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I hope I die before I get old
Fare della vita un’opera d’Arte sapendo che “il Bello” è anche per antonomasia effimero, volatile, veloce come un riff di chitarra. Non dunque un inno alla morte fine a sé stesso, ma piuttosto il desiderio di esorcizzarla e deriderla, la volontà di buttarsi a capofitto nella vita, anche a costo di bruciarla in un’unica fiammata. Queste le suggestioni con le quali gli artisti in mostra sono stati invitati a confrontarsi.
Comunicato stampa
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I hope I die before I get old
Parliamo della mia generazione, quella di chi è nato negli anni ‘80: gli ultimi ad aver visto in piedi il Muro di Berlino e probabilmente anche gli ultimi ad aver costruito “muri” con il lego colorato.
A ben vedere, tuttavia, la tendenza ad una sorta di “auto-analisi generazionale” non è cosa nuova se nel 1965 i The Who pubblicavano il loro singolo più famoso: “My generation”, appunto.
Il chitarrista di quella mitica band, Pete Townshend, alla fine degli anni ‘50 frequentava a Londra la Ealing Art School: vi insegnava un certo Gustav Metzger, che nel ‘59 pubblicava il “Primo Manifesto dell’Arte autodistruttiva”.
Tra le varie affermazioni contenute in quel Manifesto una in particolare avrebbe affascinato il giovane Townshend, quella secondo la quale l’opera d’arte avrebbe dovuto avere un’esistenza brevissima, dai pochi attimi al massimo di una ventina d’anni: un’esistenza al termine della quale l’opera sarebbe dovuta essere rimossa dal suo spazio e gettata tra i rottami.
Proprio uno dei versi di “My generation” dice “I hope I die before I get old”, “spero di morire prima di poter diventare vecchio”, come a voler sintetizzare un vecchio principio dell’estetica decadente, “la vita come opera d’Arte” e l’affermazione di Metzger sulla durata di essa.
In sostanza: facciamo della vita un’opera d’Arte, ma sapendo che “il Bello” è anche per antonomasia effimero, volatile, veloce come un riff di chitarra.
Non dunque un inno alla morte fine a sé stesso, ma piuttosto il desiderio di esorcizzarla e deriderla, la volontà di buttarsi a capofitto nella vita, anche a costo di bruciarla in un’unica fiammata.
Ho così invitato sei giovani, tutti under 30, a confrontarsi con questa suggestione, sapendo che essa sarebbe stata ampiamente accolta e condivisa.
La mia generazione non vuole scherzare con la vita, ma scherzare della vita, volgerle uno sguardo disincantato e disinibito, ed in questo modo raccontarsi (Talkin’ about...).
E all’abbrutimento dilagante questi ragazzi hanno voluto replicare in maniera chiara e forte con la loro arte spesso nervosa, veloce, a tinte forti, punk.
All’assenza di contenuto così paventata nella/dalla comunicazione contemporanea hanno voluto rispondere aggiungendo spesso parole alle immagini, a voler invece ribadire una sovrabbondanza di quel contenuto, che “l’immagine” non è tutto, come si dice, ma che di essa e del culto che se ne fa, ci si può prendere gioco.
Una ventina d’anni al massimo sarebbe dovuta durare un’opera d’arte secondo Metzger: questa la “durata” anagrafica degli artisti in mostra che si sottopongono al vostro sguardo.
Qui di seguito una breve presentazione degli artisti in mostra.
Mute e serrate per sempre le bocche dei sei personaggi proposti da Elbluo (al secolo Giacomo Bagnara) e definitivamente chiuso lo sguardo al mondo di chi forse ha già visto troppo. Dietro l’apparenza di donne e uomini comuni l’artista nasconde alcune delle più controverse icone rock: ci vengono qui restituite in una nuova dimensione quasi pirandelliana, quella di chi deliberatamente decide di sottrarsi ad un’esistenza – la propria - non più sostenibile, di rinunciare al mito di sé e così riconsegnarsi alla vita con una nuova “non-identità.
