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Il Linguaggio della Materia
La manifestazione, giunta alla dodicesima edizione, conferma l’intento di mettere a confronto giovani artisti di località diverse e che operano in ambiti differenti
Comunicato stampa
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“Capisco la materia come luogo di tutte le trasformazioni, di tutte le similitudini” (Nanni Valentini).
All’interno del panorama contemporaneo d’arte, si muovono vorticosamente forze contrastanti in percorsi che vanno dal passato al presente, dal falso all’autenticità, dal kitsch alla cultura, dal machismo al femminismo, dalla fantasia alla realtà, dalla vita alla morte. In questi percorsi, a volte gli esseri umani sembrano avere il predominio, a volte gli oggetti prendono il sopravvento, in una sorta di tiro alla fune. Una mostra è un atto di desiderio, uno scritto è la riflessione su quel desiderio. Per rappresentare l’arte contemporanea abbiamo scelto due strade: una narrativa, quella della mostra e una riflessiva. Le opere in mostra, in quanto fenomeni significativi di idee e circostanze più vaste, richiedevano infatti l’espressione di annotazioni diverse. La mostra, attorno a taluni aspetti dell’arte e della cultura, vedono ora la luce come un atto vitale e tangibile legato ad un simbolico traguardo: dare ad un pubblico attento e curioso, la chiave di lettura per entrare nel mondo dell'arte contemporanea. E’ solo un contributo, con precisi punti di riferimento ed il tutto è svelato con attenti appigli iconografici. Che un filo conduttore leghi ancor oggi le realizzazioni dell’antico artigianato, dell’arte applicata, con le più recenti espressioni del disegno industriale, dell’architettura industrializzata e dell’arte, non deve fare specie, anche se, da molti, la frattura tra il mondo tecnologico d’oggi e il mondo paleotecnico di ieri è considerata netta e irrimediabile. Si tratta dunque di una mostra d’arte e dei suoi modi di esprimersi con opere, sculture, installazioni, che vanno letti come progetti, appunti, ricordi, riflessioni, percorsi. La prima emozione che incontra chi si avvicina alle opere della mostra “Il Linguaggio della Materia” è, credo, simile a un’ombra, non certo disturbante. “Il Linguaggio della Materia” è l’emozionante della memoria culturale intorno alla quale si attorcigliano le frasi già a nostra disposizione e la loro eco rimasta, per quanto possibile. Nella mostra gli artisti si fronteggiano con espressioni differenti eppure complementari tra loro. Le loro opere vivono in una situazione compenetrante per cui nessuna preesiste all’altra e si esprimono con uno sguardo sfaccettato alle più diverse manifestazioni legate alla creatività ed alla materia: il tessuto, il vetro, la ceramica, il bronzo e il marmo. Gli autori scelti per questa rassegna hanno sicuramente una matrice comune, quella del vivere l’arte come una ragione di vita, come essenza primaria del loro segno creativo, come evolversi di un mistero sublime che li attanaglia in un percorso di affascinante tensione cosmica. Con la mostra “Il Linguaggio della Materia” viene reso omaggio ad alcuni artisti piemontesi “eccellenti” e la mostra rappresenta un compendio della loro espressività. In mezzo a questo repertorio sparso affiorano le opere di Sergio Albano, Valeria Bosco, Gabriele Garbolino Rù, Silvio Vigliaturo.
