Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
I grandi bronzi del Battistero. L’arte di Vincenzo Danti, discepolo di Michelangelo
Attraverso i “pezzi” sceltissimi, venticinque tra statue e bassorilievi, tra marmi e bronzi, si snoda la carriera artistica dello scultore perugino Danti che, folgorato in gioventù dalla pittura e dalla scultura del Buonarroti (viste a Roma) si stabilì poi a Firenze trovando lavoro e apprezzamento alla corte del duca Cosimo de’ Medici
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Scultore valentissimo e precoce (ma anche architetto e pittore, proprio come il Buonarroti; e, come lui, poeta e letterato, “accademico” delle arti del Disegno), Vincenzo Danti (Perugia1530-1576) è oggi quasi sconosciuto, fuori della cerchia ristretta degli storici dell’arte. Ma tutti quelli che vedranno la mostra, o che anche soltanto indugeranno sulle immagini di questo catalogo, difficilmente dimenticheranno il suo nome: per la nobiltà e la fierezza di certe sue statue e per la sensualità di altre; per la ricchezza immaginativa delle sue storie in rilievo, gremite di figure, potentemente plastiche e “non finite” anche nel bronzo; per quei marmi che esibiscono le tracce scabre della gradina e per quelli, all’opposto, cesellati fino all’ultima “perfezione”: e questo sia nella scala monumentale delle statue, che in quella ridotta dei rilievi, delicati come cammei e dove lo “stiacciato” di Donatello e di Desiderio è interpretato secondo i canoni della “Maniera moderna”. Nel suo complesso, l’arte di Danti non ci appare infatti univoca, e neppure sempre declinabile sotto il segno di Michelangelo: il suo linguaggio è improntato ad una consapevole varietas di artista colto e “virtuoso”, secondo l’ideale del Buonarroti, ma intellettuale più che strettamente stilistico.
“Discepolo” dunque, e non imitatore, né scolaro: anche perché forse Michelangelo lo conobbe appena e ormai più che ventenne, come Danti stesso ci testimonia nel suo Trattato delle perfette proportioni (Firenze 1567). Ma l’incontro con le opere del maestro, dipinte e scolpite – e forse anche la lettura della Vita del Buonarroti di Ascanio Condivi (1553) – furono comunque per lui una sorta di folgorazione e l’avvio di un diverso modo d’intendere l’arte tutta, portandolo a concludere che “chiunche desidera alle tre arti del disegno per buona e diritta via incaminarsi, dovrebbe nella maniera che ha fatto quest’uomo eccellente, con ogni ardore alla perfezzione di quelle […] inanimirsi, cercando d’imitare con tutte le forze e potere il Buonarroti”. Legittimamente, dunque, la mostra si propone con questo titolo e presenta a confronto delle statue e dei rilievi di Vincenzo Danti, due opere di Michelangelo – l’Apollo-David, una statua; e il ‘Tondo Pitti’, un rilevo – affinché ognuno possa meglio cogliere, nell’intero percorso artistico del Danti, la costante dialettica col suo maestro ideale: senza soggezione, ma nel segno dell’affinità intellettuale e della consonantia, come illustra in catalogo il saggio di Cristina Acidini.
Opere grandiose, in dimensioni e in spirito – ma non rigorosamente michelangiolesche – sono i tre bronzi che compongono la Decollazione del Battista, il cui restauro, mirabilmente eseguito (e in tempi assai ristretti) dall’Opificio delle Pietre Dure, ha offerto l’occasione irripetibile per questa prima mostra monografica sul “perugino”, come Vincenzo era chiamato alla corte di Cosimo I. “In belle attitudini il Santo, fiero il Carnefice e ardita la Donzella” è il commento del padre Richa (1757), che ne coglie l’aspetto teatrale e che non fa eccezione nell’universale apprezzamento che accompagnò le tre statue bronzee fin dalla loro messa in opera, sull’architrave della porta sud del Battistero, il 22 giugno 1571. Sappiamo – e la loro storia è qui ripercorsa e commentata da Marco Campigli – che Vincenzo le eseguì rapidamente, come obbedendo a un furor interiore; e che “vennero tanto bene, tanto sottili, e tanto pulite, che non bisognò rinettarle” (Borghini, 1584). La verità (sorprendente) di quest’ultima affermazione ha comportato gravi difficoltà nell’intervento di pulitura, perché le superfici dei bronzi, non ‘ribattute’ e rimaste scabre, in tanti secoli all’aperto, hanno favorito processi irreversibili di corrosione, come si potrà leggere nella sezione del catalogo dedicata al restauro e a tutte le indagini scientifiche preliminari, curata da Annamaria Giusti.
Comunque sia, sull’illustre proscenio del “Bel San Giovanni”, con questo dramma sacro che tocca l’apice della Maniera, ma sembra già preludere alle potenzialità espressive e dinamiche della scultura (e del teatro) dell’età barocca, Vincenzo chiudeva in bellezza il suo lungo soggiorno fiorentino, cominciato nel 1557 e terminato nel ’73, col rientro a Perugia, appena tre anni prima della morte.
Con la sua città e con la sua famiglia, in tutti gli anni fiorentini, aveva mantenuto sempre stretti rapporti, che puntualmente ricostruisce in catalogo il saggio di Francesco Federico Mancini: anzi a Perugia, Vincenzo aveva avuto modo di mostrare anche le sue qualità d’architetto e d’ingegnere idraulico (per esempio ripristinando, nel 1561, la Fontana Maggiore, rimasta all’asciutto). Ma artisticamente, Firenze era stata la sua patria d’elezione. Una sorta di destino sembra averlo sospinto in quella direzione, anche per via d’ascendenze familiari: sua madre era Biancofiore degli Alberti, un nome che evocava l’antica prosapìa toscana, illustre nelle arti come nessuna; e il suo stesso cognome di “Danti” era in realtà il soprannome del nonno – l’orafo e letterato perugino Piervincenzo Ranaldi, appassionato cultore dell’Alighieri - passato da lui alla sua discendenza, che per più generazioni contò letterati, artisti, uomini d’ingegno e di scienza.
