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Hotel des Etrangers. Dal Grand Tour ai Centri di accoglienza
Otto artisti stranieri che vivono in Sicilia, attraverso 40 opere che vanno dalla videoinstallazione, alla scultura, alla fiber art, all’arte oggettuale, alla fotografia, riflettono su un tema di grande attualità: quello dei “boat people”, i migranti che fuggono via mare dalla povertà, attraverso mezzi di fortuna.
Comunicato stampa
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Hotel des Etrangers
dal Grand Tour ai Centri di accoglienza
Giusi Diana
In Sicilia siamo tutti stranieri. Isola in mezzo al mare, terra di nessuno, approdo agognato fin dall'antichità per i popoli-naviganti del Mediterranneo, possiede una naturale familiarità con chi vi giunge da paesi lontani. Una straordinaria storia di transiti e di accoglienze, anche dolorose, talvolta imposte con la forza, ma sempre assorbite nel tessuto connettivo di un melting pot emblema di una possibile, pacifica convivenza tra i popoli.
Un miracolo che si ripete a distanza di secoli, ciclicamente, con gli antichi quartieri arabi dei centri storici che tornano a parlare una lingua mai totalmente rimossa, come a Mazara del Vallo o a Palermo. E altri nuovi che ne sorgono, come le tante piccole China Town che costellano di lanterne rosse le vie intitolate ai patrioti dell'Italia del Risorgimento. Il Ramadan e i riti della Settimana Santa, entrambi celebrati negli stessi vicoli, con lo stesso fervore, perfino con una adesione spirituale simile, votata alla penitenza e al raccoglimento.
Sicilia terra di stranieri dunque, e di artisti; da sempre. Nativi o immigrati, non importa. Per il fascino della sua storia, per la mitezza del suo clima, per l'esotismo del suo paesaggio, per caso o per scelta.
Il 2 aprile 1787 Johann Wolfgang Goethe sbarca a Palermo dal pacchetto "Tartaro" proveniente da Napoli. L'autore del "Faust" così scriverà in "Viaggio in Italia": La Sicilia mi indica e mi fa intendere l'Asia e l'Africa, e non è poca cosa trovarsi nel centro meraviglioso dove son diretti i tanti raggi della storia universale.
Dopo il grande poeta tedesco, certamente il più noto tra gli artisti stranieri che compirono il celebre Grand Tour nel '700, è la volta di un suo connazionale Richard Wagner che tra il novembre del 1881 e il marzo del 1882 risiedette a Palermo. Il celebre compositore nelle sale del Grand Hotel delle Palme completerà il "Parsifal" e incontrerà tra gli altri Pierre-August Renoir, che di ritorno dall'Algeria lo ritrasse in un celebre dipinto del 1882, il "Ritratto di Richard Wagner" oggi conservato al Musée d'Orsay di Parigi.
Fin qui la prima parte della storia; ma il paese dove fioriscono i limoni, per dirla ancora una volta con le parole di Goethe, negli ultimi dieci anni è diventato, oltre che meta privilegiata per viaggiatori di tutto il mondo, anche luogo di approdo per un popolo invisibile i boat people: uomini, donne e bambini che fuggono dalle guerre e dalla povertà, via mare, con mezzi di fortuna. Il Mediterraneo è di nuovo solcato da imbarcazioni come ai tempi dei fenici e dei greci, ma questa volta si tratta di barconi abbandonati alla deriva, con il loro carico umano, da trafficanti senza scrupoli. La Sicilia, primo avanposto d'Europa, rappresenta per i diseredati provenienti da Marocco, Sudan, Kurdistan e Bangladesh il miraggio a lungo accarezzato di una salvezza possibile, anche se irta di pericoli. Li chiamano "clandestini" e invece sono soltanto esseri umani, per loro la realtà è spesso più crudele di quanto avessero mai immaginato e il mare del Canale di Sicilia si trasforma in un liquido sudario. Anche quando c'è la fanno, e arrivano con il terrore fisso negli occhi e stremati dalla fatica sulle coste italiane, la sofferenza non cessa di accompagnare il loro dolente cammino.