Sergio Albano
Le superfici: bianche, o azzurrine, non sono per Sergio Albano le componenti di una scena, di una realtà, ma sono le protagoniste: parlano un linguaggio misterioso, la loro limpidezza, la loro castità fa pensare non a qualcosa di immerso nelle viscere della terra, ma ad una fonte che dispensi non soltanto luminosità e propizi di un sentimento di sospensione e di attesa. Al di sotto dei suoi spazi luminosi non sei sollecitato ad esplorare, perché essi dicono con chiarezza che la luce non è soltanto come un grande sole o una grande luna, ma qualche volta tace, proprio per lasciarti la libertà di individuare: l'essenza l'universo, ma che soltanto e semplicemente la sostanza del nostro inconscio, oppure se l'intimo di una nostra sorella o, comunque, di una persona cara corrisponde alla sua espressione consueta, oppure celi qualcosa che forse non ti farebbe piacere conoscere. Le tavole di Sergio Albano sono specchi nei quali non rimangono riflessi i volti delle persone o i filari dei pioppi o le masse delle cascine o dei castelli: sono spazi che rigettano ogni impurità, sono come il respiro della Divinità, sono angeli senza forma che sfuggono alle asperità del terreno per confermare la loro essenza spirituale. Questo "paesaggio dell'anima" ci dice quanto per Sergio Albano, sia importante il colore, oltre lo spazio: se una foglia, un ramo, entra in te, se una zolla, un solco, si confida con te, quel colore non è più un ossido, o una terra, ma una voce della natura che colloquia con te. E i discorsi sono sempre limpidi, lunari, e non ci sono temporali annunciati. Le "rocce" in natura, presentano forme che si riconoscono in geometria primitiva, come non volesse sottoporsi ad un ordine, ad una disciplina: Sergio Albano le domina, le rifila con un rasoio finissimo, le pareggia ad un cubo squadrato: non si tratta di violare la natura, ma di superare il caos, di disporre formalmente su di un rigo musicale le note non rotonde, ma quadrate, come usava l'inventore del pentagramma e del suo alfabeto. E le rocce sono come case, la casa come rocce: non é che Albano voglia capovolgere forme e finalità, ma osservare come le une e le altre beneficino di una consanguineità, e come costruzione del mondo, e come parti essenziali dell'umanità. I filoni di Albano, sono ormai da anni definiti, come definito è lo splendido stile, un figurativismo fantastico di forte struttura geometrica tridimensionale: una pittura fondata sul disegno e che si riallaccia a insigni modelli, come quelli stabiliti da Piero della Francesca, Giotto, Paolo Uccello.
Altro importante filone è quello dei "teatrini", dove Albano accosta figure in vari atteggiamenti tra loro discordanti (di danza, di attesa) fortemente drammatici; anche qui emerge la volontà di catturare il tempo, di esprimerne, attraverso la concomitanza di eventi diversi, l'ambiguità sfuggente. Vi sono poi gli intensi ritratti femminili: donne che esprimono l'atteggiamento affinato e guardingo dell'artista verso il femminile. Un pittore la cui arte nitida non ha nebulosità, e pur rivolta a narrarci misteri, non ha misteri e fumosità intellettualistiche, perché tutta si riserva nelle forme e nella perfetta composizione, rivestita di una colorazione sapiente e armonica.
Valeria Bosco
In Valeria Bosco l’espressione tessile ha ritrovato modi suoi propri, coniugando forme della propria tradizione con l’intreccio tra diversi linguaggi, in un equilibrio bilanciato, senza tralasciare i rimandi verso il recupero di un’idea di edonismo puramente gestuale. Un percorso delineato con forza, con misura, con una progettualità che appartiene al suo essere artista, a quel ritrovare, di volta in volta, la propria identità segreta e, in particolare, di stabilire un determinante rapporto con lo spazio. Le forme si aprono e si concludono, si immergono nello spazio con una freschezza espressiva che mette in risalto la raffinatezza del modellato, la personalità dell’artista e la sua cifra riconoscibile, la sensibilità lieve della forma volta a definire, a rinsaldare il volume della raffigurazione che tende all’astrattismo pur partendo dal valore di una realtà trasfigurata e ridefinita con controllata misura. Recupero della dimensione artigianale manipolando la materia in forme di continua allusione antropomorfica, zoomorfica, geomorfica ed insieme mitica e metamorfica. Non solo oriente in quest’ipnosi del fare. Si tratta di riscoprire in profondità, senza fermarsi alle origini dirette, quelle dei nonni e delle loro