Vincenzo si forma nella bottega del padre Giulio, orafo e architetto; e dalla zia paterna, Teodora, impara la matematica e la pittura. Dei suoi due fratelli minori, Girolamo sarà pittore e Carlo Pellegrino (1536-1586) altri non è che il frate domenicano Egnazio Danti, “lume delle scienze matematiche e astrologiche” (Marchese, 1854), ma a Firenze noto soprattutto per le carte geografiche dipinte sugli armadi della Guardaroba ducale, in Palazzo Vecchio: come Vincenzo, anche lui “salariato” di Cosimo I (dal 1562) e speciale protetto di Sforza Almeni, il potente consigliere del duca, perugino come loro.
Pur provenendo dalla provincia pontificia, i Danti potevano dunque aspirare per status sociale e per cultura, al ruolo di intellettuali di corte: a Vincenzo, non pare venisse imposta alcuna dimostrazione pratica del mestiere, né un faticoso tirocinio sotto qualcuno dei maestri locali. Quando arriva a Firenze, nel ’57, è preceduto dalla fama di enfant-prodige che si è guadagnato con la sua opera d’esordio, la grande statua bronzea di papa Giulio III, modellata e fusa tra il 1553 e il ’55.
Questa figura sorprendente – evocata in mostra da un calco ottocentesco del Cappuccio del piviale e illustrata in catalogo, in particolare, dagli scritti di Alessandro Nova e di Marco Collareta – è stata acutamente definita da Charles Davis come un saggio monumentale di oreficeria, in cui Vincenzo rivela appieno la sua formazione, dapprima a Perugia con suo padre e poi a Roma, presso l’orafo e architetto bergamasco Panfilio Marchesi. Per quanto meno razionalmente organizzata nella disposizione delle storie e degli ornati rispetto alle successive opere fiorentine – alle quali Charles Davis dedica qui tre ponderosi, ricchissimi saggi - la statua perugina già mostra il fervore immaginativo e la complessità intellettuale caratteristiche dei successivi rilievi dantiani: ben presto però, sconfessato ogni rapporto con l’oreficeria, essi riveleranno anche attraverso una particolare tecnica d’esecuzione, l’attenzione crescente di Vincenzo alle potenzialità espressive rigorosamente scultoree del “non finito” michelangiolesco e dello “stiacciato” d’ascendenza donatelliana (e su questo si veda, in catalogo, il saggio di Dimitrios Zikos).
Quello che a Firenze Vincenzo non seppe più ripetere fino alla Decollazione del Battistero, è la fusione magistrale del Giulio III, alla quale soprattutto doveva la chiamata da parte del duca, complici le pressioni del suo consigliere perugino. Per tre volte, Vincenzo fallisce la prima commissione ducale, un grande gruppo bronzeo di Ercole e Anteo per la fontana della villa di Castello, il cui modello in cera era riuscito “bellissimo”, a detta del Vasari. L’opera sarà infine affidata e realizzata dall’Ammannati. E’ un insuccesso che segna profondamente la vita di Vincenzo (e l’eco di quel dolore è in un sonetto, che compose allora, più volte rammentato in catalogo) e che condiziona anche le sue scelte artistiche: sebbene il duca gli mantenga il suo favore, Danti abbandona per il momento le grandi opere in bronzo e modella soltanto i due bassorilievi destinati a Palazzo Vecchio – la grande storia di Mosè e il serpente di bronzo e lo Sportello della cassaforte del duca, entrambi del ‘59 – lasciando probabilmente a Zanobi Lastricati la responsabilità di tutte e due le fusioni. Affida invece al marmo la sua risposta alle malignità dei fiorentini e alle insinuazioni velenose dei colleghi, realizzando per Sforza Almeni quell’Onore che vince l’Inganno (1561), che è forse la sua opera più celebre e una delle gemme del Bargello:
vero saggio di bravura attorno al doppio tema michelangiolesco dell’intreccio di due nudi e della “figura serpentinata”, in cui però la virtuosistica perfezione della tecnica e l’eleganza manierista non impediscono la forza espressiva, né quella tenerezza di carni (“mollezza”), che commosse il Cicognara (1824-25). Sul significato forse anche personale – per l’artista e per il committente - di questa allegoria, che porta alla ribalta la figura discussa di Sforza, pugnalato cinque anni dopo (1566) da Cosimo I in un accesso d’ira, l’‘indagine’ brillante di Claudio Pizzorusso apporta ora nuova luce.
Incoraggiato da quel successo, per tutti gli anni sessanta Vincenzo si dedica alle sculture in marmo e sembra concentrarsi intellettualmente e tecnicamente – lui, nato orafo e modellatore – alla scultura “per via di levare” , secondo il paradigma michelangiolesco, in una sorta di conversione (Zikos).
Dopo la prova dimostrativa dell’Onore, non gli mancano le commissioni pubbliche e importanti, i grandi massi da affrontare con lo scalpello, dove occorre “inanimirsi” appunto, e prepararsi al giudizio del principe e della città. Pur senza speranza di vittoria, sfida i grandi scultori fiorentini come il Cellini e l’Ammannati, presentando in concorso un suo modello (che fu lodato) per il Nettuno della fontana di Piazza (1560).
