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I Maestri Veneti del Novecento
La nuova sede de “Il Salotto dell’Arte” di Portogruaro – aperto qualche anno fa da Matteo Editore – ospita per la sua inaugurazione la mostra “I MAESTRI VENETI” che raccoglie alcune delle opere più significative della pittura veneziana del Novecento. L’obiettivo è quello di valorizzare una delle esperienze creative più importanti del panorama culturale del secolo scorso, determinante anche per gli sviluppi della ricerca figurativa contemporanea
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La nuova sede de “Il Salotto dell’Arte” di Portogruaro – aperto qualche anno fa da Matteo Editore –
ospita per la sua inaugurazione la mostra “I MAESTRI VENETI” che raccoglie alcune delle opere
più significative della pittura veneziana del Novecento. L’obiettivo è quello di valorizzare una delle
esperienze creative più importanti del panorama culturale del secolo scorso, determinante anche per
gli sviluppi della ricerca figurativa contemporanea.
“La mostra presenta uno spaccato storico quanto mai, se lo si giudica, riassuntivo, forse troppo
parziale, e nondimeno utile per sollecitare magari un’ulteriore riflessione su di una realtà artistica
che a Venezia ha visto affermarsi in quel tempo sia figure di grande rilievo internazionale le quali
hanno contribuito inoltre alla formazione di movimenti dell’importanza del Fronte Nuovo delle Arti
e dello Spazialismo, sia personalità altrettanto significative, benché più isolate, come Cesetti.
Minassian, Music, riproponendo con lo stesso scopo anche un esponente della tradizione locale
quale Fioravante Seibezzi, l’artista forse più rappresentativo del neoimpressionismo lagunare la cui
prolifica dizione ancora oggi si può riconoscere in vari eredi e seguaci.
L’attuale esposizione, che tra l’altro offre motivi per un confronto in ogni caso stimolante, non
segue però un criterio rigorosamente cronologico. come di solito avviene per consimili occasioni di
carattere parimenti ricognitivo, giacché non ha la pretesa di avanzare una diversa esplorazione
critica e neppure si è posta il compito di ricostruire almeno qualche profilo storiografico, sia pure
esemplificativo, della complessa e variegata situazione di quel fondamentale periodo. Anzi dalla
particolare scelta delle opere di questi protagonisti - ognuno dei quali vanta in effetti nel corso del
loro lavoro indirizzi e sviluppi formali talvolta assai più avvincenti e diramati, se non anche di
maggiore incidenza innovativa - risulta piuttosto che la riepilogazione seguita nell’odierna
circostanza si è giustamente limitata a registrare soltanto la straordinaria qualità comunque delle
varie proposte espressive e a metterne in risalto le singole elaborazioni, fornendo spunti conoscitivi
di rinnovato interesse.
Si tratta di opere che si riferiscono d’altronde a stagioni stilistiche persino diverse nel percorso
individualmente svolto dagli artisti e ciononostante esse vengono ugualmente a confermare la
direzione pur sempre inconfondibile delle loro originali ricerche e delle loro relative conquiste
poetiche, Proprio perché non si è esclusivamente cercato di prospettare un raffronto storico, già più
volte ormai rigorosamente consacrato attraverso rassegne davvero esaustive e quindi di ben altra
ampiezza e portata - cosa questa che non sarebbe stato possibile realizzare nei contenuti locali del
Salotto - si è allora preferito far vedere opere che, anziché corrispondere tutte a periodi più o meno
coevi, fossero viceversa indicative di momenti differenti, ossia di molteplici situazioni creative e di
alternative posizioni estetiche le quali in un certo senso documentassero però l’intera gittata di
quell’aggiornato clima culturale che si era aperto per merito di questi fautori all’interno
dell’ambiente artistico veneziano. Ciò ha permesso di selezionare le opere con una grande libertà e
senza condizionamenti di sorta, cioè di poter quindi segnalare la varietà allora degli orientamenti
linguistici e di esibire prove che appartengono quasi agli esordi di qualche artista oppure altre
relative, invece, alla piena maturità del loro autore, ma per di più si è intanto voluto mostrare dipinti
poco noti, sebbene già catalogati, anzi talvolta mai esposti, ma meritevoli di non minore rigenerante
attenzione.