cassettiere, ma di risalire alle combinazioni ancora segniche che hanno generato tutto il visibile, via via “a ritroso” e volutamente cito l’opera madre del Decadentismo letterario per evocare emozioni, sensazioni, vissuti unici e misteriosi che certe scoperte portano con sé. La Bosco ha imparato a sognare luoghi lontani, verdi milonghe. Viaggi onirici e reali, dalla pianura novarese verso la Lomellina fino alla perdita in luoghi lontani, veramente. Spesso accade che la creatività non accetti di separarsi dalla vita morale, psicologica, religiosa, dalla natura, dai colori, dalla luce, dalla nebbia del paesaggio dove è nata, così Valeria Bosco ha sempre continuato a portare avanti una sua ricerca personale, cuocendo tessuti, inventando tecniche antiche e contemporanee. Lo Shibori, liberato dai vincoli della sua millenaria tradizione o il Batik, anch’esso mimetizzato, mascherato o forse senz’enfasi reinterpretato. “Shibori: luce del tempo”; “Batik, alchimia di segni”. Entrambe parlano di stratificazioni del tempo, sono fossili della manualità e come tali sono sempiterni. Valeria ha spesso snaturato il tessuto rendendolo altro, anche terra e caricandolo di simbologie ancestrali. Molte volte ha portato la sua indagine in bilico tra cultura astratta, metafisica, orientale e cultura occidentale della forma. Valeria Bosco ha nascosto semi nel tessuto, bruciato pezze, legato e ritorto ogni sorta di tessitura indagandone le possibilità espressive ed emozionali, esaltandone le ambiguità verso l’idea di un’avventura totale anche se per paradosso controllata. La scoperta della pittura nella sua dimensione più viscerale ha aggiunto nuove e proficue evoluzioni: trame dipinte e sovrapposte sulla tela, pitture libere di scivolare sulle sete, segni del corpo che dialogano con le texture. Prima dell’esito finale, approdi intermedi e inaspettati si sono mostrati in forma di oggetti inclassificabili e per questo affascinanti. Tappe imperscrutabili e inattese che costituiscono la cifra di questa mostra documentatrice di febbrili rivelazioni.
Gabriele Garbolino Rù
La ricerca plastica di Gabriele Garbolino Rù, scultore ortodosso nell'uso dei tradizionali materiali della scultura, dal marmo al bronzo, dal legno alla terracotta, tratta con una conoscenza tecnica ed una perizia certamente non facili da riscontrare nei giovani artisti d'oggi. Centrate sulla specifica riflessione intorno alla figura, che manifesta colte e complesse suggestioni, le sculture di Garbolino Rù solo apparentemente rimandano al mondo classico poiché, a ben guardare, gli estremi della sua cultura affondano invece le radici in un realismo di origine ottocentesca, concettualmente trasfigurato in lavori che trovano la loro intima qualità nel moderno uso del frammento. Frammento come concentrazione, frammento come evocazione, ma anche come analisi di un corpo reale che assume il valore e l'aspetto di una corazza, sempre singolare ed unica. E' una concezione del corpo che si colora dei toni simbolici del "contenitore" oggettivo delle passioni, ma anche dei valori etici e spirituali dell'individuo. Se il riferimento al mondo classico o a quello biblico esiste, nelle opere di Garbolino Rù è però limitato ai titoli - David, Fetonte, Calcante, Orion - poiché il risultato è invece sempre e comunque il "ritratto" di un corpo reale o di una porzione di esso. E' proprio in questa caratteristica di "realtà", comunque trasfigurata al limite dell'astrazione con elegantissimo controllo formale e compositivo, che sta l'originalità dello scultore, a torto e con assoluta superficialità spesso accostato a Igor Mitoraj che dal canto suo invece propone figure assolutamente astratte come reperti di una classicità riemersa. Le ricerche del maturo scultore sono infatti diametralmente opposte a quelle del giovane Garbolino Rù con le sue creazioni dal modellato estremamente sensibile nell'individuazione della pur minima variazione di piani. Nella produzione dell'artista si riscontra spesso anche una "ruvida" e d essenziale preziosità, dovuta all'originale colloquio o accostamento di marmi diversi per cromatismo, o di materiali differenti come il metallo (bronzo o piombo) e il marmo, come nel caso di David e Guerriero Grande recuperando la sontuosa prassi esistente nella scultura antica e rinascimentale. La sua però non è mai una preziosità gratuita, solo esteriore o di superficie, quanto, invece, l'espressione profonda del suo personale del bello, attraente sì ma che induce alla concentrazione contemplativa.
