio la pirotecnica Putignano, nata nello stesso 1986 durante il quale si svolge Ho paura torero. Putignano è la signora Pinochet, quella Doña Lucia che fu una sorta di cardinal Mazzarino alle spalle del marito dittatore. L’attrice è esilarante fino a sconfinare in un tragico alla Lady Macbeth, tutta Dior e urlatacce al marito generale (un altrettanto bravissimo Mario Pirrello, reduce da Esterno notte di Marco Bellocchio). Ricorda tanto certe signore della politica dei nostri tempi oscuri.
Pugliese di Martina Franca, con una mamma che lavora in un asilo nido e un padre che ha un albergo, Putignano si è scoperta attrice da adolescente. Ama molto la terra dalla quale da ragazzina voleva scappare verso qualcosa che poi si è rivelato il teatro (geografia e storia ci accomunano, entriamo in facile sintonia). Scopre il palcoscenico da adolescente, stando immobile come comparsa al Festival della Valle d’Itria (un impegno statico che ha causato un’allergia irrevocabile per l’opera) e recitando in laboratori della Fondazione Paolo Grassi, intitolata al fondatore martinese del Piccolo Teatro di Milano. Ama il teatro che possa essere capito da tutti ma anche la drammaturgia contemporanea, che ha molto praticato.
Putignano entra nel cast di Ho paura torero sostituendo Arianna Scommegna e la nuova Doña Lucia si rivela una scelta azzeccatissima.
F. C. Emanate tutti una forte alchimia, dal palco.
S. P. L’alchimia collettiva è stata fondamentale perché all’inizio delle prove Claudio [Longhi] si è ammalato. Ero spaventata dal personaggio che ho in Ho paura torero perché è un tipo che non ho mai fatto. Sono sempre molto grata ai registi che mi offrono delle sfide. Però quando fai un personaggio già recitato da una collega hai paura dell’imitazione. Poi diventa una cosa naturale, ti metti una maschera e capisci quali sono i punti di contatto con te, anche grazie a un testo ben scritto. Ho debuttato quasi in solitudine e, se la compagnia non mi avesse sostenuto, mi sarei sentita persa. Vedevo i colleghi e i tecnici che tifavano per me dietro le quinte durante le prove. Mi ha agevolato anche avere lavorato già due volte con Mario Pirrello, c’è stata subito una complicità particolare e ci divertiamo, anche se interpretiamo due personaggi che sono isole. In questa compagnia c’è l’idea di lavorare per l’altro. Spesso nelle compagnie uno cerca di sovrastare l’altro. Qui invece c’è grande rispetto, lavoriamo per lo spettacolo, per una storia, per sostenerci, senza protagonismo.
Come hai lavorato sulla voce?
Per me il testo viene prima di tutto. Lemebel nel romanzo definisce Doña Lucia “un grammofono stonato”, “una cocorita”, con richiami al mondo animale. Questa voce doveva entrare martellante nella testa del marito dittatore, che a sua volta la descrive come una voce assillante. Arianna aveva fatto un lavoro particolare sulla voce e io sono riuscita a prendere alcune sua bellissime intuizioni e poi a farle mie. Chi ha visto lo spettacolo l’anno scorso e quest’anno dice: “è bellissimo vedere lo stesso disegno abitato in maniera completamente diversa”. La cosa difficile di questo personaggio è riuscire a trovare un equilibrio: il rischio è scadere nel grottesco, anche se viene raccontato così nel testo. Dovevo far venire fuori la pericolosità della vacuità umana, la violenza di questa donna che cerca sempre di ottenere qualcosa di più. Aveva come mito la Tatcher, voleva essere alla moda, aveva una sete di potere che si trasforma nella ricerca di cose superficiali. Lavorare su un personaggio veramente esistito mi porta a immaginare una sua biografia perché le battute sono solo la punta di un iceberg di un mondo. La biografia è ciò che muove un corpo, uno sguardo. Avere già una biografia a cui attingere mi ha portato anche a lavorare per sottrazione.
Segui un training per la voce prima dello spettacolo?
Il training cambia per ogni spettacolo e me lo creo autonomamente. Ho paura torero è impegnativo dal punto di vista vocale anche perché non usiamo i microfoni e ci sono le musiche. Poi io indosso costumi pesanti, di lana, pelliccia… Faccio un riscaldamento fisico come mezz’ora di yoga perché, se la voce non trova il corpo in cui viaggiare, il riscaldamento vocale da solo serve a poco. In tutto più o meno tre quarti d’ora. Penso che bisogna sempre preparare il corpo. umana. Io sono anche un’appassionata di drammaturgia contemporanea nella quale erroneamente si pensa che si debba buttarla un po’ via. In realtà anche là ci vuole un corpo non distante da quello che si usa nel teatro tradizionale.
Quando hai scoperto di avere doti comiche come quelle che dimostri in Ho paura torero?