Stupefacente a tale proposito appare, infatti, il lavoro giovanile di Emilio Vedova, Teschio, del ’42,
dedicato al tema della vanitas, un memento mori di grande intensità espressiva, pervaso tuttavia di
ancora feconde risonanze barocche e carico già di una impulsiva drammaticità, di un furor
gestativo, lo stesso che si propagherà sconfinante e, da ultimo, clamorosamente liberatorio, nella
tumultuosa visionarietà cosmica dei suoi celebri Oltre.
Di segno del tutto opposto è la luce metafisica che anima l’emblematica figurazione degli Occhi
nello spazio di Virgilio Guidi, da lui eseguito nel ’73, in età assai tarda, ma che costituisce un
folgorante esempio della sua inesausta vitalità, di una capacità di rinnovamento addirittura
sconcertante per ideazione e per efficace risoluzione iconografica. Lo spazio essenzialmente spartito
da una geometria che configura altre espressioni suprematiste accoglie e definisce con mistica
chiarezza il moto di enti oculari naviganti nel cosmo, simboli elementari di una visione che solo
rispecchia l’abbagliante fulgore di sé.
Altrettanto misterioso il pulsante ritmo della luce bianca di Mario Deluigi, affiorante da un suo
tipico Grattage,- manifestazione della fase ultima delle straordinarie ricerche dell’artista - dove
dalle sottili trame segniche, lievi danzanti incisioni sulla materia, si ingorga e si dipana un flusso di
inarrestabili energie spaziali, un continuum di nomadi luminose che schiudono infinite modulazioni
plastiche. Un rovesciamento dialettico tra positivo e negativo, tra pieno e vuoto, per raggiungere
equivalenze insondabili, oltre le soglie del visibile, dentro l’empireo dell’Essere.
Bruno Saetti è presente con un dipinto della piena maturità che ripropone difatti una sua classica
versione sul motivo del Paesaggio con il sole, decantando i valori propriamente costruttivi della
materia-colore, attraverso una semplificazione formale in funzione addirittura astraente, portata
nondimeno a significare, seppure in maniera icastica, la fermezza di una necessaria concretezza
strutturale, l’essenzialità di un principio compositivo che è insieme assoluta ragione plastica,
formulazione corposa, quasi tattile, dell’immagine così trasfigurata e pregnante riscontro
emozionale.
Anche il lavoro di Leone Minassian, Senza titolo, del ’73, rientra nella sua più nota produzione,
nella fase in cui l’artista aveva sviluppato un personale lessico mutuato dai linguaggi del
surrealismo organico, scoprendo inusitate analogie formali tra cose naturali ed immagini di pulsioni
oniriche e fantastiche Un movimento elicoidale accompagna lo sviluppo morbidamente sinuoso dei
suoi enigmatici oggetti, corpi affusolati i quali si innalzano al centro della superficie pittorica,
costruiti mediante accese fasce cromatiche, suscitando insidiose tensioni, fascinose evocazioni di un
processo metamorfico come crogiuolo di imprevedibili meraviglie, sia simboliche che visive.
Di Giuseppe Cesetti è qui presentato il dipinto Vaso di fiori con cavallino, del ’69, che condensa
l’afflato di una nuova visione arcadica, di un sentimento di ritrovata primeva bellezza della cose,
naturali, tradotta con un nitore formale e una chiarezza cromatica che ben si accorda alla sua
poetica, peraltro lontana dal clima selvaggio e strapaesano a cui di solito la sua pittura viene
accostata. Una diversa genuina purezza si effonde dal suo animo invece autenticamente naif che
egli ha saputo serbare e trasmettere anche in seguito con intatto e coinvolgente stupefazione.
Promana un incanto ancora più segreto il Motivo dalmata di Zoran Music, del ’67, per la resa
introspettiva con cui l’artista ha raffigurato i luoghi di una ancestrale memoria che pare riverberare
persino le cadenze di remote eleganze decorative, i ritmi astratti di origine orientale trasferiti con
rapinosa immediatezza in un contesto naturale di preziose distillazioni figurali allusive a una terra di
rugose ma fermentanti vivezze.