Silvio Vigliaturo
Si potrebbe ragionare sul segno e i colori che formano la struttura artistica dell’operare di Silvio Vigliaturo e della sua Fucina a Chieri. Silvio deriva da silva, foresta, e lo stesso cognome: Vigliaturo, contiene tutte le lettere della parola vetro al di fuori della vocale “e”, unica eccezione di un lato sensibile che ne denota la sua gentilezza. Dice bene Paolo Levi quando parla del “mondo danzante ed amabile di questo artista mediterraneo”; così pure Vittorio Sgarbi quando sottolinea il “lavorio del fuoco, dell’aria e della terra per restare nella metafora della trasmutazione alchemica”. Elementi, tutti, questi che denotano sia la radice artistica di Silvio Vigliaturo che il carattere distintivo della sua opera. Egli ultimamente reclama questa sua identità con la Magna Grecia, ne sente le radici che con il maturare dell’età ma soprattutto con il “ presentimento della morte che pare comandi tutta la nostra vita affettiva”, come ebbe a scrivere Bernanos, sembra farsi più chiaro tutto il mistero della vita. Egli sente e vive tutto lo spirito dei Misteri Eleusini dove s’incrociano i suoi Diavoli e Angeli. Il suo segno può si, evvero, confluire nel grande fiume del “folclore spagnolo” e per tramite dell’opera di Picasso arrivare sino al surrealismo di certe sue forme o strutture scultoree, ma a mio modo di vedere non vi è stata mai così eleganza e pulizia nel segno e nella scelta dei colori così chiari e lindi, stesi in maniera quasi piatta che ne fanno la sua cifra di riconoscibilità. E questo mi ha rimandato subito come sentimento artistico ai piatti o anche ai vasi attici con dipinte delle scene atletiche. Così il suo uso del colore: bianco , rosso e azzurro, per certi versi mi ha ricordato i colori trionfali della bandiera francese che Raoul Dufi stendeva come fondo nei suoi quadri e che davano ad essi quel senso di festa. E pure qui, in Vigliaturo, vi è un gran senso di festa collettiva. Oh sì, il suo segno potrà anche approsimarsi a certe vetrate tardo gotiche e quindi con echi bizantini; i suoi gialli oro ne testimoniano almeno il passaggio visivo di una certa conoscenza, ma la leggerezza del segno nero che li delimita è tutta moderna, pur rimanendo in essa, quale tecnica, qualcosa di antico. Contiene quella contemporaneità del semplice, della freschezza attuale che hanno, ancora oggi, le scene dei dipinti greci sui vasi antichi, come prima ricordavo. Il loro fluire è costante senza interruzioni della coscienza per l’appunto tutto è fluido e liquido come la memoria, ecco perché Venezia, quindi Murano con i suoi vetri. Lo spazio-luce, lo spazio-tempo, come ebbe a sostenere il poeta Josif Brodskji, trova in Venezia la città per eccellenza dove spazio e tempo s’incrociano su di un unico elemento che raccoglie entrambi: l’acqua! Qui lo spazio-tempo di Vigliaturo incrocia lo spazio-tempo del vetro. E cosa non è il vetro se non acqua cristalizzata? Si pensi per un momento al ghiaccio e in più qui, nei suoi vetri, abbiamo il riflesso dei colori della Venezia emblema di luce, il che equivale a dire il suo colore! Lunga vita quindi all’opera di Silvio Vigliaturo che ci fa rivivere questa antica nostalgia “unica nostra guida” come scriveva Hermann Hesse.
