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Il frammento come strumento. Per un’archeologia dell’effimero
In mostra gli artisti di fama internazionale Maria Thereza Alves, Øystein Aasan e la speciale partecipazione di Piero Gilardi, artista attivo nell’Arte Povera e anticipatore dell’Arte Relazionale e Interattiva.
Comunicato stampa
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La Galleria Astuni presenta giovedì 6 luglio 2017 dalle ore 18,30 la mostra a cura di Lorenzo Bruni dal titolo “IL FRAMMENTO COME STRUMENTO. Per un’archeologia dell'effimero” con gli artisti di fama internazionale Maria Thereza Alves, Øystein Aasan e la speciale partecipazione di Piero Gilardi, artista attivo nell'Arte Povera e anticipatore dell'Arte Relazionale e Interattiva.
La collettiva “IL FRAMMENTO COME STRUMENTO. Per un’archeologia dell'effimero”, a cura di Lorenzo Bruni, è caratterizzata da grandi “ambienti installativi” di Maria Thereza Alves (San Paolo, 1961; vive e lavora a Berlino) e di Øystein Aasan (Norway, 1977; vive e lavora a Berlino). Entrambi indagano il tema del monumento e della sua nuova possibile funzione proponendo un ambiente dialogico e contestuale. Da una parte della galleria si erge una struttura/volume dell'artista brasiliana capace di far riflettere sulla tensione tra idea di cultura, quella di natura e di colonialismo. L'artista stabilisce questa narrazione facendo convivere la documentazione di archivio, gli appunti scritti a mano e i quadri di piante ritenute “tipiche” della zona di Guangzhou, che ha studiato in occasione della triennale del 2008. Dall'altra parte dello spazio espositivo si colloca, invece, la struttura/piattaforma ideata dall'artista di origini nord europee, che indaga lo stato di salute dell'eredità del Modernismo e le connessioni tra architettura, rito e concetto di sublime. Aasan ottiene ciò sviluppando un dialogo/frizione tra quadri e sculture, tra immagini trovate e oggetti creati o ri-creati.
Le opere in mostra hanno in comune la volontà di adottare il reperto e il frammento per risalire ad un tutto, con cui puntano ad interrogarsi, da una angolazione anomala, sul possibile ruolo dell'oggetto artistico oggi. Le associazioni che questi artisti stabiliscono con le loro immagini/documenti evocano una narrazione più ampia attraverso la quale fanno riflettere l'osservatore non tanto sull'identità di una civiltà del passato, piuttosto su quella di cui fa parte. Tale narrazione di tipo “potenziale”, che attivano in presa diretta e in cui la presenza dell'osservatore è fondamentale, non rappresenta il punto di arrivo, bensì di partenza di un processo cognitivo e non solo di un'espressione formale. In questo modo gli artisti possono sollevare discussioni interessanti sia su quale sapere del modello occidentale è possibile tramandare adesso al tempo degli archivi digitali, sia sul cercare un nuovo rapporto tra oggetto osservato e osservatore nel “presente espanso” dei social media. Il loro obiettivo è quello di stabilire un dialogo aperto sulla contemporaneità, sulla cultura di riferimento con la quale le persone interpretano il reale e soprattutto sulla ricerca di un nuovo tipo di eticità dello sguardo sulle cose/informazioni.
La speciale partecipazione di Piero Gilardi (Torino, 1942; vive a lavora a Torino) permette alla mostra di fornire stimoli ulteriori ai temi affrontati grazie alla presenza della scultura interattiva del 2001 dal titolo “Scoglio Bretone”, ma anche per mezzo di altri suoi interventi che nascono dalla volontà di caratterizzare in maniera “epifanica” gli ambienti espositivi. Questi ultimi sottolineano maggiormente la necessità di spostare il discorso affrontato da un punto di vista di cronaca su un piano squisitamente ontologico. Gilardi ha da sempre lavorato alla trasformazione dei riferimenti culturali rispetto a quelli di natura, approccio che gli ha permesso di realizzare una comunicazione “altra” rispetto a quella promossa dai mass media. Questa attitudine lo ha portato a riflettere in maniera diretta sulla questione di cosa vuol dire essere attivi e/o attivisti in una società informatizzata, tema che proprio oggi necessita ulteriori indagini.