Medici Senza Frontiere (MSF)1 a febbraio del 2010 ha presentato "Al di là dal muro" il suo secondo rapporto sui centri per migranti in Italia. Una babele di sigle per indicare i "Centri di identificazione ed espulsione" (CIE), i "Centri di accoglienza per richiedenti asilo" (CARA) e i "Centri di accoglienza" (CDA), 21 siti in tutto visitati da MSF per accertare le condizioni di vita dei migranti all'interno delle strutture. Dall'indagine è risultata una situazione sconfortante, tra i CIE , quelli di Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perchè totalmente inadeguati, mentre nei centri di Lampedusa è stata negata a MSF dalla Prefettura l'autorizzazione ad entrare nelle aree alloggiative. In generale i servizi erogati sono spesso scarsi e scadenti e non si riesce di fatto a garantire una effettiva identificazione, protezione, e assistenza dei soggetti vulnerabili.
L'Hotel des Etrangers che dà il titolo alla mostra, da una parte allude con amara ironia ai Centri di accoglienza per i clandestini, dall'altro richiama alla memoria la lunga tradizione di ospitalità e di accoglienza dell'Isola. Luogo di asilo, dopo un lungo viaggio; rifugio ideale dal pericolo scampato; punto di partenza per nuove scoperte; l'Hotel immaginario ospita otto artisti stranieri che vivono da anni in Sicilia e le cui opere ci fanno riscoprire, grazie ad inedite suggestioni, la drammatica realtà dei migranti.
Tra gli antichi miti nati sulle sponde del Mediterraneo, quello del Minotauro può essere letto come la lotta spirituale contro la rimozione2, secondo l'interpretazione etico-psicologica che ne dà Paul Diel. Il Minotauro, mostro dalla testa taurina, poichè rappresenta il frutto della colpa di Pasifae, viene rimosso e nascosto nell'inconscio del labirinto. L'opera del francese Philippe Berson dal titolo "Il Minotauro", rende perfettamente con il suo feroce espressionismo venato da un'accento grottesco, il complesso di colpa del mondo occidentale ricco ed opulento verso un'umanità occultata e rimossa che continua disperatamente a bussare alla sua porta, attratta irresistibilmente dall'ingannevole splendore delle sue facili promesse. L'orrore abilmente occultato nell'inconscio collettivo si svela crudelmente al nostro sguardo complice, risvegliando antiche paure e ancestrali memorie di riti e sacrifici. A nulla serve il dettaglio dell'aureola luminosa che c'è lo mostra più come vittima innocente, che come brutale carnefice.
Il filo di Arianna che nel mito del Minotauro conduceva l'eroe Teseo fuori dal labirinto, ci guida ora verso l'opera dell'artista successiva.
Dal crudo simbolismo di Berson al delicato lirismo dell'inglese Yvonne Kohler che in due eterei lavori di Fiber Art affida la sua preghiera al potere evocativo del filo e della parola: Dear God be good to me. The sea is so wide and my boat is so small /Caro Dio sii buono con me. Il mare è così grande e la mia barca è tanto piccola.
Nel primo dei due lavori in mostra, una tela del 1977 dal titolo "Il mare"; i versi sopra citati, ricamati in bianco su bianco sono come un soffio che si leva leggero tra la spuma del mare. Una invocazione struggente nel momento del pericolo, bisbigliata a bassa voce, per essere udita soltanto da orecchie divine: come il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere3; mentre nel secondo lavoro del 2003 l'intreccio aracneico dei fili dà vita ad una tessitura circolare che rimanda simbolicamente al volgere ineluttabile del destino. Isolate colano, dalla tela fittamente tessuta, morbide bave di tempo, tracce perenni del suo scorrere lento.