Richiama un’estenuante dolcezza l’atmosfera figurativa che si respira nel trepido e stemperato
Paesaggio di Fioravante Seibezzi, del ‘48, nel quale il colore è soltanto un fiato di luce, sufficiente
però a far vibrare dentro le forme descritte, anzi appena accennate, una materia pittorica di ricettive
flagranze, di referenti trasparenze fenomeniche, e declinata con febbrile sensibilità di sguardo,
appunto catturata e restituita alla prensile istantaneità dell’impression.
Con il mirabile dipinto Figura dinamica, del’89. Armando Pizzinato rinnova, peraltro
coerentemente, i modi qui del proprio iniziale costruttivismo astratto, inchiodando il dato reale in
una inflessibile razionalità geometrica che ne esalta non solo esteticamente il rigoroso movimento
strutturale ma anche l’acutezza percettiva ed inventiva affidate al senso poi più intimo di una
risolutiva e felice libertà lirica.
Il principio di una pura architettura del colore propugnato nelle sue riflessive astrazioni da Giuseppe
Santomaso trova in questa brillante prova: Senza titolo, del ’67, un seducente compimento, offrendo
infatti un aureo modello della sua sintassi formale, improntata sull’esigenza di una piena autonomia
del processo immaginativo concepito come sintesi ricreativa dell’esperienza del reale. L’ampio arco
che sormonta le sagome nere sulla base assurge spazialmente a riequilibrare ogni dissolvimento
cromatico in una orchestrata modulazione tonale intrisa di memoriali ed evocativi splendori.
Anton Giulio Ambrosini è altresì ben rappresentato con un’opera delle sue estreme e conclusive
sperimentazioni con le quali è giunto, come in questo trittico, a riscoprire persino il fascino
misterioso di rituali cifrari visivi le cui modalità compositive provengono dalle forme e dai
significati della cultura mistica orientale, computando o meglio coniugando, nell’iterate strutture
ritmiche che inscrivono taluni ideogrammi cinesi, gli elementi necessari di un proprio linguaggio.
rigorosamente astratto o. più precisamente, ascetico che in sé non solo connette ma aspira in effetti
ad identificare lo stesso bisogno spirituale con la relativa purezza della percezione.
Davvero risplendente il dipinto Rocket, del’52, di Vinicio Vianello, la cui pittura si impiega
precocemente a trascrivere, addirittura con lo spray, l’assoluta funzione spaziale del colore, anche
se ancora in una chiave orfica, dispiegando allo stesso tempo energie segniche di natura automatica,
informale, in un medesimo espansivo effetto di vaporosi contrasti formali e di deflagranti eterei
sconfinamenti visivi.
Risuona non solo visivamente l’esplosivo nucleo che spicca al centro dell’incandescente spazio
della piccola tempera: Avvenimento, del 57, di Edmondo Bacci : raffigurazione forse di un corpo
astrale che avvampa di erompenti dinamismi cromatici traslati in un viluppo magnetico di strepitosi
lampeggiamenti. Si avverte totalizzante il sentimento del colore-luce che ha portato l‘artista ad
esplorare con intuitiva grazia immaginativa regioni di epifanie cosmiche, altrimenti irraggiungibili.
Si accosta su simili scelte linguistiche per distinguersi però nettamente la bellissima composizione
del 75, di Gino Morandis: un meditato scandaglio su oscure profondità siderali, dove vengono a
disseminarsi una miriade di enti formali, di accadimenti rivelativi di un’astrazione fantastica che
capta e raccorda pulsioni interiori e movimenti di una ideale fisica dell’universo.
Affonda a scoprire altri nuovi spazi d’immagine anche il dipinto: Germinazioni, del’66. di Luciano
Gaspari, il quale spinge lo sguardo ad investigare invece il mondo sotterraneo della natura, a
raffigurare analogicamente i fenomeni di rilucente strutture biomorfiche: la genesi, la crescita, la
proliferazione di elementi vegetali, forme efflorescenti che si stagliano con intrigante evidenza,
ingigantite nella lucida messa a fuoco pittorica, dilagando in un inebriante vitalismo di magie
cromatiche.