Lorenzo Bruni, il curatore del progetto “IL FRAMMENTO COME STRUMENTO. Per un’archeologia dell'effimero”, spiega con queste parole la scelta di questi artisti: “Maria Thereza Alves,Øystein Aasan e Piero Gilardi che ho coinvolto nella mostra e in una parte significativa del libro sono quelli che hanno adottato il concetto di reperto in maniera introspettiva prima di altri. Tutti e tre non lo fanno per legittimare un’identità culturale specifica, bensì lo utilizzano come strumento di discussione collettiva e democratica per ragionare attorno a quale identità può costruire e condividere la nostra attuale società.”
Inoltre, Bruni descrive la scelta del suo campo di indagine in tal modo:“La scelta di affrontare una tematica di questo tipo nasce dal prendere atto che le nuove generazioni, da varie latitudini, stanno iniziando a lavorare sempre più con un approccio di archeologia immaginativa mettendo in mostra proprio questo particolare processo piuttosto che i risultati in sé. Questa è la generazione che si innesta su quelle che hanno affrontato precedentemente la riflessione sulla memoria collettiva e quella sull'astrazione geometrica al tempo degli schermi digitali.”
Sempre il curatore aggiunge: “Quello che rappresenta la vera novità adesso è che sono indagati e utilizzati degli oggetti non appartenenti all’attualità, ma resistenti al passare del tempo, percepibili come arcaici e soprattutto come collocabili in una dimensione a-storica. In particolare, è curioso che questa esigenza sia particolarmente sentita anche da quegli artisti oramai affermati e che hanno basato le loro ricerche degli esordi proprio su un dialogo/frizione con i mass media globalizzati e con il sistema economico smaterializzato. Ovvero sul presente della comunicazione. Questo per lo meno è quello che emerge dalle recenti opere di Jeef Koons che nel 2012 ha sentito il bisogno di esporre in un museo di arte sacra a Francoforte e di realizzare una versione moderna della “Venere di Willendorf”. La stessa tensione ha portato Damien Hirst ad incentrare la sua recente mostra a Punta della Dogana a Venezia su un video documentario del presunto ritrovamento in mare proprio di quei frammenti esposti nelle sale espositive rendendole, così, più simili ad un museo etnografico. Altri artisti tra cui Gabriel Orozco o Roberto Cuoghi hanno lavorato negli ultimi anni proprio concentrandosi sul tema del reperto come referto e viceversa. Questi esempi appena citati, naturalmente, sono solo la punta dell'iceberg di una riflessione più complessa che ancora deve manifestarsi del tutto.”
Il ragionamento appena espletato nasce da una domanda molto semplice che la mostra propone: “Quale questione collega le varie ricerche artistiche attuali? Una decina di anni fa le opere più innovative erano accomunate dalla domanda: cosa trasforma un oggetto quotidiano in un'opera d'arte? Quelle risposte hanno permesso di ragionare in maniera radicale e a trecentosessanta gradi sullo stato del postcolonialismo, sul nuovo ruolo dei musei, su quello dello spettatore e sulla relazione tra dimensione privata e pubblica in una “società liquida”. Oggi invece nel mondo post-internet, del “terrorismo personalizzato” su scala globale/locale, della politica populista e del ruolo trainante delle fake news sembra che la questione sia: cosa rende un'informazione più “vera” rispetto a tutte quelle a cui abbiamo liberamente accesso?”.
“L'intento della mostra alla Galleria Enrico Astuni – sottolinea infine il curatore - sembra essere quello di mettere in evidenza l'esigenza di ri-conquistare una fruizione diretta con i frammenti del reale, sia del presente che del passato. Per questo gli artisti coinvolti nel progetto puntano a creare storie che equivalgono a narrazioni “possibili” che devono essere interpretate e discusse collettivamente. Soltanto in questo modo, sembrano suggerirci i loro particolari collage evocativi, il soggetto (artista/spettatore) può indagare l'identità della società a cui appartiene e che contribuisce ad alimentare con i suoi gesti giornalieri. Essendo questo un tema molto vasto è stato affrontato da varie angolazioni. Di conseguenza il libro e la mostra non sono stati pensati come interscambiabili nei loro contenuti e risultati, ma fortemente interconnessi per poter meglio discutere sul rapporto che può essere stabilito oggi tra cultura, natura, politica, storia e fruizione dell'opera d'arte”.