Dal bianco del filo, al nero della polvere lavica. Un cerchio di libri dalle pagine bruciate. La carta combusta e drammaticamente accartocciata; le parole ormai illegibili, cancellate per sempre. E' l'opera caratterizzata dal monocromo nero della tedesca Hilde Margani Escher. I roghi di libri rimandano ai momenti più bui della storia dell'umanità, come quando il 10 maggio del 1933, sulla piazza dell'Opera di Berlino e in decine di altre città tedesche, i nazisti diedero alle fiamme i libri di 131 autori ebrei e non, accusati di deviare la Germania. Il poeta John Milton diceva che distruggere un buon libro equivale ad uccidere un essere umano: ...chi uccide un essere umano uccide una creatura ragionevole, l'immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione medesima4. Lo stesso sentimento di irreparabile perdita che si prova nei confronti di una vita umana spezzata, lo si avverte dinnanzi all'opera della Margani, dove i piccoli libri bruciati sono altrettanti flussi della coscienza brutalmente interrotti. Un rogo di libri che equivale, in ultima analisi, ad una damnatio memoriae cui anche le fragili esistenze dei clandestini morti nel Canale di Sicilia sembrano essere condannate.
A chi appartiene quel corpo abbandonato sugli scogli che il mare ha trascinato a riva? Ad un uomo, forse poco più di un ragazzo, di cui nulla sappiamo, neppure il nome nè la nazionalità; è "solo" uno dei tanti clandestini morti nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Nell'opera della francese Anne-Clémence de Grolée dal titolo "Clandestino", una fotografia tratta da una pagina di cronaca che parla degli sbarchi, isolata dal contesto originario, ingrandita a scala umana e stampata su una tela-sudario, ci mostra pietosamente la realtà di quel corpo. E ci invita a meditare su quella morte, quasi si trattasse di una immagine devozionale. La posa composta del corpo morbidamente adagiato, il particolare della mano abbandonata sul torace, il drappo rosso che lo avvolge, tutto sembra rimandare ad una iconografia sacra, quasi si trattasse della figura centrale di un "Compianto su Cristo morto", un tema caro alla tradizione figurativa italiana, da Giotto a Correggio fino a Caravaggio.
La morte di un uomo sottratta alla normante banalizzazione del linguaggio mediatico viene sublimata dal potere salvifico dell'arte.
Altro modo di raccontare il dramma è quello del messicano Juan Esperanza, che si affida ad un linguaggio il cui delicato lirismo traspone in un mondo fantastico la storia dei "boat people" che attraversano in modo avventuroso le acque del Mediterraneo. Bacinelle metalliche e scatole di legno a mò di imbarcazioni raccontano la storia di un popolo lillipuziano. Tante piccole testoline di terracotta, dall'accurata mimica facciale, affollano i contenitori di alluminio che vengono di solito usati per raccogliere l'acqua, comunicando un senso di oppressione e di afasico disagio. Un'idea di precarietà che viene intensificata dal ricorso ai contenitori di fortuna, a oggetti d'uso comune che sembrano raccattati alla rinfusa. La spersonalizzazione del dramma è affidata al dettaglio delle teste tutte simili, nessun corpo ad identificare e distinguere la "massa" dei migranti. La scatola scura con tanto di coperchio, al cui interno sono chiuse al buio alcune teste più grandi, si apre all'improvviso, svelando il drammatico segreto che si celava al suo interno.
La gestualità umana, quell'espressione spontanea di emozioni e stati d'animo che si cristallizza nella posa del corpo e nella mimica facciale, è il segno più evidente dell'energia vitale di un corpo. Tutto il contrario della immobile rigidità della morte. Il tedesco Martin Emschermann che attraverso la scultura in terracotta ha ritratto gli abitanti del quartiere del Capo a Palermo, è un appassionato osservatore della vita, di quel festante fluire di energia che si svolge tra i vicoli di una città che ormai gli appartiene. Un popolo di terracotta il suo, di cui ha isolato i singoli gesti. Ciò che distingue le piccole sculture è a ben vedere il modo in cui ciascun corpo manifesta la sua vitalità: l'uomo a gambe divaricate la esprime in un virile gesto di rabbia, la bimba la tiene in sospensione per qualche minuto appendendosi timida alle proprie trecce, il ragazzo accovacciato la comprime un attimo prima di liberarla di colpo, come un elastico in tensione, la donna grassa la concentra nel bacino, portando le mani ai fianchi. Un magistrale affresco corale di un popolo del meridione d'Europa che diventa emblema della radiosa vitalità di tutti i Sud del Mondo.