A non diverse problematiche si consegna ugualmente l’opera: Genesi, del’61, di Bruna Gasparini,
anche se il tema e il linguaggio, da lei adottati, risentono di certi modi sia dell’Informale che dello
Spazialismo, riuscendo l’artista a fonderli comunque in una cifra espressiva del tutto personale. Da
un fondo oscuro giunge a un piano lattiginoso una sorta di embrione formale composto da dense
cellule materiche, da striature di colore, su registri bassi ma sapientemente intonati, squarciati da
improvvise illuminazioni, una corposità aggregante per interni silenziosi incanti, per ascolti di
ineludibili presagi dell’anima.
Attrae da subito la meravigliosa composizione Senza titolo, del ’54, di Tancredi, uno scintillante,
festoso canto lirico che trova in sé il dono di riuscire a creare, con sublime libertà immaginativa,
nuove visioni di natura. Si avverte nella brillante sembianza di questi fiori davvero splendidamente
solari una rara felicità inventiva, un’infrenabile gioia vitalistica ma anche una latente mestizia, uno
stato di preveggenza di altissine aspirazioni poetiche e di contrastati turbamenti esistenziali, vissuti
con slancio generoso e con profonda impareggiabile sensibilità.
Così sono stati sottolineati soltanto alcuni momenti e situazioni del ben più articolato operare di
ognuno degli artisti, ma anche additate con ciò modalità e tendenze culturali fra loro assai
diversificate, eppure tanto quei momenti quanto quelle situazioni risultano ugualmente tali da venire
a tratteggiare una vicenda non solo ormai storica, proiettandosi del resto le stesse opere nella
dimensione di un presente che ogni vera esperienza dell’arte rinnova di per sé, e comunque si può
infine ricavare dalle scelte effettuate l’attestazione oggettiva del fervore intellettuale e delle novità
espressive che quel tempo ha saputo produrre. Perciò la mostra vuole essere un omaggio a questi
artefici ed insieme un elogio della pittura in quanto tale, ossia di quella verità che la pittura di-svela
nella sua incondizionata pronuncia evocante ancora un senso che da sempre è l’origine di ogni
forma di bellezza” (Toni Toniatto).
ospita per la sua inaugurazione la mostra “I MAESTRI VENETI” che raccoglie alcune delle opere
più significative della pittura veneziana del Novecento. L’obiettivo è quello di valorizzare una delle
esperienze creative più importanti del panorama culturale del secolo scorso, determinante anche per
gli sviluppi della ricerca figurativa contemporanea.
“La mostra presenta uno spaccato storico quanto mai, se lo si giudica, riassuntivo, forse troppo
parziale, e nondimeno utile per sollecitare magari un’ulteriore riflessione su di una realtà artistica
che a Venezia ha visto affermarsi in quel tempo sia figure di grande rilievo internazionale le quali
hanno contribuito inoltre alla formazione di movimenti dell’importanza del Fronte Nuovo delle Arti
e dello Spazialismo, sia personalità altrettanto significative, benché più isolate, come Cesetti.
Minassian, Music, riproponendo con lo stesso scopo anche un esponente della tradizione locale
quale Fioravante Seibezzi, l’artista forse più rappresentativo del neoimpressionismo lagunare la cui
prolifica dizione ancora oggi si può riconoscere in vari eredi e seguaci.
L’attuale esposizione, che tra l’altro offre motivi per un confronto in ogni caso stimolante, non
segue però un criterio rigorosamente cronologico. come di solito avviene per consimili occasioni di
carattere parimenti ricognitivo, giacché non ha la pretesa di avanzare una diversa esplorazione
critica e neppure si è posta il compito di ricostruire almeno qualche profilo storiografico, sia pure
esemplificativo, della complessa e variegata situazione di quel fondamentale periodo. Anzi dalla
particolare scelta delle opere di questi protagonisti - ognuno dei quali vanta in effetti nel corso del
loro lavoro indirizzi e sviluppi formali talvolta assai più avvincenti e diramati, se non anche di
maggiore incidenza innovativa - risulta piuttosto che la riepilogazione seguita nell’odierna
circostanza si è giustamente limitata a registrare soltanto la straordinaria qualità comunque delle
varie proposte espressive e a metterne in risalto le singole elaborazioni, fornendo spunti conoscitivi
di rinnovato interesse.