In Accademia la nostra insegnante di improvvisazione, Rosa Masciopinto, ci aveva fatto inventare dei personaggi e mi rendevo conto che il mio faceva molto ridere. Mi emozionavo perché mi piace molto riuscire a far ridere e mi piace divertirmi nella vita. Luca Ronconi era molto amante dell’ironia, era simpaticissimo, raccontava delle storie che facevano morire dal ridere e quindi con lui l’ho sperimentato un sacco: la Madre [dei Sei personaggi in cerca d’autore] faceva ridere. Dopo pranzo o dopo cena lo raggiungevamo e ci raccontava degli aneddoti.
In questo lavoro così ronconiano avrai portato proprio il bagaglio di esperienze che hai vissuto con Luca Ronconi.
Sicuramente il lavoro con Ronconi è stato fondamentale. Soprattutto per quanto riguarda il lavoro sulla terza persona, perché si tratta della riduzione teatrale di un romanzo. C’è continuamente questo passaggio tra la prima e la terza persona. Con Ronconi ci ho lavorato tanto. Ho fatto solo Sei personaggi in cerca d’autore con lui, però mi ha sempre richiamata al Centro Teatrale Santa Cristina [https://www.ctsantacristina.it/] per 8 estati di fila. Era bellissimo perché si trattava di un laboratorio su vari testi, come le Fiabe di Andersen.
Ronconi amava tanto La teiera…
Sì: ci ha fatto lavorare tantissimo su quanto è importante assumere un punto di vista su quello che racconti. Quindi, come può cambiare la storia della teiera se a parlare è la teiera, o se a parlare sono le tazzine, o se a parlare è la tovaglia, o se a parlare è la mano che fa cadere la teiera? Quindi un racconto che cambia in base al punto da cui scegli di guardare. Questo è il primo compito per potere trattare ciò che dico, altrimenti diventa didascalico. Diventa un doppio salto mortale come attrice perché entri ed esci dal personaggio, puoi commentarlo. In questo senso il personaggio di Mario Pirrello, che interpreta Pinochet, è ancora più emblematico, perché la terza persona permette di dare voce al pensiero. Infatti se questo Pinochet fosse in un film probabilmente non parlerebbe mai; invece qua ha la possibilità di dare voce a pensieri, voce, incubi, al miscuglio tra realtà e sogno.
Come hai intrecciato la formazione all’Accademia d’Arte drammatica Silvio d’Amico a quella con Ronconi?
Mi sono diplomata alla Silvio D’Amico nel 2010. Ci diedero la possibilità di scegliere come saggio di diploma uno spettacolo con un grande regista oppure un laboratorio con Ronconi al Santa Cristina. Quell’anno abbiamo lavorato sul Candelaio di Giordano Bruno e sul primo atto dei Sei personaggi in cerca d’autore. La nostra classe era divisa in famiglie e recitavamo tutti il primo atto. C’è stata una prova aperta e il pubblico era molto colpito. Ci è stato chiesto di portare avanti il lavoro. Ronconi si è lasciato coinvolgere dall’idea e, per gli anni successivi, abbiamo lavorato sul secondo e sul terzo atto, per stratificazione, fino a che lo spettacolo è andato a Spoleto, poi in tournée, poi al Piccolo Teatro. Il lavoro con lui è stato l’esperienza più incredibile della mia vita dal punto di vista teatrale, un po’ per come si è sviluppata nel tempo, un po’ perché un regista come Luca Ronconi a vent’anni mi chiede di fare la madre nei Sei personaggi! Fu tutto un lavoro sulla maschera e già sull’ambiente sonoro. Iniziai a fare le prime esperienze di un lavoro sulla voce perché quello che lui chiedeva era millimetrico. Il lavoro con lui era come passare per la cruna di un ago: dopo che passavi per quella cruna, scoprivi che c’era un mondo di libertà. Eravamo a lezione con i registratori per memorizzare il suono che Ronconi ci chiedeva. Ciò che lui diceva sulla Madre era: “Attenta, perché è un attimo che la perdita si trasforma in piagnisteo, e sono due suoni diversi”, perché doveva essere un lamento continuo di queste figure immobilizzate nel tempo in questo dolore per la perdita, la sofferenza. Nel passaggio da un anno all’altro avevo perso quel suono e sono impazzita perché non riuscivo più a ritrovarlo.
Lo hai perso solo a causa del tempo o per ragioni tecniche/fisiche?
Era passato del tempo e rientrare era difficile. Poi ho capito che un lavoro sulla voce non può prescindere dal lavoro sul corpo. Si parla sempre dei “toni ronconiani”. Ma in realtà Ronconi era corpo: anche quando era in dialisi ci faceva vedere le cose col corpo. Se tu non hai un corpo di un certo tipo, quel suono non arriva. Io ho scoperto che era semplicemente un mio muscolo della faccia che era spostato e che, invece di essere così era così, e questo cambiava completamente il suono. Bisogna anche sentire subito la scena come un luogo da abitare molto profondo, con la sensazione fisica dello spazio come un materiale denso da attraversare che impone una presenza scenica. Ronconi diceva: “Pensate che le battute devono essere qualcosa che taglia il silenzio”.