Dal Mediterraneo al Sud America. Nell'opera della paraguayana Nelida Mendoza il dramma di un popolo, gli indigeni Ayoreo del Nord del Chaco, costretti ad abbandonare i loro antichi territori, diventa spunto per un'analisi sui meccanismi identitari e memoriali che stanno alla base del movimento migratorio dei gruppi umani. Fondamentale è in tal senso il sincretismo spazio-temporale che consente come in una tessitura di alternare i tempi e i luoghi dello spostamento. La videoinstallazione dal titolo "La frazadita" presenta due video in bianco e nero inseriti all'interno di un arazzo ricamato all'uncinetto realizzato con buste di plastica nera e bianca, come quelle utilizzate dagli Ayoreo per costruire i loro ripari di fortuna all'interno delle città. La sonorità del video sottolinea con il suo ipnotico andamento il tempo ritmico di inserimento degli esseri umani per usare le parole della stessa autrice.
Quante facce può avere la verità? Essa è come un cubo che può essere scomposto e ricomposto. Qual'è la verità sui migranti? L'esodo e lo sterminio di massa cui noi occidentali assistiamo, complici nel nostro incurante silenzio, ha dei mandanti? I paesi capitalisti che da una parte offrono miserevoli il loro aiuto alle nazioni affamate dalle guerre e dalle povertà, sono in parte complici di un sistema che li esclude economicamente? Solo domande.
"100% Veritas?" Recita il titolo dell'opera di Anna Guillot, un'installazione composta da 27 libri bianchi e neri, che con quel punto di domanda, simbolo grafico del dubbio, vale più di mille proclami di libertà. La libertà di dubitare che quella che ci raccontano sia la verità, appunto.
A ben vedere l'arte deve porre domande e il suo compito è quello di essere onesta, di non conformarsi mai, facendosi più interprete del dubbio che delle certezze.
Concludo con le parole di Schiller che Gustav Klimt riportò a commento di su una sua opera, Nuda Veritas del 1899: Se non puoi piacere a tutti con le tue azioni e la tua arte, accontentati di piacere a pochi. Piacere a molti è male. Nuda Veritas.
dal Grand Tour ai Centri di accoglienza
Giusi Diana
In Sicilia siamo tutti stranieri. Isola in mezzo al mare, terra di nessuno, approdo agognato fin dall'antichità per i popoli-naviganti del Mediterranneo, possiede una naturale familiarità con chi vi giunge da paesi lontani. Una straordinaria storia di transiti e di accoglienze, anche dolorose, talvolta imposte con la forza, ma sempre assorbite nel tessuto connettivo di un melting pot emblema di una possibile, pacifica convivenza tra i popoli.
Un miracolo che si ripete a distanza di secoli, ciclicamente, con gli antichi quartieri arabi dei centri storici che tornano a parlare una lingua mai totalmente rimossa, come a Mazara del Vallo o a Palermo. E altri nuovi che ne sorgono, come le tante piccole China Town che costellano di lanterne rosse le vie intitolate ai patrioti dell'Italia del Risorgimento. Il Ramadan e i riti della Settimana Santa, entrambi celebrati negli stessi vicoli, con lo stesso fervore, perfino con una adesione spirituale simile, votata alla penitenza e al raccoglimento.
Sicilia terra di stranieri dunque, e di artisti; da sempre. Nativi o immigrati, non importa. Per il fascino della sua storia, per la mitezza del suo clima, per l'esotismo del suo paesaggio, per caso o per scelta.
Il 2 aprile 1787 Johann Wolfgang Goethe sbarca a Palermo dal pacchetto "Tartaro" proveniente da Napoli. L'autore del "Faust" così scriverà in "Viaggio in Italia": La Sicilia mi indica e mi fa intendere l'Asia e l'Africa, e non è poca cosa trovarsi nel centro meraviglioso dove son diretti i tanti raggi della storia universale.
Dopo il grande poeta tedesco, certamente il più noto tra gli artisti stranieri che compirono il celebre Grand Tour nel '700, è la volta di un suo connazionale Richard Wagner che tra il novembre del 1881 e il marzo del 1882 risiedette a Palermo. Il celebre compositore nelle sale del Grand Hotel delle Palme completerà il "Parsifal" e incontrerà tra gli altri Pierre-August Renoir, che di ritorno dall'Algeria lo ritrasse in un celebre dipinto del 1882, il "Ritratto di Richard Wagner" oggi conservato al Musée d'Orsay di Parigi.
