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Il ritorno d’Amore. L’Attis di Donatello restaurato
La mostra è dedicata ad una delle opere più celebri e più misteriose di Donatello – il cosi detto Amore – Attis – che rientra al Museo del Bargello dopo un lungo e complesso restauro, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure
Comunicato stampa
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La mostra è dedicata ad una delle opere più celebri e più misteriose di Donatello – il cosi detto Amore – Attis – che rientra al Museo del Bargello dopo un lungo e complesso restauro, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure.
Prima di riprendere il suo posto nel Salone di Donatello, al primo piano del museo, il bronzo donatelliano viene dunque presentato al pubblico e agli studiosi, nelle sale al piano terreno del Bargello, dedicate alle esposizioni temporanee.
Il restauro ha avuto esiti eccezionali, con il recupero delle dorature ‘a foglia’ e di straordinarie patinature originali, che sembrano proprio ‘colorare’ il bronzo e dargli vita; e con il laborioso risarcimento di vecchi danni: in particolare, di una vistosa frattura al braccio destro, che torna così ad essere saldamente posizionato, restituendo alla figura tutta la sua integrità e la grazia del movimento.
Il lungo restauro (diretto da Anna Maria Giusti, ed eseguito da Fabio Burrini in collaborazione con Svéta Gennai) ha però anche offerto l’occasione per nuovi studi, dei cui risultati la mostra e il catalogo danno conto. Quest’opera di Donatello, per la sua complessa iconografia ed anche per la sua committenza, è infatti da sempre un rebus che non ha trovato finora soluzioni esaurienti. La sua prima citazione, come opera di Donatello, è nelle Vite del Vasari (1568), che vide il bronzo in casa di Giovanni Battista di Agnolo Doni e lo descrisse come “un Mercurio di metallo […] alto un braccio e mezzo, tutto tondo vestito in un certo modo bizzarro”. Già pochi anni più tardi, alla fine del ‘500, s’era persa notizia della paternità donatelliana e la scultura venne ritenuta antica, fino alla fine del ‘700, quando – in occasione della sua offerta in vendita al Granduca da parte della famiglia Doni, che ne era ancora proprietaria – se ne riconobbe l’autografia del grande scultore (Lanzi). Nel 1778, l’opera prese posto nella sala dei bronzi moderni, agli Uffizi, per poi passare nel nuovo Museo Nazionale del Bargello, nel 1865.
Dal suo ingresso nelle collezioni pubbliche, gli studiosi si sono cimentati nella difficile decifrazione della figura, in totale assenza di documenti: è stata identificata come un Mercurio, Panteo, Bacco, Eone, Eros in varie forme … in un accidentato percorso interpretativo, ricostruito nel catalogo della mostra da Paola Barocchi. La parte superiore del putto donatelliano, alato e ridente, si mostra in tutto affine a una figura angelica; mentre la sua parte inferiore mostra quelle caratteristiche “bizzarre” che ne fanno una figura senza precedenti: oltre alla codina di fauno, alle strane alucce ai suoi piedi, ai serpenti che penetrano nei suoi calzari sfondati, soprattutto i curiosi pantaloni legati al cinturone sui fianchi e che lasciano scoperto il sesso e i glutei. Ad essi si deve l’identificazione col mitico dio Attis, figlio di Cibele, venerato in Grecia e a Roma in età imperiale e di cui Donatello poteva conoscere qualche esempio antico: quelle particolari brache aperte sul davanti sono infatti elemento caratteristico del dio frigio, in ricordo della sua castrazione. Per mostrare dunque le analogie, ma anche le molte differenze con Attis – protagonista assieme a sua madre Cibale dei cruenti e torbidi riti del tardo impero, noti come “misteri frigi”, anch’essi illustrati
in catalogo (Romualdi) si presentano per la prima volta a diretto confronto con il vivacissimo putto donatelliano, due Attis antichi (l’uno di bronzo, l’altro di marmo), databili tra il I e il II secolo dopo Cristo, fra i più significativi e meglio conservati che ci siano giunti, provenienti l’uno dal Louvre, l’altro dai Musei Vaticani. Rispetto a questi esempi antichi, ai quali pure liberamente si ispira la figura quattrocentesca con tutti i suoi differenti attributi, appare una straordinaria invenzione di Donatello che, come si suggerisce in catalogo (Paolozzi Strozzi) ha inteso rappresentare una figura di angelo dèmone, cioè una figura ‘doppia’ e contrastane fra virtù (l’angelo della parte superiore) e vizio (il dèmone della parte inferiore), alla maniera delle allegorie medievali, piuttosto che degli esempi classici e mitologici.
Se per ragioni stilistiche e per la vicinanza col David di bronzo, l’opera si data quasi con certezza tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta del ‘400 (alla vigilia della partenza di Donatello per Padova), anche il committente resta a tutt’oggi da accertare, non essendo all’epoca la famiglia Doni, cresciuta d’importanza e di fortuna qualche decennio più tardi, abbastanza in vista per poter richiedere ed ottenere un’opera dal grande Donatello. Gli studi documentari di Francesco Caglioti offrono ora nuovi e stimolanti argomenti per individuare nella famiglia Bartolini i committenti originari del bronzo donatelliano, passato successivamente per discendenza, ai Doni. L’ipotesi, fortemente corroborata dai risultati della ricerca d’archivio, è tanto più suggestiva in quanto i Bartolini hanno nel loro stemma capsule di papavero, del tutto analoghe a quelle che figurano sul cinturone del putto donatelliano, offrendo un’ulteriore nuova chiave di lettura in senso araldico di questo singolare dettaglio iconografico.