Hai già avuto occasione di restituire come docente questi insegnamenti?
Finita l’Accademia avevamo fondato una compagnia, la Blu teatro, ma era difficile sostenersi. Una parte del gruppo ha fondato una scuola, la Blu Lab. Non ne faccio parte come socia ma ogni tanto collaboro come insegnante. Faccio anche lezioni in un’altra scuola, The Circle Acting Studio, fondata da altri colleghi che ho conosciuto in Accademia e da un nostro insegnante.
Quando incontro dei giovani attori io dico: “Io vi offro quello che per me è stato utile, la mia esperienza”. Al mio ingresso in Accademia avevo vissuto un’occupazione per svecchiare il sistema. Noi siamo stati i primi a usufruire di una didattica di tipo laboratoriale. Abbiamo lavorato con registi molto diversi: Nekrošius, Binasco, Ronconi e i nostri insegnanti come Lorenzo Salveti. Ognuno portava un mondo completamente diverso. E quando tu sei studente hai bisogno di avere risposte chiare su cosa è il teatro e su come si fa. Poi scopri che ognuno porta un modo di viverlo e ognuno prende tutto quello che in qualche modo gli è utile.
Con Ronconi al Santa Cristina il lavoro era molto libero. Chi ha vissuto Ronconi esclusivamente come regista ha vissuto un’altra persona. Noi abbiamo vissuto un Ronconi sperimentatore, libero. Ogni anno al Santa Cristina era diverso. A volte chiedeva anche a noi di fare delle proposte. Quindi ciò che cerco di passare è che si tratta di un lavoro in cui ci deve essere anche una compromissione che non può lasciare mai indifferenti. Quindi bisogna cercare di spingersi sempre al di là del limite. In questo Ronconi è stato un grande maestro. Mi ha fatto arrivare a zone dove non immaginavo che sarei arrivata. Era importante il tentativo, non l’obiettivo, e il non sentirsi mai comodi in quello che si fa, cercando una zona di pericolo. Il nostro paese ha vissuto varie tradizioni. A un certo punto il teatro di regia ha creato derive in questo mestiere. Invece in Inghilterra l’idea di recitazione è univoca. Nessuno si chiede, quando va a lavorare con un regista, “come la vorrà?”. Focalizzarsi su un solo modo è già un errore di per sé, perché la recitazione dovrebbe avere dei pilastri fondanti: a prescindere dalla forma, questi pilastri si fondano soprattutto sulla dinamica umana con quello che fai, con quello che dici, con i colleghi, per riuscire a farsi attraversare anche da cose intangibili. Si deve lavorare sulla forza della relazione
Sei cresciuta a Martina Franca, un luogo fortemente intriso della memoria di Paolo Grassi e connotato da uno dei Festival operistici più famosi d’Italia. Quanto ha contato la tua terra d’origine nella tua vocazione?
Ho un fratello trasferito in Francia da 10 anni e a volte ci ritroviamo in Francia tutti insieme, ma a Martina torno appena posso. Lì l’amore per il teatro è nato prima di avere conosciuto il teatro. Ho realizzato dopo che facevo le cose istintivamente che cosa facevo davvero. Sicuramente essere cresciuta a Martina è stato importante perché era il luogo della memoria di Paolo Grassi, c’era un’associazione che organizzava dei laboratori, soprattutto c’era il Festival della Valle d’Itria. In estate, quando non avevo nulla da fare, mi presentavo alle selezioni per le comparse nelle opere. Quelle sono state le mie prime esperienze di palco da adolescente. Vedevo tutta la macchina, i costumisti che mi vestivano, ma mi annoiavo terribilmente perché dovevo stare 3 ore a fare l’ancella col velo in mano. Forse questo ha contribuito al fatto che non ho sviluppato un grande amore per le opere liriche [ridiamo]! Anche il teatro scolastico è stato importante perché ho trovato delle insegnanti che amavano molto il teatro e quelle esperienze mi facevano provare a uscire fuori da me stessa, per mettermi nei panni di altri, per sperimentare altre vite in una città che mi stava molto stretta. Era come se avessi paura a vivere lì, dove qualsiasi scelta era giudicata. Per 18 anni una parte di me non ha vissuto perché avevo paura. Ero anche molto timida (non sto ripetendo il cliché dell’attrice timida, era davvero così). La mia esperienza di allora mi ha convinto che il teatro dovrebbe essere una materia obbligatoria nelle scuole perché ti aiuta a metterti nei panni di qualcun altro, che è un esercizio che abbiamo dimenticato. E poi ti permette di accedere a libri importanti e a zone di te stesso che altrimenti non conosceresti.
Quindi prima di entrare in Accademia hai frequentato i teatri di prosa?