All’interno del panorama contemporaneo d’arte, si muovono vorticosamente forze contrastanti in percorsi che vanno dal passato al presente, dal falso all’autenticità, dal kitsch alla cultura, dal machismo al femminismo, dalla fantasia alla realtà, dalla vita alla morte. In questi percorsi, a volte gli esseri umani sembrano avere il predominio, a volte gli oggetti prendono il sopravvento, in una sorta di tiro alla fune. Una mostra è un atto di desiderio, uno scritto è la riflessione su quel desiderio. Per rappresentare l’arte contemporanea abbiamo scelto due strade: una narrativa, quella della mostra e una riflessiva. Le opere in mostra, in quanto fenomeni significativi di idee e circostanze più vaste, richiedevano infatti l’espressione di annotazioni diverse. La mostra, attorno a taluni aspetti dell’arte e della cultura, vedono ora la luce come un atto vitale e tangibile legato ad un simbolico traguardo: dare ad un pubblico attento e curioso, la chiave di lettura per entrare nel mondo dell'arte contemporanea. E’ solo un contributo, con precisi punti di riferimento ed il tutto è svelato con attenti appigli iconografici. Che un filo conduttore leghi ancor oggi le realizzazioni dell’antico artigianato, dell’arte applicata, con le più recenti espressioni del disegno industriale, dell’architettura industrializzata e dell’arte, non deve fare specie, anche se, da molti, la frattura tra il mondo tecnologico d’oggi e il mondo paleotecnico di ieri è considerata netta e irrimediabile. Si tratta dunque di una mostra d’arte e dei suoi modi di esprimersi con opere, sculture, installazioni, che vanno letti come progetti, appunti, ricordi, riflessioni, percorsi. La prima emozione che incontra chi si avvicina alle opere della mostra “Il Linguaggio della Materia” è, credo, simile a un’ombra, non certo disturbante. “Il Linguaggio della Materia” è l’emozionante della memoria culturale intorno alla quale si attorcigliano le frasi già a nostra disposizione e la loro eco rimasta, per quanto possibile. Nella mostra gli artisti si fronteggiano con espressioni differenti eppure complementari tra loro. Le loro opere vivono in una situazione compenetrante per cui nessuna preesiste all’altra e si esprimono con uno sguardo sfaccettato alle più diverse manifestazioni legate alla creatività ed alla materia: il tessuto, il vetro, la ceramica, il bronzo e il marmo. Gli autori scelti per questa rassegna hanno sicuramente una matrice comune, quella del vivere l’arte come una ragione di vita, come essenza primaria del loro segno creativo, come evolversi di un mistero sublime che li attanaglia in un percorso di affascinante tensione cosmica. Con la mostra “Il Linguaggio della Materia” viene reso omaggio ad alcuni artisti piemontesi “eccellenti” e la mostra rappresenta un compendio della loro espressività. In mezzo a questo repertorio sparso affiorano le opere di Sergio Albano, Valeria Bosco, Gabriele Garbolino Rù, Silvio Vigliaturo.