Come Michelangelo, quasi ripercorrendone i passi e commuovendosi nel riconoscerne i segni, sceglie le bozze nelle cave di Serravezza, come testimonia una sua lettera del ’68. Grandi “bozze” gli serviranno per un’opera monumentale, le tre figure allegoriche – sul tema del buon governo cosimiano – che devono ornare il fronte verso la piazza della nuova fabbrica vasariana degli Uffizi: un nudo femminile per l’Equità e uno maschile per il Rigore, che subito dichiarano la loro dipendenza dalle Ore del giorno dei sepolcri medicei, ma assai più mollemente adagiati sull’ampio cornicione, a suggerire la quiete del regno (Acidini); fra loro – svettante – la figura di Cosimo I in veste di Augusto Imperatore, di olimpica astrazione. Laboriosissima per la ricchezza degli ornati, e ancora in lavorazione nel 1572, la grande statua, oggi al Bargello, fu rimossa di lì, parrebbe, già nel 1585 per volere del granduca Francesco e sostituita dall’attuale ‘vero’ ritratto di Cosimo I del Giambologna: un episodio che potrebbe leggersi come uno dei molti indizi della scarsa simpatia del nuovo principe nei confronti del Danti.
Forse più libero di seguire il suo attuale interesse verso le tecniche scultoree michelangiolesche, in un approccio ‘eroico’ alla durezza della materia e alla nobiltà dei concetti anche moralmente affine al Buonarroti, Vincenzo scolpisce in quegli anni due grandi Madonne marmoree: l’una per il Sepolcro di Carlo de’ Medici nel Duomo di Prato (1564); l’altra, una monumentale Madonna col Bambino – oggi in Santa Croce e presente alla mostra – di un rigore addirittura arcaizzante e si direbbe ‘controriformista’ nella sua frontalità, che recupera anche citazioni quattrocentesche (Davis). Il Vasari (1568) la dice già molto avanzata, ma fu lasciata comunque incompiuta da Vincenzo nelle stanze del convento di Santa Maria degli Angioli, dove aveva lo studio, senza che se ne sapesse la destinazione e la committenza. Allo scadere del decennio, mentre si prepara a modellare e fondere le tre grandi figure del Battistero – un’ultima commissione del duca Cosimo – modella anche (nelle forme michelangiolesche d’una ideale traduzione marmorea) la figura di San Luca per la Cappella dei Pittori all’Annunziata, dove si radunava l’Accademia delle Arti del Disegno, alla quale Vincenzo apparteneva fin dalla fondazione, nel 1563. I componimenti poetici e, soprattutto, il primo libro (dei quindici previsti) del suo Trattato delle perfette proportioni, stampato nel 1567, gli assicurano un posto anche in seno all’ambitissima Accademia Fiorentina,
‘creatura’ del duca Cosimo in persona e riservata ai letterati. Si ha la sensazione che ormai sia l’esercizio intellettuale, e addirittura teorico, a prevalere sulla “pratica” dell’operare, nonostante Vincenzo tocchi appena la quarantina. Se “finitissimo” è il Cosimo I, anche per omaggio al suo signore (Zikos), in qualche misura incompiuti sono il monumento di Prato, la Madonna di Santa Croce, il San Luca dell’Annunziata (se lo pensiamo concepito per il marmo) e perfino i grandi bronzi della Decollazione, lasciati senza rinettatura. Vincenzo continua a lavorare nelle stanze del convento degli Angioli, che aveva occupato fino a pochi anni prima Benedetto Varchi, di cui esegue un delicato profilo marmoreo in bassorilievo, ricordato dalle fonti e malauguratamente disperso: una nuova importante ipotesi, qui affrontata dal Davis, spinge a credere che un qualche rapporto avesse legato l’artista al grande letterato e ai dotti monaci del convento, tanto da suggerire una possibile destinazione originaria della Madonna di Santa Croce alla tomba dell’umanista. Comunque sia, par legittimo pensare a un crescente sentimento religioso, che orienta la vita di Vincenzo e le sue opere: oltre ai camaldolesi di Santa Maria degli Angioli, è indubbiamente legato ai domenicani di Santa Maria Novella, dove è suo fratello Egnazio e soprattutto l’amicissimo Bottonio (autore di una vita del Savonarolache con i suoi sonetti encomiastici dedicati all’artista in più occasioni, costituisce a tutt’oggi una delle fonti più importanti sulle opere di Danti. Per il convento di Santa Maria Novella, nel 1571, Vincenzo scolpisce la Tomba del Beato Giovanni da Salerno, nella più corretta filologia quattrocentesca: inappuntabile pendant del sepolcro rosselliniano della Beata Villana. Ci testimonia della sua cultura specifica e della frequentazione assidua dei maestri del primo Rinascimento, in una vera e propria assimilazione linguistica; ma per altro verso, se è giusta la traccia che attraverso gli studi attuali sul Danti ci ha portato fin qui, quell’opera sembra soprattutto un esercizio morale di severità savonaroliana, che l’artista doveva sentire consono a sé e condiviso da molti, in quel convento. In questo senso mi sembra di poter interpretare anche il memento mori rappresentato dallo scheletro, nel raffinato ovale marmoreo, oggi a Milano e già attribuito a Pierino da Vinci, anch’esso in mostra: squisito oggetto di devozione privata, scolpito anche sul verso con una composizione che, pur largamente incompiuta, subito richiama la donatelliana ‘Madonna di Verona’, raffigura sul fronte una possente Vergine col figlio in braccio, seduta su uno sfondo (a me parrebbe) di rovine classiche che completano il significato proprio “savonaroliano” dello scheletro. che con i suoi sonetti encomiastici dedicati all’artista in più occasioni, costituisce a tutt’oggi una delle fonti più importanti sulle opere di Danti. Per il convento di Santa Maria Novella, nel 1571, Vincenzo scolpisce la Tomba del Beato Giovanni da Salerno, nella più corretta filologia quattrocentesca: inappuntabile pendant del sepolcro rosselliniano della Beata Villana. Ci testimonia della sua cultura specifica e della frequentazione assidua dei maestri del primo Rinascimento, in una vera e propria assimilazione linguistica; ma per altro verso, se è giusta la traccia che attraverso gli studi attuali sul Danti ci ha portato fin qui, quell’opera sembra soprattutto un esercizio morale di severità savonaroliana, che l’artista doveva sentire consono a sé e condiviso da molti, in quel convento. In questo senso mi sembra di poter interpretare anche il memento mori rappresentato dallo scheletro, nel raffinato ovale marmoreo, oggi a Milano e già attribuito a Pierino da Vinci, anch’esso in mostra: squisito oggetto di devozione privata, scolpito anche sul verso con una composizione che, pur largamente incompiuta, subito richiama la donatelliana ‘Madonna di Verona’, raffigura sul fronte una possente Vergine col figlio in braccio, seduta su uno sfondo (a me parrebbe) di rovine classiche che completano il significato proprio “savonaroliano” dello scheletro.