Sono un caso anomalo. Quando sono arrivata a Roma volevo fare teatro ma non avevo mai visto uno spettacolo teatrale. Ho visto il primo a 18 anni: mi portarono al Sistina, Le tre caravelle di Preziosi. Non ho avuto una folgorazione ma mi piaceva il gioco del teatro. Però mia madre voleva che facessi l’università, quindi ho fatto 2 anni a Lettere e filosofia e in parallelo una scuola di teatro vicino casa. Per la prima volta ho avuto la possibilità di confrontarmi con insegnanti che avevano fatto l’Accademia e di vedere che quello che facevo aveva un effetto. Devo molto a quella scuola: sono stata incoraggiata a fare provini. Il secondo anno costava di più e non potevo permetterla ma una mia compagna mi disse: “Stiamo facendo il corso di preparazione ai provini in gruppo, che costa meno. Perché non provi?”. Volevo andare a fare la Scuola a Genova perché la recitazione degli attori di Genova mi piaceva molto. Ma non sapevo molto. In Accademia c’era una prova scritta, che ora non c’è più. Bisognava scrivere 3 nomi di registi con cui si voleva lavorare e titoli di spettacoli che avevo visto. Io non sapevo niente e chiedevo suggerimenti. Mi dicevano: “Ronconi!”. E io: “Come?” [ridiamo] Quindi scrissi: “Ronconi, Lavia”, che erano i nomi più gettonati. Mi sono presentata a Genova ma è andata male, invece in Accademia sono entrata ma ho dovuto fare la rinuncia agli studi perché la frequenza era equipollente a una laurea triennale. Non mi avevano detto c’era la possibilità del congelamento, avrei potuto finire dopo…Comunque mia madre si pacificò.
Hai progetti di regia o di scrittura drammaturgica?
Il teatro mi sembra uno strumento per educare alla sensibilità in un momento storico in cui tutto va alla deriva. Se ci dovesse essere un incontro con un testo o con delle persone, non nascondo che potrei diventare parte attiva al di là di essere scelta. Ma penso che ogni mestiere abbia delle specificità preziose e fare il regista o scrivere significa fare dei lavori a tutto tondo. Preferisco essere un’interprete che sposa dei progetti.
E il cinema?
Il teatro ti blocca per lunghi periodi. Ci sono state esperienze al cinema e in tv intense ma aspetto ancora l’incontro folgorante con un progetto o un regista, dove senti che gran parte del tuo potenziale è stato espresso. Il mezzo risponde a regole diverse e si conosce facendolo, anche perché è un mezzo di conoscenza. Impone di avere a che fare con la mia immagine da vicino, con la quale non ho molta confidenza. Per me il luogo del teatro è più gestibile rispetto a una macchina da presa che ti impone di avere uno sguardo su te stessa molto diverso. La macchina da presa legge tutto, il disagio nei confronti di te stesso, se ce l’hai, viene fuori. All’inizio ero frustrata dal fatto che su cinema e tv non puoi più agire, quando sono finiti. Ma aiuta anche a lasciare andare le cose. Il cinema è un desiderio da realizzare.
(Le foto sono di Masiar Pasquali)
C'era il rischio di fare della Fata dell'angolo una macchietta buona per ogni palato allenato da decenni di fate ignoranti e mine vaganti; invece Lino Guanciale si è cucito addosso il ruolo migliore della carriera trasformandosi (non "travestendosi") nel travestito più famoso della narrativa sudamericana: un sentimentale violentato dal padre ma non abbruttito da una vita violenta, che per un amore quasi asessuato mette a rischio la vita. Un dolente di mezza età che ricorda i fasti alla Marilyn della giovinezza e che si guadagna da vivere dignitosamente come un'Aracne dei bassifondi (ma non era, forse, la dotatissima tessitrice "famosa perché era un'artista", scrive Ovidio di Aracne nelle Metamorfosi?). Guanciale commuove, è ironico, seduce con una bellezza ambigua infantile sfuggente issata su plateau, accomodata in un paio di sneakers nere, fasciata in calze di pizzo che sbucano da quei leggings che nel 1986 in cui si svolge la storia di erotismo e politica chiamavamo fuseaux. Il risultato, delicato e pregnante, si deve anche al pensiero costante di Guanciale per sua madre mentre preparava il ruolo (lo ha detto a Peter Gomez durante un’intervista per La confessione).
Convince l'adattamento teatrale dell'unico, barocco romanzo dello scrittore e performer Pedro Lemebel, Ho paura torero, con la regia ronconiana di Claudio Longhi (che in omaggio al maestro ma senza vezzi concettuali recupera anche le macchine sceniche semoventi) e il lavoro di dramaturg di Guanciale. I dialoghi sono quelli del libro, le parti narrative ed ecfrastiche pure, in un adattamento alla scena in cui i personaggi parlano di sé in terza persona: ed è un altro degli aspetti ronconiani di questo spettacolo. Ho paura torero nasce dalla passione di Guanciale per la narrativa sudamericana e dal regalo del romanzo scelto per lui da sua moglie. Più di decine di proclami contemporanei per la cosiddetta inclusione e contro i fascismi, lo spettacolo e il romanzo sono politica attiva e coraggiosa.