Sergio Albano
Le superfici: bianche, o azzurrine, non sono per Sergio Albano le componenti di una scena, di una realtà, ma sono le protagoniste: parlano un linguaggio misterioso, la loro limpidezza, la loro castità fa pensare non a qualcosa di immerso nelle viscere della terra, ma ad una fonte che dispensi non soltanto luminosità e propizi di un sentimento di sospensione e di attesa. Al di sotto dei suoi spazi luminosi non sei sollecitato ad esplorare, perché essi dicono con chiarezza che la luce non è soltanto come un grande sole o una grande luna, ma qualche volta tace, proprio per lasciarti la libertà di individuare: l'essenza l'universo, ma che soltanto e semplicemente la sostanza del nostro inconscio, oppure se l'intimo di una nostra sorella o, comunque, di una persona cara corrisponde alla sua espressione consueta, oppure celi qualcosa che forse non ti farebbe piacere conoscere. Le tavole di Sergio Albano sono specchi nei quali non rimangono riflessi i volti delle persone o i filari dei pioppi o le masse delle cascine o dei castelli: sono spazi che rigettano ogni impurità, sono come il respiro della Divinità, sono angeli senza forma che sfuggono alle asperità del terreno per confermare la loro essenza spirituale. Questo "paesaggio dell'anima" ci dice quanto per Sergio Albano, sia importante il colore, oltre lo spazio: se una foglia, un ramo, entra in te, se una zolla, un solco, si confida con te, quel colore non è più un ossido, o una terra, ma una voce della natura che colloquia con te. E i discorsi sono sempre limpidi, lunari, e non ci sono temporali annunciati. Le "rocce" in natura, presentano forme che si riconoscono in geometria primitiva, come non volesse sottoporsi ad un ordine, ad una disciplina: Sergio Albano le domina, le rifila con un rasoio finissimo, le pareggia ad un cubo squadrato: non si tratta di violare la natura, ma di superare il caos, di disporre formalmente su di un rigo musicale le note non rotonde, ma quadrate, come usava l'inventore del pentagramma e del suo alfabeto. E le rocce sono come case, la casa come rocce: non é che Albano voglia capovolgere forme e finalità, ma osservare come le une e le altre beneficino di una consanguineità, e come costruzione del mondo, e come parti essenziali dell'umanità. I filoni di Albano, sono ormai da anni definiti, come definito è lo splendido stile, un figurativismo fantastico di forte struttura geometrica tridimensionale: una pittura fondata sul disegno e che si riallaccia a insigni modelli, come quelli stabiliti da Piero della Francesca, Giotto, Paolo Uccello.
Altro importante filone è quello dei "teatrini", dove Albano accosta figure in vari atteggiamenti tra loro discordanti (di danza, di attesa) fortemente drammatici; anche qui emerge la volontà di catturare il tempo, di esprimerne, attraverso la concomitanza di eventi diversi, l'ambiguità sfuggente. Vi sono poi gli intensi ritratti femminili: donne che esprimono l'atteggiamento affinato e guardingo dell'artista verso il femminile. Un pittore la cui arte nitida non ha nebulosità, e pur rivolta a narrarci misteri, non ha misteri e fumosità intellettualistiche, perché tutta si riserva nelle forme e nella perfetta composizione, rivestita di una colorazione sapiente e armonica.
Valeria Bosco
In Valeria Bosco l’espressione tessile ha ritrovato modi suoi propri, coniugando forme della propria tradizione con l’intreccio tra diversi linguaggi, in un equilibrio bilanciato, senza tralasciare i rimandi verso il recupero di un’idea di edonismo puramente gestuale. Un percorso delineato con forza, con misura, con una progettualità che appartiene al suo essere artista, a quel ritrovare, di volta in volta, la propria identità segreta e, in particolare, di stabilire un determinante rapporto con lo spazio. Le forme si aprono e si concludono, si immergono nello spazio con una freschezza espressiva che mette in risalto la raffinatezza del modellato, la personalità dell’artista e la sua cifra riconoscibile, la sensibilità lieve della forma volta a definire, a rinsaldare il volume della raffigurazione che tende all’astrattismo pur partendo dal valore di una realtà trasfigurata e ridefinita con controllata misura. Recupero della dimensione artigianale manipolando la materia in forme di continua allusione antropomorfica, zoomorfica, geomorfica ed insieme mitica e metamorfica. Non solo oriente in quest’ipnosi del fare. Si tratta di riscoprire in profondità, senza fermarsi alle origini dirette, quelle dei nonni e delle loro