Fin qui la prima parte della storia; ma il paese dove fioriscono i limoni, per dirla ancora una volta con le parole di Goethe, negli ultimi dieci anni è diventato, oltre che meta privilegiata per viaggiatori di tutto il mondo, anche luogo di approdo per un popolo invisibile i boat people: uomini, donne e bambini che fuggono dalle guerre e dalla povertà, via mare, con mezzi di fortuna. Il Mediterraneo è di nuovo solcato da imbarcazioni come ai tempi dei fenici e dei greci, ma questa volta si tratta di barconi abbandonati alla deriva, con il loro carico umano, da trafficanti senza scrupoli. La Sicilia, primo avanposto d'Europa, rappresenta per i diseredati provenienti da Marocco, Sudan, Kurdistan e Bangladesh il miraggio a lungo accarezzato di una salvezza possibile, anche se irta di pericoli. Li chiamano "clandestini" e invece sono soltanto esseri umani, per loro la realtà è spesso più crudele di quanto avessero mai immaginato e il mare del Canale di Sicilia si trasforma in un liquido sudario. Anche quando c'è la fanno, e arrivano con il terrore fisso negli occhi e stremati dalla fatica sulle coste italiane, la sofferenza non cessa di accompagnare il loro dolente cammino.
Medici Senza Frontiere (MSF)1 a febbraio del 2010 ha presentato "Al di là dal muro" il suo secondo rapporto sui centri per migranti in Italia. Una babele di sigle per indicare i "Centri di identificazione ed espulsione" (CIE), i "Centri di accoglienza per richiedenti asilo" (CARA) e i "Centri di accoglienza" (CDA), 21 siti in tutto visitati da MSF per accertare le condizioni di vita dei migranti all'interno delle strutture. Dall'indagine è risultata una situazione sconfortante, tra i CIE , quelli di Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perchè totalmente inadeguati, mentre nei centri di Lampedusa è stata negata a MSF dalla Prefettura l'autorizzazione ad entrare nelle aree alloggiative. In generale i servizi erogati sono spesso scarsi e scadenti e non si riesce di fatto a garantire una effettiva identificazione, protezione, e assistenza dei soggetti vulnerabili.
L'Hotel des Etrangers che dà il titolo alla mostra, da una parte allude con amara ironia ai Centri di accoglienza per i clandestini, dall'altro richiama alla memoria la lunga tradizione di ospitalità e di accoglienza dell'Isola. Luogo di asilo, dopo un lungo viaggio; rifugio ideale dal pericolo scampato; punto di partenza per nuove scoperte; l'Hotel immaginario ospita otto artisti stranieri che vivono da anni in Sicilia e le cui opere ci fanno riscoprire, grazie ad inedite suggestioni, la drammatica realtà dei migranti.
Tra gli antichi miti nati sulle sponde del Mediterraneo, quello del Minotauro può essere letto come la lotta spirituale contro la rimozione2, secondo l'interpretazione etico-psicologica che ne dà Paul Diel. Il Minotauro, mostro dalla testa taurina, poichè rappresenta il frutto della colpa di Pasifae, viene rimosso e nascosto nell'inconscio del labirinto. L'opera del francese Philippe Berson dal titolo "Il Minotauro", rende perfettamente con il suo feroce espressionismo venato da un'accento grottesco, il complesso di colpa del mondo occidentale ricco ed opulento verso un'umanità occultata e rimossa che continua disperatamente a bussare alla sua porta, attratta irresistibilmente dall'ingannevole splendore delle sue facili promesse. L'orrore abilmente occultato nell'inconscio collettivo si svela crudelmente al nostro sguardo complice, risvegliando antiche paure e ancestrali memorie di riti e sacrifici. A nulla serve il dettaglio dell'aureola luminosa che c'è lo mostra più come vittima innocente, che come brutale carnefice.
Il filo di Arianna che nel mito del Minotauro conduceva l'eroe Teseo fuori dal labirinto, ci guida ora verso l'opera dell'artista successiva.