Si dice che il rock sia la musica del demonio, mentre Dante ci assicura che i suicidi vadano all’inferno. Pierpaolo Febbo smentisce tutto ciò. Nei suoi ritratti Nick Drake, Elliot Smith e Dennes Boon dei Minutemen prendono direttamente la parola e raccontano la verità su sé stessi e su come si siano congedati dalla vita. Quelle parole restano tuttavia impronunciabili, la comunicazione irrimediabilmente interrotta, le verità per sempre nascoste. All’artista non resta altro che spalancare fiduciosamente loro le porte del paradiso.
Come autoscatti presi da un adolescente davanti allo specchio della propria cameretta o del bagno della scuola i disegni di Laura Lamoratta fissano gesti minimi di vanità femminile e rabbia; ciò che comunemente è percepito come umiliazione e sconfitta qui diventa quasi motivo di orgoglio, degno di essere immortalato.
Dario Molinaro volge il suo sguardo impietoso e sarcastico ad una società il cui tradizionale assetto è percepito come ribaltato: bambini cresciuti troppo presto e che rimpiangono un’infanzia mai vissuta e adulti mai realmente diventati maturi. Tra i due estremi si colloca il magma informe dei “non più bambini ma non ancora grandi”: privi di punti di riferimento, condannati a sbandare tra falsi miti e percezioni distorte del reale.
Approfondisce il tema dell’autoritratto Cosimo Piediscalzi, restituendoci un’immagine di sé sfuggente e scomposta, tutt’altro che pacificata. Il colore viola, col suo bagaglio evocativo, domina nei sei lavori in mostra e fa da sottofondo ad un irriverente gioco di morti presunte ed annunciate.
Raffaele Siniscalco interpreta il tema della mostra dedicando i lavori esposti ai primi versi di “My generation”, il celebre brano degli The Who. La netta contrapposizione tra il rosso ed il nero segna il confine tra un “noi” ed un “loro”, diventa metafora di due generazioni che si puntano vicendevolmente il dito contro eludendo il confronto dialettico, che si condannano a morte ancor prima di celebrare il processo.
Ed ora...why don’t you all f-fade away?? Annalisa Mentana
Parliamo della mia generazione, quella di chi è nato negli anni ‘80: gli ultimi ad aver visto in piedi il Muro di Berlino e probabilmente anche gli ultimi ad aver costruito “muri” con il lego colorato.
A ben vedere, tuttavia, la tendenza ad una sorta di “auto-analisi generazionale” non è cosa nuova se nel 1965 i The Who pubblicavano il loro singolo più famoso: “My generation”, appunto.
Il chitarrista di quella mitica band, Pete Townshend, alla fine degli anni ‘50 frequentava a Londra la Ealing Art School: vi insegnava un certo Gustav Metzger, che nel ‘59 pubblicava il “Primo Manifesto dell’Arte autodistruttiva”.
Tra le varie affermazioni contenute in quel Manifesto una in particolare avrebbe affascinato il giovane Townshend, quella secondo la quale l’opera d’arte avrebbe dovuto avere un’esistenza brevissima, dai pochi attimi al massimo di una ventina d’anni: un’esistenza al termine della quale l’opera sarebbe dovuta essere rimossa dal suo spazio e gettata tra i rottami.
Proprio uno dei versi di “My generation” dice “I hope I die before I get old”, “spero di morire prima di poter diventare vecchio”, come a voler sintetizzare un vecchio principio dell’estetica decadente, “la vita come opera d’Arte” e l’affermazione di Metzger sulla durata di essa.
In sostanza: facciamo della vita un’opera d’Arte, ma sapendo che “il Bello” è anche per antonomasia effimero, volatile, veloce come un riff di chitarra.
Non dunque un inno alla morte fine a sé stesso, ma piuttosto il desiderio di esorcizzarla e deriderla, la volontà di buttarsi a capofitto nella vita, anche a costo di bruciarla in un’unica fiammata.
Ho così invitato sei giovani, tutti under 30, a confrontarsi con questa suggestione, sapendo che essa sarebbe stata ampiamente accolta e condivisa.