La collettiva “IL FRAMMENTO COME STRUMENTO. Per un’archeologia dell'effimero”, a cura di Lorenzo Bruni, è caratterizzata da grandi “ambienti installativi” di Maria Thereza Alves (San Paolo, 1961; vive e lavora a Berlino) e di Øystein Aasan (Norway, 1977; vive e lavora a Berlino). Entrambi indagano il tema del monumento e della sua nuova possibile funzione proponendo un ambiente dialogico e contestuale. Da una parte della galleria si erge una struttura/volume dell'artista brasiliana capace di far riflettere sulla tensione tra idea di cultura, quella di natura e di colonialismo. L'artista stabilisce questa narrazione facendo convivere la documentazione di archivio, gli appunti scritti a mano e i quadri di piante ritenute “tipiche” della zona di Guangzhou, che ha studiato in occasione della triennale del 2008. Dall'altra parte dello spazio espositivo si colloca, invece, la struttura/piattaforma ideata dall'artista di origini nord europee, che indaga lo stato di salute dell'eredità del Modernismo e le connessioni tra architettura, rito e concetto di sublime. Aasan ottiene ciò sviluppando un dialogo/frizione tra quadri e sculture, tra immagini trovate e oggetti creati o ri-creati.
Le opere in mostra hanno in comune la volontà di adottare il reperto e il frammento per risalire ad un tutto, con cui puntano ad interrogarsi, da una angolazione anomala, sul possibile ruolo dell'oggetto artistico oggi. Le associazioni che questi artisti stabiliscono con le loro immagini/documenti evocano una narrazione più ampia attraverso la quale fanno riflettere l'osservatore non tanto sull'identità di una civiltà del passato, piuttosto su quella di cui fa parte. Tale narrazione di tipo “potenziale”, che attivano in presa diretta e in cui la presenza dell'osservatore è fondamentale, non rappresenta il punto di arrivo, bensì di partenza di un processo cognitivo e non solo di un'espressione formale. In questo modo gli artisti possono sollevare discussioni interessanti sia su quale sapere del modello occidentale è possibile tramandare adesso al tempo degli archivi digitali, sia sul cercare un nuovo rapporto tra oggetto osservato e osservatore nel “presente espanso” dei social media. Il loro obiettivo è quello di stabilire un dialogo aperto sulla contemporaneità, sulla cultura di riferimento con la quale le persone interpretano il reale e soprattutto sulla ricerca di un nuovo tipo di eticità dello sguardo sulle cose/informazioni.
La speciale partecipazione di Piero Gilardi (Torino, 1942; vive a lavora a Torino) permette alla mostra di fornire stimoli ulteriori ai temi affrontati grazie alla presenza della scultura interattiva del 2001 dal titolo “Scoglio Bretone”, ma anche per mezzo di altri suoi interventi che nascono dalla volontà di caratterizzare in maniera “epifanica” gli ambienti espositivi. Questi ultimi sottolineano maggiormente la necessità di spostare il discorso affrontato da un punto di vista di cronaca su un piano squisitamente ontologico. Gilardi ha da sempre lavorato alla trasformazione dei riferimenti culturali rispetto a quelli di natura, approccio che gli ha permesso di realizzare una comunicazione “altra” rispetto a quella promossa dai mass media. Questa attitudine lo ha portato a riflettere in maniera diretta sulla questione di cosa vuol dire essere attivi e/o attivisti in una società informatizzata, tema che proprio oggi necessita ulteriori indagini.
Lorenzo Bruni, il curatore del progetto “IL FRAMMENTO COME STRUMENTO. Per un’archeologia dell'effimero”, spiega con queste parole la scelta di questi artisti: “Maria Thereza Alves,Øystein Aasan e Piero Gilardi che ho coinvolto nella mostra e in una parte significativa del libro sono quelli che hanno adottato il concetto di reperto in maniera introspettiva prima di altri. Tutti e tre non lo fanno per legittimare un’identità culturale specifica, bensì lo utilizzano come strumento di discussione collettiva e democratica per ragionare attorno a quale identità può costruire e condividere la nostra attuale società.”