Ho paura torero ha anche uno dei migliori libretti di sala della stagione al Piccolo Teatro, tessuto com’è anche su vere e proprie spiegazioni didattico-didascaliche di Longhi e Guanciale su come si realizza una drammaturgia ronconiana e, nello specifico, su come è stata realizzata quella dal romanzo di Lemebel.
Il cast è caldo e affiatato sia al Teatro Strehler di Milano sia all’Argentina di Roma, dove, forse, lo spazio accoglie ancora meglio la complessa scenografia e gli sfondamenti frequenti della quarta parete, nei quali ha posto perfino un’inquadratura di Sara Putignano, emergente da uno dei palchetti, illuminata come in uno dei più famosi ritratti femminili alla finestra che parlano spagnolo, Las galegas di Murrillo.
Spicca nel cast, corale e affiatato, proprio la pirotecnica Putignano, nata nello stesso 1986 durante il quale si svolge Ho paura torero. Putignano è la signora Pinochet, quella Doña Lucia che fu una sorta di cardinal Mazzarino alle spalle del marito dittatore. L’attrice è esilarante fino a sconfinare in un tragico alla Lady Macbeth, tutta Dior e urlatacce al marito generale (un altrettanto bravissimo Mario Pirrello, reduce da Esterno notte di Marco Bellocchio). Ricorda tanto certe signore della politica dei nostri tempi oscuri.
Pugliese di Martina Franca, con una mamma che lavora in un asilo nido e un padre che ha un albergo, Putignano si è scoperta attrice da adolescente. Ama molto la terra dalla quale da ragazzina voleva scappare verso qualcosa che poi si è rivelato il teatro (geografia e storia ci accomunano, entriamo in facile sintonia). Scopre il palcoscenico da adolescente, stando immobile come comparsa al Festival della Valle d’Itria (un impegno statico che ha causato un’allergia irrevocabile per l’opera) e recitando in laboratori della Fondazione Paolo Grassi, intitolata al fondatore martinese del Piccolo Teatro di Milano. Ama il teatro che possa essere capito da tutti ma anche la drammaturgia contemporanea, che ha molto praticato.
Putignano entra nel cast di Ho paura torero sostituendo Arianna Scommegna e la nuova Doña Lucia si rivela una scelta azzeccatissima.
F. C. Emanate tutti una forte alchimia, dal palco.
S. P. L’alchimia collettiva è stata fondamentale perché all’inizio delle prove Claudio [Longhi] si è ammalato. Ero spaventata dal personaggio che ho in Ho paura torero perché è un tipo che non ho mai fatto. Sono sempre molto grata ai registi che mi offrono delle sfide. Però quando fai un personaggio già recitato da una collega hai paura dell’imitazione. Poi diventa una cosa naturale, ti metti una maschera e capisci quali sono i punti di contatto con te, anche grazie a un testo ben scritto. Ho debuttato quasi in solitudine e, se la compagnia non mi avesse sostenuto, mi sarei sentita persa. Vedevo i colleghi e i tecnici che tifavano per me dietro le quinte durante le prove. Mi ha agevolato anche avere lavorato già due volte con Mario Pirrello, c’è stata subito una complicità particolare e ci divertiamo, anche se interpretiamo due personaggi che sono isole. In questa compagnia c’è l’idea di lavorare per l’altro. Spesso nelle compagnie uno cerca di sovrastare l’altro. Qui invece c’è grande rispetto, lavoriamo per lo spettacolo, per una storia, per sostenerci, senza protagonismo.
Come hai lavorato sulla voce?
Per me il testo viene prima di tutto. Lemebel nel romanzo definisce Doña Lucia “un grammofono stonato”, “una cocorita”, con richiami al mondo animale. Questa voce doveva entrare martellante nella testa del marito dittatore, che a sua volta la descrive come una voce assillante. Arianna aveva fatto un lavoro particolare sulla voce e io sono riuscita a prendere alcune sua bellissime intuizioni e poi a farle mie. Chi ha visto lo spettacolo l’anno scorso e quest’anno dice: “è bellissimo vedere lo stesso disegno abitato in maniera completamente diversa”. La cosa difficile di questo personaggio è riuscire a trovare un equilibrio: il rischio è scadere nel grottesco, anche se viene raccontato così nel testo. Dovevo far venire fuori la pericolosità della vacuità umana, la violenza di questa donna che cerca sempre di ottenere qualcosa di più. Aveva come mito la Tatcher, voleva essere alla moda, aveva una sete di potere che si trasforma nella ricerca di cose superficiali. Lavorare su un personaggio veramente esistito mi porta a immaginare una sua biografia perché le battute sono solo la punta di un iceberg di un mondo. La biografia è ciò che muove un corpo, uno sguardo. Avere già una biografia a cui attingere mi ha portato anche a lavorare per sottrazione.
Segui un training per la voce prima dello spettacolo?