La mia generazione non vuole scherzare con la vita, ma scherzare della vita, volgerle uno sguardo disincantato e disinibito, ed in questo modo raccontarsi (Talkin’ about...).
E all’abbrutimento dilagante questi ragazzi hanno voluto replicare in maniera chiara e forte con la loro arte spesso nervosa, veloce, a tinte forti, punk.
All’assenza di contenuto così paventata nella/dalla comunicazione contemporanea hanno voluto rispondere aggiungendo spesso parole alle immagini, a voler invece ribadire una sovrabbondanza di quel contenuto, che “l’immagine” non è tutto, come si dice, ma che di essa e del culto che se ne fa, ci si può prendere gioco.
Una ventina d’anni al massimo sarebbe dovuta durare un’opera d’arte secondo Metzger: questa la “durata” anagrafica degli artisti in mostra che si sottopongono al vostro sguardo.
Qui di seguito una breve presentazione degli artisti in mostra.
Mute e serrate per sempre le bocche dei sei personaggi proposti da Elbluo (al secolo Giacomo Bagnara) e definitivamente chiuso lo sguardo al mondo di chi forse ha già visto troppo. Dietro l’apparenza di donne e uomini comuni l’artista nasconde alcune delle più controverse icone rock: ci vengono qui restituite in una nuova dimensione quasi pirandelliana, quella di chi deliberatamente decide di sottrarsi ad un’esistenza – la propria - non più sostenibile, di rinunciare al mito di sé e così riconsegnarsi alla vita con una nuova “non-identità.
Si dice che il rock sia la musica del demonio, mentre Dante ci assicura che i suicidi vadano all’inferno. Pierpaolo Febbo smentisce tutto ciò. Nei suoi ritratti Nick Drake, Elliot Smith e Dennes Boon dei Minutemen prendono direttamente la parola e raccontano la verità su sé stessi e su come si siano congedati dalla vita. Quelle parole restano tuttavia impronunciabili, la comunicazione irrimediabilmente interrotta, le verità per sempre nascoste. All’artista non resta altro che spalancare fiduciosamente loro le porte del paradiso.
Come autoscatti presi da un adolescente davanti allo specchio della propria cameretta o del bagno della scuola i disegni di Laura Lamoratta fissano gesti minimi di vanità femminile e rabbia; ciò che comunemente è percepito come umiliazione e sconfitta qui diventa quasi motivo di orgoglio, degno di essere immortalato.
Dario Molinaro volge il suo sguardo impietoso e sarcastico ad una società il cui tradizionale assetto è percepito come ribaltato: bambini cresciuti troppo presto e che rimpiangono un’infanzia mai vissuta e adulti mai realmente diventati maturi. Tra i due estremi si colloca il magma informe dei “non più bambini ma non ancora grandi”: privi di punti di riferimento, condannati a sbandare tra falsi miti e percezioni distorte del reale.
Approfondisce il tema dell’autoritratto Cosimo Piediscalzi, restituendoci un’immagine di sé sfuggente e scomposta, tutt’altro che pacificata. Il colore viola, col suo bagaglio evocativo, domina nei sei lavori in mostra e fa da sottofondo ad un irriverente gioco di morti presunte ed annunciate.
Raffaele Siniscalco interpreta il tema della mostra dedicando i lavori esposti ai primi versi di “My generation”, il celebre brano degli The Who. La netta contrapposizione tra il rosso ed il nero segna il confine tra un “noi” ed un “loro”, diventa metafora di due generazioni che si puntano vicendevolmente il dito contro eludendo il confronto dialettico, che si condannano a morte ancor prima di celebrare il processo.
Ed ora...why don’t you all f-fade away?? Annalisa Mentana
17
luglio 2009
I hope I die before I get old
Dal 17 luglio al 06 settembre 2009
arte contemporanea
Location
MASSERIA SANT’AGAPITO
Lucera, Via Vaccarella, 117, (Foggia)
Lucera, Via Vaccarella, 117, (Foggia)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 17.00 alle 23.00.
Vernissage
17 Luglio 2009, ore 19
Autore
Curatore