Dal crudo simbolismo di Berson al delicato lirismo dell'inglese Yvonne Kohler che in due eterei lavori di Fiber Art affida la sua preghiera al potere evocativo del filo e della parola: Dear God be good to me. The sea is so wide and my boat is so small /Caro Dio sii buono con me. Il mare è così grande e la mia barca è tanto piccola.
Nel primo dei due lavori in mostra, una tela del 1977 dal titolo "Il mare"; i versi sopra citati, ricamati in bianco su bianco sono come un soffio che si leva leggero tra la spuma del mare. Una invocazione struggente nel momento del pericolo, bisbigliata a bassa voce, per essere udita soltanto da orecchie divine: come il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere3; mentre nel secondo lavoro del 2003 l'intreccio aracneico dei fili dà vita ad una tessitura circolare che rimanda simbolicamente al volgere ineluttabile del destino. Isolate colano, dalla tela fittamente tessuta, morbide bave di tempo, tracce perenni del suo scorrere lento.
Dal bianco del filo, al nero della polvere lavica. Un cerchio di libri dalle pagine bruciate. La carta combusta e drammaticamente accartocciata; le parole ormai illegibili, cancellate per sempre. E' l'opera caratterizzata dal monocromo nero della tedesca Hilde Margani Escher. I roghi di libri rimandano ai momenti più bui della storia dell'umanità, come quando il 10 maggio del 1933, sulla piazza dell'Opera di Berlino e in decine di altre città tedesche, i nazisti diedero alle fiamme i libri di 131 autori ebrei e non, accusati di deviare la Germania. Il poeta John Milton diceva che distruggere un buon libro equivale ad uccidere un essere umano: ...chi uccide un essere umano uccide una creatura ragionevole, l'immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione medesima4. Lo stesso sentimento di irreparabile perdita che si prova nei confronti di una vita umana spezzata, lo si avverte dinnanzi all'opera della Margani, dove i piccoli libri bruciati sono altrettanti flussi della coscienza brutalmente interrotti. Un rogo di libri che equivale, in ultima analisi, ad una damnatio memoriae cui anche le fragili esistenze dei clandestini morti nel Canale di Sicilia sembrano essere condannate.
A chi appartiene quel corpo abbandonato sugli scogli che il mare ha trascinato a riva? Ad un uomo, forse poco più di un ragazzo, di cui nulla sappiamo, neppure il nome nè la nazionalità; è "solo" uno dei tanti clandestini morti nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Nell'opera della francese Anne-Clémence de Grolée dal titolo "Clandestino", una fotografia tratta da una pagina di cronaca che parla degli sbarchi, isolata dal contesto originario, ingrandita a scala umana e stampata su una tela-sudario, ci mostra pietosamente la realtà di quel corpo. E ci invita a meditare su quella morte, quasi si trattasse di una immagine devozionale. La posa composta del corpo morbidamente adagiato, il particolare della mano abbandonata sul torace, il drappo rosso che lo avvolge, tutto sembra rimandare ad una iconografia sacra, quasi si trattasse della figura centrale di un "Compianto su Cristo morto", un tema caro alla tradizione figurativa italiana, da Giotto a Correggio fino a Caravaggio.
La morte di un uomo sottratta alla normante banalizzazione del linguaggio mediatico viene sublimata dal potere salvifico dell'arte.
Altro modo di raccontare il dramma è quello del messicano Juan Esperanza, che si affida ad un linguaggio il cui delicato lirismo traspone in un mondo fantastico la storia dei "boat people" che attraversano in modo avventuroso le acque del Mediterraneo. Bacinelle metalliche e scatole di legno a mò di imbarcazioni raccontano la storia di un popolo lillipuziano. Tante piccole testoline di terracotta, dall'accurata mimica facciale, affollano i contenitori di alluminio che vengono di solito usati per raccogliere l'acqua, comunicando un senso di oppressione e di afasico disagio. Un'idea di precarietà che viene intensificata dal ricorso ai contenitori di fortuna, a oggetti d'uso comune che sembrano raccattati alla rinfusa. La spersonalizzazione del dramma è affidata al dettaglio delle teste tutte simili, nessun corpo ad identificare e distinguere la "massa" dei migranti. La scatola scura con tanto di coperchio, al cui interno sono chiuse al buio alcune teste più grandi, si apre all'improvviso, svelando il drammatico segreto che si celava al suo interno.