E ancora nel segno dei recuperi quattrocenteschi del Danti da leggere in questa chiave, le forme della Madonna nel rilievo milanese mi sembrano richiamare, con Michelangelo, esempi di pittura fiorentina da Masaccio al Lippi.
Vero è che in mostra si presentano, di questi ultimi anni fiorentini del Danti (1570-73), anche opere di soggetto pagano: ed anzi, più precisamente, una monumentale Venere marmorea (da Casa Buonarroti) e una Venere Anadiomene, bronzea, dallo Studiolo del principe Francesco, in Palazzo Vecchio. La prima, parrebbe denunciare un michelangiolismo da esercitazione accademica di “non finito”, forse fin troppo esplicito per un’opera autografa del Danti e con citazioni addirittura letterali dal ‘Tondo Pitti’ (Zikos): però certe sproporzioni accentuate in verso espressivo (la testa decisamente piccola a fronte del corpo pesante e fermo, frontale come un idolo arcaico scavato in un tronco e per niente mèmore delle eleganze della Maniera) ricordano la Madonna di Santa Croce e potrebbero essere compatibili, a mio vedere, con le ricerche formali di Danti in questi anni di acuta riflessione religiosa e di progressivo allontanamento dall’agone della corte medicea. V’è d’altronde una traccia documentaria di una possibile committenza medicea dell’opera. Meno in linea con questi pensieri è la seducente Venere Anadiomene, che riprende la posa dell’Apollo-David di Michelangelo, cui in mostra è posta accanto: l’unica figura non documentata dei bronzi dello Studiolo, ma autorevolmente riferita a Vincenzo. Ancor più problematico, l’Apollo Pitio (dall’Accademia delle Arti del Disegno): attribuito al Danti di recente, sulla base di alcuni indubitabili richiami a particolari dell’Onore che vince l’Inganno, e possibilmente prova (in verità non felicissima) per quella commissione. Sarà l’attuale confronto visivo diretto a confermarne o a smentirne la paternità dantiana.
Vincenzo lascia Firenze nella primavera 1573 e la partenza non ha spiegazioni ufficiali: forse per assecondare un desiderio della moglie, secondo la dicerìa corrente in città, riferita da Vincenzo Borghini in una lettera al Vasari; più probabile che la vera ragione fosse il suo disagio crescente, in un ambiente a lui non più favorevole e dominato dall’astro del Giambologna, che il principe Francesco predilige; forse, infine, una salute prematuramente compromessa e l’istinto di tornare a casa. L’epilogo perugino è difatti breve, sebbene pieno di incarichi e di onori (Mancini): opere di architettura, di urbanistica, di idraulica, che mettono in luce altre sue competenze;
più volte il consolato della neonata Accademia di Belle Arti, che ha contribuito a fondare e alla quale ha donato, al rientro da Firenze, i calchi in gesso delle Ore del giorno, dalle tombe medicee, fatti da Egnazio e da Timoteo Refati nel 1570, col consenso del Granduca: tra i più antichi in assoluto che ci siano conservati e - due dei quattro - giunti in questa occasione al Bargello dall’Accademia di Perugia, come una testimonianza d’amore da parte della sua città.
Vincenzo Danti muore a Perugia, il 26 maggio 1576, a quarantasei anni appena, ed è sepolto nella chiesa di San Domenico. Sulla sua tomba, il busto scolpito da Valerio Cioli, mostra i bei tratti che aveva.
Un’ultima riflessione, a conclusione di questo breve “percorso” introduttivo, condotto attraverso il doppio binario della vita di Vincenzo Danti e delle sue opere in mostra, con l’intento di tracciare anche un primo, sommario indice ragionato di questo catalogo. Riguarda la varietà linguistica del Danti, a cui accennavo in apertura, come prima impressione di un visitatore che avverta la difficoltà di individuare in tutte le opere esposte un denominatore comune che ne codifichi esattamente lo ‘stile’.