cassettiere, ma di risalire alle combinazioni ancora segniche che hanno generato tutto il visibile, via via “a ritroso” e volutamente cito l’opera madre del Decadentismo letterario per evocare emozioni, sensazioni, vissuti unici e misteriosi che certe scoperte portano con sé. La Bosco ha imparato a sognare luoghi lontani, verdi milonghe. Viaggi onirici e reali, dalla pianura novarese verso la Lomellina fino alla perdita in luoghi lontani, veramente. Spesso accade che la creatività non accetti di separarsi dalla vita morale, psicologica, religiosa, dalla natura, dai colori, dalla luce, dalla nebbia del paesaggio dove è nata, così Valeria Bosco ha sempre continuato a portare avanti una sua ricerca personale, cuocendo tessuti, inventando tecniche antiche e contemporanee. Lo Shibori, liberato dai vincoli della sua millenaria tradizione o il Batik, anch’esso mimetizzato, mascherato o forse senz’enfasi reinterpretato. “Shibori: luce del tempo”; “Batik, alchimia di segni”. Entrambe parlano di stratificazioni del tempo, sono fossili della manualità e come tali sono sempiterni. Valeria ha spesso snaturato il tessuto rendendolo altro, anche terra e caricandolo di simbologie ancestrali. Molte volte ha portato la sua indagine in bilico tra cultura astratta, metafisica, orientale e cultura occidentale della forma. Valeria Bosco ha nascosto semi nel tessuto, bruciato pezze, legato e ritorto ogni sorta di tessitura indagandone le possibilità espressive ed emozionali, esaltandone le ambiguità verso l’idea di un’avventura totale anche se per paradosso controllata. La scoperta della pittura nella sua dimensione più viscerale ha aggiunto nuove e proficue evoluzioni: trame dipinte e sovrapposte sulla tela, pitture libere di scivolare sulle sete, segni del corpo che dialogano con le texture. Prima dell’esito finale, approdi intermedi e inaspettati si sono mostrati in forma di oggetti inclassificabili e per questo affascinanti. Tappe imperscrutabili e inattese che costituiscono la cifra di questa mostra documentatrice di febbrili rivelazioni.
Gabriele Garbolino Rù
La ricerca plastica di Gabriele Garbolino Rù, scultore ortodosso nell'uso dei tradizionali materiali della scultura, dal marmo al bronzo, dal legno alla terracotta, tratta con una conoscenza tecnica ed una perizia certamente non facili da riscontrare nei giovani artisti d'oggi. Centrate sulla specifica riflessione intorno alla figura, che manifesta colte e complesse suggestioni, le sculture di Garbolino Rù solo apparentemente rimandano al mondo classico poiché, a ben guardare, gli estremi della sua cultura affondano invece le radici in un realismo di origine ottocentesca, concettualmente trasfigurato in lavori che trovano la loro intima qualità nel moderno uso del frammento. Frammento come concentrazione, frammento come evocazione, ma anche come analisi di un corpo reale che assume il valore e l'aspetto di una corazza, sempre singolare ed unica. E' una concezione del corpo che si colora dei toni simbolici del "contenitore" oggettivo delle passioni, ma anche dei valori etici e spirituali dell'individuo. Se il riferimento al mondo classico o a quello biblico esiste, nelle opere di Garbolino Rù è però limitato ai titoli - David, Fetonte, Calcante, Orion - poiché il risultato è invece sempre e comunque il "ritratto" di un corpo reale o di una porzione di esso. E' proprio in questa caratteristica di "realtà", comunque trasfigurata al limite dell'astrazione con elegantissimo controllo formale e compositivo, che sta l'originalità dello scultore, a torto e con assoluta superficialità spesso accostato a Igor Mitoraj che dal canto suo invece propone figure assolutamente astratte come reperti di una classicità riemersa. Le ricerche del maturo scultore sono infatti diametralmente opposte a quelle del giovane Garbolino Rù con le sue creazioni dal modellato estremamente sensibile nell'individuazione della pur minima variazione di piani. Nella produzione dell'artista si riscontra spesso anche una "ruvida" e d essenziale preziosità, dovuta all'originale colloquio o accostamento di marmi diversi per cromatismo, o di materiali differenti come il metallo (bronzo o piombo) e il marmo, come nel caso di David e Guerriero Grande recuperando la sontuosa prassi esistente nella scultura antica e rinascimentale. La sua però non è mai una preziosità gratuita, solo esteriore o di superficie, quanto, invece, l'espressione profonda del suo personale del bello, attraente sì ma che induce alla concentrazione contemplativa.