Il training cambia per ogni spettacolo e me lo creo autonomamente. Ho paura torero è impegnativo dal punto di vista vocale anche perché non usiamo i microfoni e ci sono le musiche. Poi io indosso costumi pesanti, di lana, pelliccia… Faccio un riscaldamento fisico come mezz’ora di yoga perché, se la voce non trova il corpo in cui viaggiare, il riscaldamento vocale da solo serve a poco. In tutto più o meno tre quarti d’ora. Penso che bisogna sempre preparare il corpo. umana. Io sono anche un’appassionata di drammaturgia contemporanea nella quale erroneamente si pensa che si debba buttarla un po’ via. In realtà anche là ci vuole un corpo non distante da quello che si usa nel teatro tradizionale.
Quando hai scoperto di avere doti comiche come quelle che dimostri in Ho paura torero?
In Accademia la nostra insegnante di improvvisazione, Rosa Masciopinto, ci aveva fatto inventare dei personaggi e mi rendevo conto che il mio faceva molto ridere. Mi emozionavo perché mi piace molto riuscire a far ridere e mi piace divertirmi nella vita. Luca Ronconi era molto amante dell’ironia, era simpaticissimo, raccontava delle storie che facevano morire dal ridere e quindi con lui l’ho sperimentato un sacco: la Madre [dei Sei personaggi in cerca d’autore] faceva ridere. Dopo pranzo o dopo cena lo raggiungevamo e ci raccontava degli aneddoti.
In questo lavoro così ronconiano avrai portato proprio il bagaglio di esperienze che hai vissuto con Luca Ronconi.
Sicuramente il lavoro con Ronconi è stato fondamentale. Soprattutto per quanto riguarda il lavoro sulla terza persona, perché si tratta della riduzione teatrale di un romanzo. C’è continuamente questo passaggio tra la prima e la terza persona. Con Ronconi ci ho lavorato tanto. Ho fatto solo Sei personaggi in cerca d’autore con lui, però mi ha sempre richiamata al Centro Teatrale Santa Cristina [https://www.ctsantacristina.it/] per 8 estati di fila. Era bellissimo perché si trattava di un laboratorio su vari testi, come le Fiabe di Andersen.
Ronconi amava tanto La teiera…
Sì: ci ha fatto lavorare tantissimo su quanto è importante assumere un punto di vista su quello che racconti. Quindi, come può cambiare la storia della teiera se a parlare è la teiera, o se a parlare sono le tazzine, o se a parlare è la tovaglia, o se a parlare è la mano che fa cadere la teiera? Quindi un racconto che cambia in base al punto da cui scegli di guardare. Questo è il primo compito per potere trattare ciò che dico, altrimenti diventa didascalico. Diventa un doppio salto mortale come attrice perché entri ed esci dal personaggio, puoi commentarlo. In questo senso il personaggio di Mario Pirrello, che interpreta Pinochet, è ancora più emblematico, perché la terza persona permette di dare voce al pensiero. Infatti se questo Pinochet fosse in un film probabilmente non parlerebbe mai; invece qua ha la possibilità di dare voce a pensieri, voce, incubi, al miscuglio tra realtà e sogno.
Come hai intrecciato la formazione all’Accademia d’Arte drammatica Silvio d’Amico a quella con Ronconi?
Mi sono diplomata alla Silvio D’Amico nel 2010. Ci diedero la possibilità di scegliere come saggio di diploma uno spettacolo con un grande regista oppure un laboratorio con Ronconi al Santa Cristina. Quell’anno abbiamo lavorato sul Candelaio di Giordano Bruno e sul primo atto dei Sei personaggi in cerca d’autore. La nostra classe era divisa in famiglie e recitavamo tutti il primo atto. C’è stata una prova aperta e il pubblico era molto colpito. Ci è stato chiesto di portare avanti il lavoro. Ronconi si è lasciato coinvolgere dall’idea e, per gli anni successivi, abbiamo lavorato sul secondo e sul terzo atto, per stratificazione, fino a che lo spettacolo è andato a Spoleto, poi in tournée, poi al Piccolo Teatro. Il lavoro con lui è stato l’esperienza più incredibile della mia vita dal punto di vista teatrale, un po’ per come si è sviluppata nel tempo, un po’ perché un regista come Luca Ronconi a vent’anni mi chiede di fare la madre nei Sei personaggi! Fu tutto un lavoro sulla maschera e già sull’ambiente sonoro. Iniziai a fare le prime esperienze di un lavoro sulla voce perché quello che lui chiedeva era millimetrico. Il lavoro con lui era come passare per la cruna di un ago: dopo che passavi per quella cruna, scoprivi che c’era un mondo di libertà. Eravamo a lezione con i registratori per memorizzare il suono che Ronconi ci chiedeva. Ciò che lui diceva sulla Madre era: “Attenta, perché è un attimo che la perdita si trasforma in piagnisteo, e sono due suoni diversi”, perché doveva essere un lamento continuo di queste figure immobilizzate nel tempo in questo dolore per la perdita, la sofferenza. Nel passaggio da un anno all’altro avevo perso quel suono e sono impazzita perché non riuscivo più a ritrovarlo.