Ma questa indiscutibile caratteristica dell’opera complessiva del Danti – un artista colto, padrone del “disegno” e di un’ampia gamma di generi, di tecniche e di lingue figurative - fu anche il risultato di una sua ricerca espressiva che, come per Michelangelo, era guidata da istanze profonde, secondo una personale via maestra che abbiamo brevemente tentato di tracciare. Accostandosi alle sue opere, riunite per la prima volta, il visitatore saprà cogliere al di là di un’apparente ‘polifonia’, il timbro puro e sonoro della sua voce.
Beatrice Paolozzi Strozzi
Direttrice Museo Nazionale del Bargello
“Discepolo” dunque, e non imitatore, né scolaro: anche perché forse Michelangelo lo conobbe appena e ormai più che ventenne, come Danti stesso ci testimonia nel suo Trattato delle perfette proportioni (Firenze 1567). Ma l’incontro con le opere del maestro, dipinte e scolpite – e forse anche la lettura della Vita del Buonarroti di Ascanio Condivi (1553) – furono comunque per lui una sorta di folgorazione e l’avvio di un diverso modo d’intendere l’arte tutta, portandolo a concludere che “chiunche desidera alle tre arti del disegno per buona e diritta via incaminarsi, dovrebbe nella maniera che ha fatto quest’uomo eccellente, con ogni ardore alla perfezzione di quelle […] inanimirsi, cercando d’imitare con tutte le forze e potere il Buonarroti”. Legittimamente, dunque, la mostra si propone con questo titolo e presenta a confronto delle statue e dei rilievi di Vincenzo Danti, due opere di Michelangelo – l’Apollo-David, una statua; e il ‘Tondo Pitti’, un rilevo – affinché ognuno possa meglio cogliere, nell’intero percorso artistico del Danti, la costante dialettica col suo maestro ideale: senza soggezione, ma nel segno dell’affinità intellettuale e della consonantia, come illustra in catalogo il saggio di Cristina Acidini.
Opere grandiose, in dimensioni e in spirito – ma non rigorosamente michelangiolesche – sono i tre bronzi che compongono la Decollazione del Battista, il cui restauro, mirabilmente eseguito (e in tempi assai ristretti) dall’Opificio delle Pietre Dure, ha offerto l’occasione irripetibile per questa prima mostra monografica sul “perugino”, come Vincenzo era chiamato alla corte di Cosimo I. “In belle attitudini il Santo, fiero il Carnefice e ardita la Donzella” è il commento del padre Richa (1757), che ne coglie l’aspetto teatrale e che non fa eccezione nell’universale apprezzamento che accompagnò le tre statue bronzee fin dalla loro messa in opera, sull’architrave della porta sud del Battistero, il 22 giugno 1571. Sappiamo – e la loro storia è qui ripercorsa e commentata da Marco Campigli – che Vincenzo le eseguì rapidamente, come obbedendo a un furor interiore; e che “vennero tanto bene, tanto sottili, e tanto pulite, che non bisognò rinettarle” (Borghini, 1584). La verità (sorprendente) di quest’ultima affermazione ha comportato gravi difficoltà nell’intervento di pulitura, perché le superfici dei bronzi, non ‘ribattute’ e rimaste scabre, in tanti secoli all’aperto, hanno favorito processi irreversibili di corrosione, come si potrà leggere nella sezione del catalogo dedicata al restauro e a tutte le indagini scientifiche preliminari, curata da Annamaria Giusti.
Comunque sia, sull’illustre proscenio del “Bel San Giovanni”, con questo dramma sacro che tocca l’apice della Maniera, ma sembra già preludere alle potenzialità espressive e dinamiche della scultura (e del teatro) dell’età barocca, Vincenzo chiudeva in bellezza il suo lungo soggiorno fiorentino, cominciato nel 1557 e terminato nel ’73, col rientro a Perugia, appena tre anni prima della morte.
Con la sua città e con la sua famiglia, in tutti gli anni fiorentini, aveva mantenuto sempre stretti rapporti, che puntualmente ricostruisce in catalogo il saggio di Francesco Federico Mancini: anzi a Perugia, Vincenzo aveva avuto modo di mostrare anche le sue qualità d’architetto e d’ingegnere idraulico (per esempio ripristinando, nel 1561, la Fontana Maggiore, rimasta all’asciutto). Ma artisticamente, Firenze era stata la sua patria d’elezione. Una sorta di destino sembra averlo sospinto in quella direzione, anche per via d’ascendenze familiari: sua madre era Biancofiore degli Alberti, un nome che evocava l’antica prosapìa toscana, illustre nelle arti come nessuna; e il suo stesso cognome di “Danti” era in realtà il soprannome del nonno – l’orafo e letterato perugino Piervincenzo Ranaldi, appassionato cultore dell’Alighieri - passato da lui alla sua discendenza, che per più generazioni contò letterati, artisti, uomini d’ingegno e di scienza.
Vincenzo si forma nella bottega del padre Giulio, orafo e architetto; e dalla zia paterna, Teodora, impara la matematica e la pittura. Dei suoi due fratelli minori, Girolamo sarà pittore e Carlo Pellegrino (1536-1586) altri non è che il frate domenicano Egnazio Danti, “lume delle scienze matematiche e astrologiche” (Marchese, 1854), ma a Firenze noto soprattutto per le carte geografiche dipinte sugli armadi della Guardaroba ducale, in Palazzo Vecchio: come Vincenzo, anche lui “salariato” di Cosimo I (dal 1562) e speciale protetto di Sforza Almeni, il potente consigliere del duca, perugino come loro.