Si tratta di opere che si riferiscono d’altronde a stagioni stilistiche persino diverse nel percorso
individualmente svolto dagli artisti e ciononostante esse vengono ugualmente a confermare la
direzione pur sempre inconfondibile delle loro originali ricerche e delle loro relative conquiste
poetiche, Proprio perché non si è esclusivamente cercato di prospettare un raffronto storico, già più
volte ormai rigorosamente consacrato attraverso rassegne davvero esaustive e quindi di ben altra
ampiezza e portata - cosa questa che non sarebbe stato possibile realizzare nei contenuti locali del
Salotto - si è allora preferito far vedere opere che, anziché corrispondere tutte a periodi più o meno
coevi, fossero viceversa indicative di momenti differenti, ossia di molteplici situazioni creative e di
alternative posizioni estetiche le quali in un certo senso documentassero però l’intera gittata di
quell’aggiornato clima culturale che si era aperto per merito di questi fautori all’interno
dell’ambiente artistico veneziano. Ciò ha permesso di selezionare le opere con una grande libertà e
senza condizionamenti di sorta, cioè di poter quindi segnalare la varietà allora degli orientamenti
linguistici e di esibire prove che appartengono quasi agli esordi di qualche artista oppure altre
relative, invece, alla piena maturità del loro autore, ma per di più si è intanto voluto mostrare dipinti
poco noti, sebbene già catalogati, anzi talvolta mai esposti, ma meritevoli di non minore rigenerante
attenzione.
Stupefacente a tale proposito appare, infatti, il lavoro giovanile di Emilio Vedova, Teschio, del ’42,
dedicato al tema della vanitas, un memento mori di grande intensità espressiva, pervaso tuttavia di
ancora feconde risonanze barocche e carico già di una impulsiva drammaticità, di un furor
gestativo, lo stesso che si propagherà sconfinante e, da ultimo, clamorosamente liberatorio, nella
tumultuosa visionarietà cosmica dei suoi celebri Oltre.
Di segno del tutto opposto è la luce metafisica che anima l’emblematica figurazione degli Occhi
nello spazio di Virgilio Guidi, da lui eseguito nel ’73, in età assai tarda, ma che costituisce un
folgorante esempio della sua inesausta vitalità, di una capacità di rinnovamento addirittura
sconcertante per ideazione e per efficace risoluzione iconografica. Lo spazio essenzialmente spartito
da una geometria che configura altre espressioni suprematiste accoglie e definisce con mistica
chiarezza il moto di enti oculari naviganti nel cosmo, simboli elementari di una visione che solo
rispecchia l’abbagliante fulgore di sé.
Altrettanto misterioso il pulsante ritmo della luce bianca di Mario Deluigi, affiorante da un suo
tipico Grattage,- manifestazione della fase ultima delle straordinarie ricerche dell’artista - dove
dalle sottili trame segniche, lievi danzanti incisioni sulla materia, si ingorga e si dipana un flusso di
inarrestabili energie spaziali, un continuum di nomadi luminose che schiudono infinite modulazioni
plastiche. Un rovesciamento dialettico tra positivo e negativo, tra pieno e vuoto, per raggiungere
equivalenze insondabili, oltre le soglie del visibile, dentro l’empireo dell’Essere.
Bruno Saetti è presente con un dipinto della piena maturità che ripropone difatti una sua classica
versione sul motivo del Paesaggio con il sole, decantando i valori propriamente costruttivi della
materia-colore, attraverso una semplificazione formale in funzione addirittura astraente, portata
nondimeno a significare, seppure in maniera icastica, la fermezza di una necessaria concretezza
strutturale, l’essenzialità di un principio compositivo che è insieme assoluta ragione plastica,
formulazione corposa, quasi tattile, dell’immagine così trasfigurata e pregnante riscontro
emozionale.