Lo hai perso solo a causa del tempo o per ragioni tecniche/fisiche?
Era passato del tempo e rientrare era difficile. Poi ho capito che un lavoro sulla voce non può prescindere dal lavoro sul corpo. Si parla sempre dei “toni ronconiani”. Ma in realtà Ronconi era corpo: anche quando era in dialisi ci faceva vedere le cose col corpo. Se tu non hai un corpo di un certo tipo, quel suono non arriva. Io ho scoperto che era semplicemente un mio muscolo della faccia che era spostato e che, invece di essere così era così, e questo cambiava completamente il suono. Bisogna anche sentire subito la scena come un luogo da abitare molto profondo, con la sensazione fisica dello spazio come un materiale denso da attraversare che impone una presenza scenica. Ronconi diceva: “Pensate che le battute devono essere qualcosa che taglia il silenzio”.
Hai già avuto occasione di restituire come docente questi insegnamenti?
Finita l’Accademia avevamo fondato una compagnia, la Blu teatro, ma era difficile sostenersi. Una parte del gruppo ha fondato una scuola, la Blu Lab. Non ne faccio parte come socia ma ogni tanto collaboro come insegnante. Faccio anche lezioni in un’altra scuola, The Circle Acting Studio, fondata da altri colleghi che ho conosciuto in Accademia e da un nostro insegnante.
Quando incontro dei giovani attori io dico: “Io vi offro quello che per me è stato utile, la mia esperienza”. Al mio ingresso in Accademia avevo vissuto un’occupazione per svecchiare il sistema. Noi siamo stati i primi a usufruire di una didattica di tipo laboratoriale. Abbiamo lavorato con registi molto diversi: Nekrošius, Binasco, Ronconi e i nostri insegnanti come Lorenzo Salveti. Ognuno portava un mondo completamente diverso. E quando tu sei studente hai bisogno di avere risposte chiare su cosa è il teatro e su come si fa. Poi scopri che ognuno porta un modo di viverlo e ognuno prende tutto quello che in qualche modo gli è utile.
Con Ronconi al Santa Cristina il lavoro era molto libero. Chi ha vissuto Ronconi esclusivamente come regista ha vissuto un’altra persona. Noi abbiamo vissuto un Ronconi sperimentatore, libero. Ogni anno al Santa Cristina era diverso. A volte chiedeva anche a noi di fare delle proposte. Quindi ciò che cerco di passare è che si tratta di un lavoro in cui ci deve essere anche una compromissione che non può lasciare mai indifferenti. Quindi bisogna cercare di spingersi sempre al di là del limite. In questo Ronconi è stato un grande maestro. Mi ha fatto arrivare a zone dove non immaginavo che sarei arrivata. Era importante il tentativo, non l’obiettivo, e il non sentirsi mai comodi in quello che si fa, cercando una zona di pericolo. Il nostro paese ha vissuto varie tradizioni. A un certo punto il teatro di regia ha creato derive in questo mestiere. Invece in Inghilterra l’idea di recitazione è univoca. Nessuno si chiede, quando va a lavorare con un regista, “come la vorrà?”. Focalizzarsi su un solo modo è già un errore di per sé, perché la recitazione dovrebbe avere dei pilastri fondanti: a prescindere dalla forma, questi pilastri si fondano soprattutto sulla dinamica umana con quello che fai, con quello che dici, con i colleghi, per riuscire a farsi attraversare anche da cose intangibili. Si deve lavorare sulla forza della relazione
Sei cresciuta a Martina Franca, un luogo fortemente intriso della memoria di Paolo Grassi e connotato da uno dei Festival operistici più famosi d’Italia. Quanto ha contato la tua terra d’origine nella tua vocazione?
Ho un fratello trasferito in Francia da 10 anni e a volte ci ritroviamo in Francia tutti insieme, ma a Martina torno appena posso. Lì l’amore per il teatro è nato prima di avere conosciuto il teatro. Ho realizzato dopo che facevo le cose istintivamente che cosa facevo davvero. Sicuramente essere cresciuta a Martina è stato importante perché era il luogo della memoria di Paolo Grassi, c’era un’associazione che organizzava dei laboratori, soprattutto c’era il Festival della Valle d’Itria. In estate, quando non avevo nulla da fare, mi presentavo alle selezioni per le comparse nelle opere. Quelle sono state le mie prime esperienze di palco da adolescente. Vedevo tutta la macchina, i costumisti che mi vestivano, ma mi annoiavo terribilmente perché dovevo stare 3 ore a fare l’ancella col velo in mano. Forse questo ha contribuito al fatto che non ho sviluppato un grande amore per le opere liriche [ridiamo]! Anche il teatro scolastico è stato importante perché ho trovato delle insegnanti che amavano molto il teatro e quelle esperienze mi facevano provare a uscire fuori da me stessa, per mettermi nei panni di altri, per sperimentare altre vite in una città che mi stava molto stretta. Era come se avessi paura a vivere lì, dove qualsiasi scelta era giudicata. Per 18 anni una parte di me non ha vissuto perché avevo paura. Ero anche molto timida (non sto ripetendo il cliché dell’attrice timida, era davvero così). La mia esperienza di allora mi ha convinto che il teatro dovrebbe essere una materia obbligatoria nelle scuole perché ti aiuta a metterti nei panni di qualcun altro, che è un esercizio che abbiamo dimenticato. E poi ti permette di accedere a libri importanti e a zone di te stesso che altrimenti non conosceresti.