Pur provenendo dalla provincia pontificia, i Danti potevano dunque aspirare per status sociale e per cultura, al ruolo di intellettuali di corte: a Vincenzo, non pare venisse imposta alcuna dimostrazione pratica del mestiere, né un faticoso tirocinio sotto qualcuno dei maestri locali. Quando arriva a Firenze, nel ’57, è preceduto dalla fama di enfant-prodige che si è guadagnato con la sua opera d’esordio, la grande statua bronzea di papa Giulio III, modellata e fusa tra il 1553 e il ’55.
Questa figura sorprendente – evocata in mostra da un calco ottocentesco del Cappuccio del piviale e illustrata in catalogo, in particolare, dagli scritti di Alessandro Nova e di Marco Collareta – è stata acutamente definita da Charles Davis come un saggio monumentale di oreficeria, in cui Vincenzo rivela appieno la sua formazione, dapprima a Perugia con suo padre e poi a Roma, presso l’orafo e architetto bergamasco Panfilio Marchesi. Per quanto meno razionalmente organizzata nella disposizione delle storie e degli ornati rispetto alle successive opere fiorentine – alle quali Charles Davis dedica qui tre ponderosi, ricchissimi saggi - la statua perugina già mostra il fervore immaginativo e la complessità intellettuale caratteristiche dei successivi rilievi dantiani: ben presto però, sconfessato ogni rapporto con l’oreficeria, essi riveleranno anche attraverso una particolare tecnica d’esecuzione, l’attenzione crescente di Vincenzo alle potenzialità espressive rigorosamente scultoree del “non finito” michelangiolesco e dello “stiacciato” d’ascendenza donatelliana (e su questo si veda, in catalogo, il saggio di Dimitrios Zikos).
Quello che a Firenze Vincenzo non seppe più ripetere fino alla Decollazione del Battistero, è la fusione magistrale del Giulio III, alla quale soprattutto doveva la chiamata da parte del duca, complici le pressioni del suo consigliere perugino. Per tre volte, Vincenzo fallisce la prima commissione ducale, un grande gruppo bronzeo di Ercole e Anteo per la fontana della villa di Castello, il cui modello in cera era riuscito “bellissimo”, a detta del Vasari. L’opera sarà infine affidata e realizzata dall’Ammannati. E’ un insuccesso che segna profondamente la vita di Vincenzo (e l’eco di quel dolore è in un sonetto, che compose allora, più volte rammentato in catalogo) e che condiziona anche le sue scelte artistiche: sebbene il duca gli mantenga il suo favore, Danti abbandona per il momento le grandi opere in bronzo e modella soltanto i due bassorilievi destinati a Palazzo Vecchio – la grande storia di Mosè e il serpente di bronzo e lo Sportello della cassaforte del duca, entrambi del ‘59 – lasciando probabilmente a Zanobi Lastricati la responsabilità di tutte e due le fusioni. Affida invece al marmo la sua risposta alle malignità dei fiorentini e alle insinuazioni velenose dei colleghi, realizzando per Sforza Almeni quell’Onore che vince l’Inganno (1561), che è forse la sua opera più celebre e una delle gemme del Bargello:
vero saggio di bravura attorno al doppio tema michelangiolesco dell’intreccio di due nudi e della “figura serpentinata”, in cui però la virtuosistica perfezione della tecnica e l’eleganza manierista non impediscono la forza espressiva, né quella tenerezza di carni (“mollezza”), che commosse il Cicognara (1824-25). Sul significato forse anche personale – per l’artista e per il committente - di questa allegoria, che porta alla ribalta la figura discussa di Sforza, pugnalato cinque anni dopo (1566) da Cosimo I in un accesso d’ira, l’‘indagine’ brillante di Claudio Pizzorusso apporta ora nuova luce.
Incoraggiato da quel successo, per tutti gli anni sessanta Vincenzo si dedica alle sculture in marmo e sembra concentrarsi intellettualmente e tecnicamente – lui, nato orafo e modellatore – alla scultura “per via di levare” , secondo il paradigma michelangiolesco, in una sorta di conversione (Zikos).
Dopo la prova dimostrativa dell’Onore, non gli mancano le commissioni pubbliche e importanti, i grandi massi da affrontare con lo scalpello, dove occorre “inanimirsi” appunto, e prepararsi al giudizio del principe e della città. Pur senza speranza di vittoria, sfida i grandi scultori fiorentini come il Cellini e l’Ammannati, presentando in concorso un suo modello (che fu lodato) per il Nettuno della fontana di Piazza (1560).
Come Michelangelo, quasi ripercorrendone i passi e commuovendosi nel riconoscerne i segni, sceglie le bozze nelle cave di Serravezza, come testimonia una sua lettera del ’68. Grandi “bozze” gli serviranno per un’opera monumentale, le tre figure allegoriche – sul tema del buon governo cosimiano – che devono ornare il fronte verso la piazza della nuova fabbrica vasariana degli Uffizi: un nudo femminile per l’Equità e uno maschile per il Rigore, che subito dichiarano la loro dipendenza dalle Ore del giorno dei sepolcri medicei, ma assai più mollemente adagiati sull’ampio cornicione, a suggerire la quiete del regno (Acidini); fra loro – svettante – la figura di Cosimo I in veste di Augusto Imperatore, di olimpica astrazione. Laboriosissima per la ricchezza degli ornati, e ancora in lavorazione nel 1572, la grande statua, oggi al Bargello, fu rimossa di lì, parrebbe, già nel 1585 per volere del granduca Francesco e sostituita dall’attuale ‘vero’ ritratto di Cosimo I del Giambologna: un episodio che potrebbe leggersi come uno dei molti indizi della scarsa simpatia del nuovo principe nei confronti del Danti.