Anche il lavoro di Leone Minassian, Senza titolo, del ’73, rientra nella sua più nota produzione,
nella fase in cui l’artista aveva sviluppato un personale lessico mutuato dai linguaggi del
surrealismo organico, scoprendo inusitate analogie formali tra cose naturali ed immagini di pulsioni
oniriche e fantastiche Un movimento elicoidale accompagna lo sviluppo morbidamente sinuoso dei
suoi enigmatici oggetti, corpi affusolati i quali si innalzano al centro della superficie pittorica,
costruiti mediante accese fasce cromatiche, suscitando insidiose tensioni, fascinose evocazioni di un
processo metamorfico come crogiuolo di imprevedibili meraviglie, sia simboliche che visive.
Di Giuseppe Cesetti è qui presentato il dipinto Vaso di fiori con cavallino, del ’69, che condensa
l’afflato di una nuova visione arcadica, di un sentimento di ritrovata primeva bellezza della cose,
naturali, tradotta con un nitore formale e una chiarezza cromatica che ben si accorda alla sua
poetica, peraltro lontana dal clima selvaggio e strapaesano a cui di solito la sua pittura viene
accostata. Una diversa genuina purezza si effonde dal suo animo invece autenticamente naif che
egli ha saputo serbare e trasmettere anche in seguito con intatto e coinvolgente stupefazione.
Promana un incanto ancora più segreto il Motivo dalmata di Zoran Music, del ’67, per la resa
introspettiva con cui l’artista ha raffigurato i luoghi di una ancestrale memoria che pare riverberare
persino le cadenze di remote eleganze decorative, i ritmi astratti di origine orientale trasferiti con
rapinosa immediatezza in un contesto naturale di preziose distillazioni figurali allusive a una terra di
rugose ma fermentanti vivezze.
Richiama un’estenuante dolcezza l’atmosfera figurativa che si respira nel trepido e stemperato
Paesaggio di Fioravante Seibezzi, del ‘48, nel quale il colore è soltanto un fiato di luce, sufficiente
però a far vibrare dentro le forme descritte, anzi appena accennate, una materia pittorica di ricettive
flagranze, di referenti trasparenze fenomeniche, e declinata con febbrile sensibilità di sguardo,
appunto catturata e restituita alla prensile istantaneità dell’impression.
Con il mirabile dipinto Figura dinamica, del’89. Armando Pizzinato rinnova, peraltro
coerentemente, i modi qui del proprio iniziale costruttivismo astratto, inchiodando il dato reale in
una inflessibile razionalità geometrica che ne esalta non solo esteticamente il rigoroso movimento
strutturale ma anche l’acutezza percettiva ed inventiva affidate al senso poi più intimo di una
risolutiva e felice libertà lirica.
Il principio di una pura architettura del colore propugnato nelle sue riflessive astrazioni da Giuseppe
Santomaso trova in questa brillante prova: Senza titolo, del ’67, un seducente compimento, offrendo
infatti un aureo modello della sua sintassi formale, improntata sull’esigenza di una piena autonomia
del processo immaginativo concepito come sintesi ricreativa dell’esperienza del reale. L’ampio arco
che sormonta le sagome nere sulla base assurge spazialmente a riequilibrare ogni dissolvimento
cromatico in una orchestrata modulazione tonale intrisa di memoriali ed evocativi splendori.
Anton Giulio Ambrosini è altresì ben rappresentato con un’opera delle sue estreme e conclusive
sperimentazioni con le quali è giunto, come in questo trittico, a riscoprire persino il fascino
misterioso di rituali cifrari visivi le cui modalità compositive provengono dalle forme e dai
significati della cultura mistica orientale, computando o meglio coniugando, nell’iterate strutture
ritmiche che inscrivono taluni ideogrammi cinesi, gli elementi necessari di un proprio linguaggio.
rigorosamente astratto o. più precisamente, ascetico che in sé non solo connette ma aspira in effetti
ad identificare lo stesso bisogno spirituale con la relativa purezza della percezione.
Davvero risplendente il dipinto Rocket, del’52, di Vinicio Vianello, la cui pittura si impiega
precocemente a trascrivere, addirittura con lo spray, l’assoluta funzione spaziale del colore, anche
se ancora in una chiave orfica, dispiegando allo stesso tempo energie segniche di natura automatica,
informale, in un medesimo espansivo effetto di vaporosi contrasti formali e di deflagranti eterei
sconfinamenti visivi.