Silvio Vigliaturo
Si potrebbe ragionare sul segno e i colori che formano la struttura artistica dell’operare di Silvio Vigliaturo e della sua Fucina a Chieri. Silvio deriva da silva, foresta, e lo stesso cognome: Vigliaturo, contiene tutte le lettere della parola vetro al di fuori della vocale “e”, unica eccezione di un lato sensibile che ne denota la sua gentilezza. Dice bene Paolo Levi quando parla del “mondo danzante ed amabile di questo artista mediterraneo”; così pure Vittorio Sgarbi quando sottolinea il “lavorio del fuoco, dell’aria e della terra per restare nella metafora della trasmutazione alchemica”. Elementi, tutti, questi che denotano sia la radice artistica di Silvio Vigliaturo che il carattere distintivo della sua opera. Egli ultimamente reclama questa sua identità con la Magna Grecia, ne sente le radici che con il maturare dell’età ma soprattutto con il “ presentimento della morte che pare comandi tutta la nostra vita affettiva”, come ebbe a scrivere Bernanos, sembra farsi più chiaro tutto il mistero della vita. Egli sente e vive tutto lo spirito dei Misteri Eleusini dove s’incrociano i suoi Diavoli e Angeli. Il suo segno può si, evvero, confluire nel grande fiume del “folclore spagnolo” e per tramite dell’opera di Picasso arrivare sino al surrealismo di certe sue forme o strutture scultoree, ma a mio modo di vedere non vi è stata mai così eleganza e pulizia nel segno e nella scelta dei colori così chiari e lindi, stesi in maniera quasi piatta che ne fanno la sua cifra di riconoscibilità. E questo mi ha rimandato subito come sentimento artistico ai piatti o anche ai vasi attici con dipinte delle scene atletiche. Così il suo uso del colore: bianco , rosso e azzurro, per certi versi mi ha ricordato i colori trionfali della bandiera francese che Raoul Dufi stendeva come fondo nei suoi quadri e che davano ad essi quel senso di festa. E pure qui, in Vigliaturo, vi è un gran senso di festa collettiva. Oh sì, il suo segno potrà anche approsimarsi a certe vetrate tardo gotiche e quindi con echi bizantini; i suoi gialli oro ne testimoniano almeno il passaggio visivo di una certa conoscenza, ma la leggerezza del segno nero che li delimita è tutta moderna, pur rimanendo in essa, quale tecnica, qualcosa di antico. Contiene quella contemporaneità del semplice, della freschezza attuale che hanno, ancora oggi, le scene dei dipinti greci sui vasi antichi, come prima ricordavo. Il loro fluire è costante senza interruzioni della coscienza per l’appunto tutto è fluido e liquido come la memoria, ecco perché Venezia, quindi Murano con i suoi vetri. Lo spazio-luce, lo spazio-tempo, come ebbe a sostenere il poeta Josif Brodskji, trova in Venezia la città per eccellenza dove spazio e tempo s’incrociano su di un unico elemento che raccoglie entrambi: l’acqua! Qui lo spazio-tempo di Vigliaturo incrocia lo spazio-tempo del vetro. E cosa non è il vetro se non acqua cristalizzata? Si pensi per un momento al ghiaccio e in più qui, nei suoi vetri, abbiamo il riflesso dei colori della Venezia emblema di luce, il che equivale a dire il suo colore! Lunga vita quindi all’opera di Silvio Vigliaturo che ci fa rivivere questa antica nostalgia “unica nostra guida” come scriveva Hermann Hesse.
30
marzo 2007
Il Linguaggio della Materia
Dal 30 marzo al 29 aprile 2007
arte contemporanea
Location
IMBIANCHERIA DEL VAJRO
Chieri, Via Imbiancheria, 12, (Torino)
Chieri, Via Imbiancheria, 12, (Torino)
Orario di apertura
venerdì e sabato ore 16,00 -19,00
domenica e festivi ore 10,30 - 12,00 16,00 - 19,00
Vernissage
30 Marzo 2007, ore 18.30
Autore
Curatore