Forse più libero di seguire il suo attuale interesse verso le tecniche scultoree michelangiolesche, in un approccio ‘eroico’ alla durezza della materia e alla nobiltà dei concetti anche moralmente affine al Buonarroti, Vincenzo scolpisce in quegli anni due grandi Madonne marmoree: l’una per il Sepolcro di Carlo de’ Medici nel Duomo di Prato (1564); l’altra, una monumentale Madonna col Bambino – oggi in Santa Croce e presente alla mostra – di un rigore addirittura arcaizzante e si direbbe ‘controriformista’ nella sua frontalità, che recupera anche citazioni quattrocentesche (Davis). Il Vasari (1568) la dice già molto avanzata, ma fu lasciata comunque incompiuta da Vincenzo nelle stanze del convento di Santa Maria degli Angioli, dove aveva lo studio, senza che se ne sapesse la destinazione e la committenza. Allo scadere del decennio, mentre si prepara a modellare e fondere le tre grandi figure del Battistero – un’ultima commissione del duca Cosimo – modella anche (nelle forme michelangiolesche d’una ideale traduzione marmorea) la figura di San Luca per la Cappella dei Pittori all’Annunziata, dove si radunava l’Accademia delle Arti del Disegno, alla quale Vincenzo apparteneva fin dalla fondazione, nel 1563. I componimenti poetici e, soprattutto, il primo libro (dei quindici previsti) del suo Trattato delle perfette proportioni, stampato nel 1567, gli assicurano un posto anche in seno all’ambitissima Accademia Fiorentina,
‘creatura’ del duca Cosimo in persona e riservata ai letterati. Si ha la sensazione che ormai sia l’esercizio intellettuale, e addirittura teorico, a prevalere sulla “pratica” dell’operare, nonostante Vincenzo tocchi appena la quarantina. Se “finitissimo” è il Cosimo I, anche per omaggio al suo signore (Zikos), in qualche misura incompiuti sono il monumento di Prato, la Madonna di Santa Croce, il San Luca dell’Annunziata (se lo pensiamo concepito per il marmo) e perfino i grandi bronzi della Decollazione, lasciati senza rinettatura. Vincenzo continua a lavorare nelle stanze del convento degli Angioli, che aveva occupato fino a pochi anni prima Benedetto Varchi, di cui esegue un delicato profilo marmoreo in bassorilievo, ricordato dalle fonti e malauguratamente disperso: una nuova importante ipotesi, qui affrontata dal Davis, spinge a credere che un qualche rapporto avesse legato l’artista al grande letterato e ai dotti monaci del convento, tanto da suggerire una possibile destinazione originaria della Madonna di Santa Croce alla tomba dell’umanista. Comunque sia, par legittimo pensare a un crescente sentimento religioso, che orienta la vita di Vincenzo e le sue opere: oltre ai camaldolesi di Santa Maria degli Angioli, è indubbiamente legato ai domenicani di Santa Maria Novella, dove è suo fratello Egnazio e soprattutto l’amicissimo Bottonio (autore di una vita del Savonarolache con i suoi sonetti encomiastici dedicati all’artista in più occasioni, costituisce a tutt’oggi una delle fonti più importanti sulle opere di Danti. Per il convento di Santa Maria Novella, nel 1571, Vincenzo scolpisce la Tomba del Beato Giovanni da Salerno, nella più corretta filologia quattrocentesca: inappuntabile pendant del sepolcro rosselliniano della Beata Villana. Ci testimonia della sua cultura specifica e della frequentazione assidua dei maestri del primo Rinascimento, in una vera e propria assimilazione linguistica; ma per altro verso, se è giusta la traccia che attraverso gli studi attuali sul Danti ci ha portato fin qui, quell’opera sembra soprattutto un esercizio morale di severità savonaroliana, che l’artista doveva sentire consono a sé e condiviso da molti, in quel convento. In questo senso mi sembra di poter interpretare anche il memento mori rappresentato dallo scheletro, nel raffinato ovale marmoreo, oggi a Milano e già attribuito a Pierino da Vinci, anch’esso in mostra: squisito oggetto di devozione privata, scolpito anche sul verso con una composizione che, pur largamente incompiuta, subito richiama la donatelliana ‘Madonna di Verona’, raffigura sul fronte una possente Vergine col figlio in braccio, seduta su uno sfondo (a me parrebbe) di rovine classiche che completano il significato proprio “savonaroliano” dello scheletro. che con i suoi sonetti encomiastici dedicati all’artista in più occasioni, costituisce a tutt’oggi una delle fonti più importanti sulle opere di Danti. Per il convento di Santa Maria Novella, nel 1571, Vincenzo scolpisce la Tomba del Beato Giovanni da Salerno, nella più corretta filologia quattrocentesca: inappuntabile pendant del sepolcro rosselliniano della Beata Villana. Ci testimonia della sua cultura specifica e della frequentazione assidua dei maestri del primo Rinascimento, in una vera e propria assimilazione linguistica; ma per altro verso, se è giusta la traccia che attraverso gli studi attuali sul Danti ci ha portato fin qui, quell’opera sembra soprattutto un esercizio morale di severità savonaroliana, che l’artista doveva sentire consono a sé e condiviso da molti, in quel convento. In questo senso mi sembra di poter interpretare anche il memento mori rappresentato dallo scheletro, nel raffinato ovale marmoreo, oggi a Milano e già attribuito a Pierino da Vinci, anch’esso in mostra: squisito oggetto di devozione privata, scolpito anche sul verso con una composizione che, pur largamente incompiuta, subito richiama la donatelliana ‘Madonna di Verona’, raffigura sul fronte una possente Vergine col figlio in braccio, seduta su uno sfondo (a me parrebbe) di rovine classiche che completano il significato proprio “savonaroliano” dello scheletro.