Quindi prima di entrare in Accademia hai frequentato i teatri di prosa?
Sono un caso anomalo. Quando sono arrivata a Roma volevo fare teatro ma non avevo mai visto uno spettacolo teatrale. Ho visto il primo a 18 anni: mi portarono al Sistina, Le tre caravelle di Preziosi. Non ho avuto una folgorazione ma mi piaceva il gioco del teatro. Però mia madre voleva che facessi l’università, quindi ho fatto 2 anni a Lettere e filosofia e in parallelo una scuola di teatro vicino casa. Per la prima volta ho avuto la possibilità di confrontarmi con insegnanti che avevano fatto l’Accademia e di vedere che quello che facevo aveva un effetto. Devo molto a quella scuola: sono stata incoraggiata a fare provini. Il secondo anno costava di più e non potevo permetterla ma una mia compagna mi disse: “Stiamo facendo il corso di preparazione ai provini in gruppo, che costa meno. Perché non provi?”. Volevo andare a fare la Scuola a Genova perché la recitazione degli attori di Genova mi piaceva molto. Ma non sapevo molto. In Accademia c’era una prova scritta, che ora non c’è più. Bisognava scrivere 3 nomi di registi con cui si voleva lavorare e titoli di spettacoli che avevo visto. Io non sapevo niente e chiedevo suggerimenti. Mi dicevano: “Ronconi!”. E io: “Come?” [ridiamo] Quindi scrissi: “Ronconi, Lavia”, che erano i nomi più gettonati. Mi sono presentata a Genova ma è andata male, invece in Accademia sono entrata ma ho dovuto fare la rinuncia agli studi perché la frequenza era equipollente a una laurea triennale. Non mi avevano detto c’era la possibilità del congelamento, avrei potuto finire dopo…Comunque mia madre si pacificò.
Hai progetti di regia o di scrittura drammaturgica?
Il teatro mi sembra uno strumento per educare alla sensibilità in un momento storico in cui tutto va alla deriva. Se ci dovesse essere un incontro con un testo o con delle persone, non nascondo che potrei diventare parte attiva al di là di essere scelta. Ma penso che ogni mestiere abbia delle specificità preziose e fare il regista o scrivere significa fare dei lavori a tutto tondo. Preferisco essere un’interprete che sposa dei progetti.
E il cinema?
Il teatro ti blocca per lunghi periodi. Ci sono state esperienze al cinema e in tv intense ma aspetto ancora l’incontro folgorante con un progetto o un regista, dove senti che gran parte del tuo potenziale è stato espresso. Il mezzo risponde a regole diverse e si conosce facendolo, anche perché è un mezzo di conoscenza. Impone di avere a che fare con la mia immagine da vicino, con la quale non ho molta confidenza. Per me il luogo del teatro è più gestibile rispetto a una macchina da presa che ti impone di avere uno sguardo su te stessa molto diverso. La macchina da presa legge tutto, il disagio nei confronti di te stesso, se ce l’hai, viene fuori. All’inizio ero frustrata dal fatto che su cinema e tv non puoi più agire, quando sono finiti. Ma aiuta anche a lasciare andare le cose. Il cinema è un desiderio da realizzare.
(Le foto sono di Masiar Pasquali)
16
aprile 2025
Ho paura torero
Dal 16 al 17 aprile 2025
teatro
Location
TEATRO ARGENTINA
Roma, Largo Di Torre Argentina, 52, (Roma)
Roma, Largo Di Torre Argentina, 52, (Roma)
Biglietti
Consultare il sito del Teatro: https://www.teatrodiroma.net/spettacoli/stagione-2024-2025/teatro-argentina/ho-paura-torero/?gad_source=1&gclid=Cj0KCQjwqv2_BhC0ARIsAFb5Ac_DIHLQDBPHem2HxaBVzzga5Dg6OsdKTxSphipFlmjrTErRGW5_yZcaAoCUEALw_wcB
Orario di apertura
20:00. Per i dettagli, consultare il sito del Teatro Argentina: https://www.teatrodiroma.net/spettacoli/stagione-2024-2025/teatro-argentina/ho-paura-torero/?gad_source=1&gclid=Cj0KCQjwqv2_BhC0ARIsAFb5Ac_DIHLQDBPHem2HxaBVzzga5Dg6OsdKTxSphipFlmjrTErRGW5_yZcaAoCUEALw_wcB
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C’è un refuso: “5 estati”, non “8 estati”.