La gestualità umana, quell'espressione spontanea di emozioni e stati d'animo che si cristallizza nella posa del corpo e nella mimica facciale, è il segno più evidente dell'energia vitale di un corpo. Tutto il contrario della immobile rigidità della morte. Il tedesco Martin Emschermann che attraverso la scultura in terracotta ha ritratto gli abitanti del quartiere del Capo a Palermo, è un appassionato osservatore della vita, di quel festante fluire di energia che si svolge tra i vicoli di una città che ormai gli appartiene. Un popolo di terracotta il suo, di cui ha isolato i singoli gesti. Ciò che distingue le piccole sculture è a ben vedere il modo in cui ciascun corpo manifesta la sua vitalità: l'uomo a gambe divaricate la esprime in un virile gesto di rabbia, la bimba la tiene in sospensione per qualche minuto appendendosi timida alle proprie trecce, il ragazzo accovacciato la comprime un attimo prima di liberarla di colpo, come un elastico in tensione, la donna grassa la concentra nel bacino, portando le mani ai fianchi. Un magistrale affresco corale di un popolo del meridione d'Europa che diventa emblema della radiosa vitalità di tutti i Sud del Mondo.
Dal Mediterraneo al Sud America. Nell'opera della paraguayana Nelida Mendoza il dramma di un popolo, gli indigeni Ayoreo del Nord del Chaco, costretti ad abbandonare i loro antichi territori, diventa spunto per un'analisi sui meccanismi identitari e memoriali che stanno alla base del movimento migratorio dei gruppi umani. Fondamentale è in tal senso il sincretismo spazio-temporale che consente come in una tessitura di alternare i tempi e i luoghi dello spostamento. La videoinstallazione dal titolo "La frazadita" presenta due video in bianco e nero inseriti all'interno di un arazzo ricamato all'uncinetto realizzato con buste di plastica nera e bianca, come quelle utilizzate dagli Ayoreo per costruire i loro ripari di fortuna all'interno delle città. La sonorità del video sottolinea con il suo ipnotico andamento il tempo ritmico di inserimento degli esseri umani per usare le parole della stessa autrice.
Quante facce può avere la verità? Essa è come un cubo che può essere scomposto e ricomposto. Qual'è la verità sui migranti? L'esodo e lo sterminio di massa cui noi occidentali assistiamo, complici nel nostro incurante silenzio, ha dei mandanti? I paesi capitalisti che da una parte offrono miserevoli il loro aiuto alle nazioni affamate dalle guerre e dalle povertà, sono in parte complici di un sistema che li esclude economicamente? Solo domande.
"100% Veritas?" Recita il titolo dell'opera di Anna Guillot, un'installazione composta da 27 libri bianchi e neri, che con quel punto di domanda, simbolo grafico del dubbio, vale più di mille proclami di libertà. La libertà di dubitare che quella che ci raccontano sia la verità, appunto.
A ben vedere l'arte deve porre domande e il suo compito è quello di essere onesta, di non conformarsi mai, facendosi più interprete del dubbio che delle certezze.
Concludo con le parole di Schiller che Gustav Klimt riportò a commento di su una sua opera, Nuda Veritas del 1899: Se non puoi piacere a tutti con le tue azioni e la tua arte, accontentati di piacere a pochi. Piacere a molti è male. Nuda Veritas.
31
marzo 2010
Hotel des Etrangers. Dal Grand Tour ai Centri di accoglienza
Dal 31 marzo al 25 aprile 2010
arte contemporanea
Location
EX CONVENTO DEL CARMINE
Sutera, Piazza Carmine, (Caltanissetta)
Sutera, Piazza Carmine, (Caltanissetta)
Orario di apertura
tutti i giorni tranne il lunedì dalle ore 16,30 alle ore 20,00
Vernissage
31 Marzo 2010, ore 17
Sito web
www.museum-bagheria.it
Autore
Curatore