E ancora nel segno dei recuperi quattrocenteschi del Danti da leggere in questa chiave, le forme della Madonna nel rilievo milanese mi sembrano richiamare, con Michelangelo, esempi di pittura fiorentina da Masaccio al Lippi.
Vero è che in mostra si presentano, di questi ultimi anni fiorentini del Danti (1570-73), anche opere di soggetto pagano: ed anzi, più precisamente, una monumentale Venere marmorea (da Casa Buonarroti) e una Venere Anadiomene, bronzea, dallo Studiolo del principe Francesco, in Palazzo Vecchio. La prima, parrebbe denunciare un michelangiolismo da esercitazione accademica di “non finito”, forse fin troppo esplicito per un’opera autografa del Danti e con citazioni addirittura letterali dal ‘Tondo Pitti’ (Zikos): però certe sproporzioni accentuate in verso espressivo (la testa decisamente piccola a fronte del corpo pesante e fermo, frontale come un idolo arcaico scavato in un tronco e per niente mèmore delle eleganze della Maniera) ricordano la Madonna di Santa Croce e potrebbero essere compatibili, a mio vedere, con le ricerche formali di Danti in questi anni di acuta riflessione religiosa e di progressivo allontanamento dall’agone della corte medicea. V’è d’altronde una traccia documentaria di una possibile committenza medicea dell’opera. Meno in linea con questi pensieri è la seducente Venere Anadiomene, che riprende la posa dell’Apollo-David di Michelangelo, cui in mostra è posta accanto: l’unica figura non documentata dei bronzi dello Studiolo, ma autorevolmente riferita a Vincenzo. Ancor più problematico, l’Apollo Pitio (dall’Accademia delle Arti del Disegno): attribuito al Danti di recente, sulla base di alcuni indubitabili richiami a particolari dell’Onore che vince l’Inganno, e possibilmente prova (in verità non felicissima) per quella commissione. Sarà l’attuale confronto visivo diretto a confermarne o a smentirne la paternità dantiana.
Vincenzo lascia Firenze nella primavera 1573 e la partenza non ha spiegazioni ufficiali: forse per assecondare un desiderio della moglie, secondo la dicerìa corrente in città, riferita da Vincenzo Borghini in una lettera al Vasari; più probabile che la vera ragione fosse il suo disagio crescente, in un ambiente a lui non più favorevole e dominato dall’astro del Giambologna, che il principe Francesco predilige; forse, infine, una salute prematuramente compromessa e l’istinto di tornare a casa. L’epilogo perugino è difatti breve, sebbene pieno di incarichi e di onori (Mancini): opere di architettura, di urbanistica, di idraulica, che mettono in luce altre sue competenze;
più volte il consolato della neonata Accademia di Belle Arti, che ha contribuito a fondare e alla quale ha donato, al rientro da Firenze, i calchi in gesso delle Ore del giorno, dalle tombe medicee, fatti da Egnazio e da Timoteo Refati nel 1570, col consenso del Granduca: tra i più antichi in assoluto che ci siano conservati e - due dei quattro - giunti in questa occasione al Bargello dall’Accademia di Perugia, come una testimonianza d’amore da parte della sua città.
Vincenzo Danti muore a Perugia, il 26 maggio 1576, a quarantasei anni appena, ed è sepolto nella chiesa di San Domenico. Sulla sua tomba, il busto scolpito da Valerio Cioli, mostra i bei tratti che aveva.
Un’ultima riflessione, a conclusione di questo breve “percorso” introduttivo, condotto attraverso il doppio binario della vita di Vincenzo Danti e delle sue opere in mostra, con l’intento di tracciare anche un primo, sommario indice ragionato di questo catalogo. Riguarda la varietà linguistica del Danti, a cui accennavo in apertura, come prima impressione di un visitatore che avverta la difficoltà di individuare in tutte le opere esposte un denominatore comune che ne codifichi esattamente lo ‘stile’.
Ma questa indiscutibile caratteristica dell’opera complessiva del Danti – un artista colto, padrone del “disegno” e di un’ampia gamma di generi, di tecniche e di lingue figurative - fu anche il risultato di una sua ricerca espressiva che, come per Michelangelo, era guidata da istanze profonde, secondo una personale via maestra che abbiamo brevemente tentato di tracciare. Accostandosi alle sue opere, riunite per la prima volta, il visitatore saprà cogliere al di là di un’apparente ‘polifonia’, il timbro puro e sonoro della sua voce.
Beatrice Paolozzi Strozzi
Direttrice Museo Nazionale del Bargello
15
aprile 2008
I grandi bronzi del Battistero. L’arte di Vincenzo Danti, discepolo di Michelangelo
Dal 15 aprile al 07 settembre 2008
arte antica
Location
MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO
Firenze, Via Del Proconsolo, 4, (Firenze)
Firenze, Via Del Proconsolo, 4, (Firenze)
Biglietti
intero € 7 (comprensivo dell’ingresso al museo); ridotto € 3,50 (per i cittadini della Comunità Europea tra i 18 e i 25 anni); ridotto gratuito per i cittadini della Comunità Europea sotto i 18 e sopra i 65
Orario di apertura
mar-dom, 1°, 3° e 5° lunedì del mese ore 8.15-18; chiuso il 2° e il 4° lunedì del mese ed il 1° maggio
Sito web
www.danti2008.it
Editore
GIUNTI
Ufficio stampa
SVEVA FEDE
Autore
Curatore