Inoltre, Bruni descrive la scelta del suo campo di indagine in tal modo:“La scelta di affrontare una tematica di questo tipo nasce dal prendere atto che le nuove generazioni, da varie latitudini, stanno iniziando a lavorare sempre più con un approccio di archeologia immaginativa mettendo in mostra proprio questo particolare processo piuttosto che i risultati in sé. Questa è la generazione che si innesta su quelle che hanno affrontato precedentemente la riflessione sulla memoria collettiva e quella sull'astrazione geometrica al tempo degli schermi digitali.”
Sempre il curatore aggiunge: “Quello che rappresenta la vera novità adesso è che sono indagati e utilizzati degli oggetti non appartenenti all’attualità, ma resistenti al passare del tempo, percepibili come arcaici e soprattutto come collocabili in una dimensione a-storica. In particolare, è curioso che questa esigenza sia particolarmente sentita anche da quegli artisti oramai affermati e che hanno basato le loro ricerche degli esordi proprio su un dialogo/frizione con i mass media globalizzati e con il sistema economico smaterializzato. Ovvero sul presente della comunicazione. Questo per lo meno è quello che emerge dalle recenti opere di Jeef Koons che nel 2012 ha sentito il bisogno di esporre in un museo di arte sacra a Francoforte e di realizzare una versione moderna della “Venere di Willendorf”. La stessa tensione ha portato Damien Hirst ad incentrare la sua recente mostra a Punta della Dogana a Venezia su un video documentario del presunto ritrovamento in mare proprio di quei frammenti esposti nelle sale espositive rendendole, così, più simili ad un museo etnografico. Altri artisti tra cui Gabriel Orozco o Roberto Cuoghi hanno lavorato negli ultimi anni proprio concentrandosi sul tema del reperto come referto e viceversa. Questi esempi appena citati, naturalmente, sono solo la punta dell'iceberg di una riflessione più complessa che ancora deve manifestarsi del tutto.”
Il ragionamento appena espletato nasce da una domanda molto semplice che la mostra propone: “Quale questione collega le varie ricerche artistiche attuali? Una decina di anni fa le opere più innovative erano accomunate dalla domanda: cosa trasforma un oggetto quotidiano in un'opera d'arte? Quelle risposte hanno permesso di ragionare in maniera radicale e a trecentosessanta gradi sullo stato del postcolonialismo, sul nuovo ruolo dei musei, su quello dello spettatore e sulla relazione tra dimensione privata e pubblica in una “società liquida”. Oggi invece nel mondo post-internet, del “terrorismo personalizzato” su scala globale/locale, della politica populista e del ruolo trainante delle fake news sembra che la questione sia: cosa rende un'informazione più “vera” rispetto a tutte quelle a cui abbiamo liberamente accesso?”.
“L'intento della mostra alla Galleria Enrico Astuni – sottolinea infine il curatore - sembra essere quello di mettere in evidenza l'esigenza di ri-conquistare una fruizione diretta con i frammenti del reale, sia del presente che del passato. Per questo gli artisti coinvolti nel progetto puntano a creare storie che equivalgono a narrazioni “possibili” che devono essere interpretate e discusse collettivamente. Soltanto in questo modo, sembrano suggerirci i loro particolari collage evocativi, il soggetto (artista/spettatore) può indagare l'identità della società a cui appartiene e che contribuisce ad alimentare con i suoi gesti giornalieri. Essendo questo un tema molto vasto è stato affrontato da varie angolazioni. Di conseguenza il libro e la mostra non sono stati pensati come interscambiabili nei loro contenuti e risultati, ma fortemente interconnessi per poter meglio discutere sul rapporto che può essere stabilito oggi tra cultura, natura, politica, storia e fruizione dell'opera d'arte”.
06
luglio 2017
Il frammento come strumento. Per un’archeologia dell’effimero
Dal 06 luglio al 28 ottobre 2017
arte contemporanea
Location
GALLERIA ENRICO ASTUNI
Bologna, Via Jacopo Barozzi Vignola, 3, (Bologna)
Bologna, Via Jacopo Barozzi Vignola, 3, (Bologna)
Orario di apertura
Lunedì – venerdi 10:00 – 13:00 / 15:00 – 19:00 Sabato e domenica su appuntamento
Vernissage
6 Luglio 2017, ore 18,30
Autore
Curatore