Risuona non solo visivamente l’esplosivo nucleo che spicca al centro dell’incandescente spazio
della piccola tempera: Avvenimento, del 57, di Edmondo Bacci : raffigurazione forse di un corpo
astrale che avvampa di erompenti dinamismi cromatici traslati in un viluppo magnetico di strepitosi
lampeggiamenti. Si avverte totalizzante il sentimento del colore-luce che ha portato l‘artista ad
esplorare con intuitiva grazia immaginativa regioni di epifanie cosmiche, altrimenti irraggiungibili.
Si accosta su simili scelte linguistiche per distinguersi però nettamente la bellissima composizione
del 75, di Gino Morandis: un meditato scandaglio su oscure profondità siderali, dove vengono a
disseminarsi una miriade di enti formali, di accadimenti rivelativi di un’astrazione fantastica che
capta e raccorda pulsioni interiori e movimenti di una ideale fisica dell’universo.
Affonda a scoprire altri nuovi spazi d’immagine anche il dipinto: Germinazioni, del’66. di Luciano
Gaspari, il quale spinge lo sguardo ad investigare invece il mondo sotterraneo della natura, a
raffigurare analogicamente i fenomeni di rilucente strutture biomorfiche: la genesi, la crescita, la
proliferazione di elementi vegetali, forme efflorescenti che si stagliano con intrigante evidenza,
ingigantite nella lucida messa a fuoco pittorica, dilagando in un inebriante vitalismo di magie
cromatiche.
A non diverse problematiche si consegna ugualmente l’opera: Genesi, del’61, di Bruna Gasparini,
anche se il tema e il linguaggio, da lei adottati, risentono di certi modi sia dell’Informale che dello
Spazialismo, riuscendo l’artista a fonderli comunque in una cifra espressiva del tutto personale. Da
un fondo oscuro giunge a un piano lattiginoso una sorta di embrione formale composto da dense
cellule materiche, da striature di colore, su registri bassi ma sapientemente intonati, squarciati da
improvvise illuminazioni, una corposità aggregante per interni silenziosi incanti, per ascolti di
ineludibili presagi dell’anima.
Attrae da subito la meravigliosa composizione Senza titolo, del ’54, di Tancredi, uno scintillante,
festoso canto lirico che trova in sé il dono di riuscire a creare, con sublime libertà immaginativa,
nuove visioni di natura. Si avverte nella brillante sembianza di questi fiori davvero splendidamente
solari una rara felicità inventiva, un’infrenabile gioia vitalistica ma anche una latente mestizia, uno
stato di preveggenza di altissine aspirazioni poetiche e di contrastati turbamenti esistenziali, vissuti
con slancio generoso e con profonda impareggiabile sensibilità.
Così sono stati sottolineati soltanto alcuni momenti e situazioni del ben più articolato operare di
ognuno degli artisti, ma anche additate con ciò modalità e tendenze culturali fra loro assai
diversificate, eppure tanto quei momenti quanto quelle situazioni risultano ugualmente tali da venire
a tratteggiare una vicenda non solo ormai storica, proiettandosi del resto le stesse opere nella
dimensione di un presente che ogni vera esperienza dell’arte rinnova di per sé, e comunque si può
infine ricavare dalle scelte effettuate l’attestazione oggettiva del fervore intellettuale e delle novità
espressive che quel tempo ha saputo produrre. Perciò la mostra vuole essere un omaggio a questi
artefici ed insieme un elogio della pittura in quanto tale, ossia di quella verità che la pittura di-svela
nella sua incondizionata pronuncia evocante ancora un senso che da sempre è l’origine di ogni
forma di bellezza” (Toni Toniatto).
17
giugno 2011
I Maestri Veneti del Novecento
Dal 17 giugno al 31 agosto 2011
arte contemporanea
Location
IL SALOTTO DELL’ARTE
Portogruaro, Via Giuseppe Garibaldi, 23/27, (Venezia)
Portogruaro, Via Giuseppe Garibaldi, 23/27, (Venezia)
Orario di apertura
pomeridiano nei giorni di mercoledì-giovedì-venerdì-sabato
Vernissage
17 Giugno 2011, h 17
Autore