Sia le fasi salienti del restauro, che l’affascinante storia dell’opera e quella dell’antico dio Attis, sono illustrate e commentate in mostra da pannelli in italiano e in inglese.
La mostra si conclude con un audiovisivo dedicato a Donatello e all’arte del suo tempo, (curato da Carlo Sisi) che intende essere un invito al visitatore a ripercorrere la straordinaria vicenda artistica del più grande scultore del Quattrocento, i cui capolavori si conservano in gran numero nel salone al primo piano del Bargello.
Prima di riprendere il suo posto nel Salone di Donatello, al primo piano del museo, il bronzo donatelliano viene dunque presentato al pubblico e agli studiosi, nelle sale al piano terreno del Bargello, dedicate alle esposizioni temporanee.
Il restauro ha avuto esiti eccezionali, con il recupero delle dorature ‘a foglia’ e di straordinarie patinature originali, che sembrano proprio ‘colorare’ il bronzo e dargli vita; e con il laborioso risarcimento di vecchi danni: in particolare, di una vistosa frattura al braccio destro, che torna così ad essere saldamente posizionato, restituendo alla figura tutta la sua integrità e la grazia del movimento.
Il lungo restauro (diretto da Anna Maria Giusti, ed eseguito da Fabio Burrini in collaborazione con Svéta Gennai) ha però anche offerto l’occasione per nuovi studi, dei cui risultati la mostra e il catalogo danno conto. Quest’opera di Donatello, per la sua complessa iconografia ed anche per la sua committenza, è infatti da sempre un rebus che non ha trovato finora soluzioni esaurienti. La sua prima citazione, come opera di Donatello, è nelle Vite del Vasari (1568), che vide il bronzo in casa di Giovanni Battista di Agnolo Doni e lo descrisse come “un Mercurio di metallo […] alto un braccio e mezzo, tutto tondo vestito in un certo modo bizzarro”. Già pochi anni più tardi, alla fine del ‘500, s’era persa notizia della paternità donatelliana e la scultura venne ritenuta antica, fino alla fine del ‘700, quando – in occasione della sua offerta in vendita al Granduca da parte della famiglia Doni, che ne era ancora proprietaria – se ne riconobbe l’autografia del grande scultore (Lanzi). Nel 1778, l’opera prese posto nella sala dei bronzi moderni, agli Uffizi, per poi passare nel nuovo Museo Nazionale del Bargello, nel 1865.
Dal suo ingresso nelle collezioni pubbliche, gli studiosi si sono cimentati nella difficile decifrazione della figura, in totale assenza di documenti: è stata identificata come un Mercurio, Panteo, Bacco, Eone, Eros in varie forme … in un accidentato percorso interpretativo, ricostruito nel catalogo della mostra da Paola Barocchi. La parte superiore del putto donatelliano, alato e ridente, si mostra in tutto affine a una figura angelica; mentre la sua parte inferiore mostra quelle caratteristiche “bizzarre” che ne fanno una figura senza precedenti: oltre alla codina di fauno, alle strane alucce ai suoi piedi, ai serpenti che penetrano nei suoi calzari sfondati, soprattutto i curiosi pantaloni legati al cinturone sui fianchi e che lasciano scoperto il sesso e i glutei. Ad essi si deve l’identificazione col mitico dio Attis, figlio di Cibele, venerato in Grecia e a Roma in età imperiale e di cui Donatello poteva conoscere qualche esempio antico: quelle particolari brache aperte sul davanti sono infatti elemento caratteristico del dio frigio, in ricordo della sua castrazione. Per mostrare dunque le analogie, ma anche le molte differenze con Attis – protagonista assieme a sua madre Cibale dei cruenti e torbidi riti del tardo impero, noti come “misteri frigi”, anch’essi illustrati
in catalogo (Romualdi) si presentano per la prima volta a diretto confronto con il vivacissimo putto donatelliano, due Attis antichi (l’uno di bronzo, l’altro di marmo), databili tra il I e il II secolo dopo Cristo, fra i più significativi e meglio conservati che ci siano giunti, provenienti l’uno dal Louvre, l’altro dai Musei Vaticani. Rispetto a questi esempi antichi, ai quali pure liberamente si ispira la figura quattrocentesca con tutti i suoi differenti attributi, appare una straordinaria invenzione di Donatello che, come si suggerisce in catalogo (Paolozzi Strozzi) ha inteso rappresentare una figura di angelo dèmone, cioè una figura ‘doppia’ e contrastane fra virtù (l’angelo della parte superiore) e vizio (il dèmone della parte inferiore), alla maniera delle allegorie medievali, piuttosto che degli esempi classici e mitologici.
Se per ragioni stilistiche e per la vicinanza col David di bronzo, l’opera si data quasi con certezza tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta del ‘400 (alla vigilia della partenza di Donatello per Padova), anche il committente resta a tutt’oggi da accertare, non essendo all’epoca la famiglia Doni, cresciuta d’importanza e di fortuna qualche decennio più tardi, abbastanza in vista per poter richiedere ed ottenere un’opera dal grande Donatello. Gli studi documentari di Francesco Caglioti offrono ora nuovi e stimolanti argomenti per individuare nella famiglia Bartolini i committenti originari del bronzo donatelliano, passato successivamente per discendenza, ai Doni. L’ipotesi, fortemente corroborata dai risultati della ricerca d’archivio, è tanto più suggestiva in quanto i Bartolini hanno nel loro stemma capsule di papavero, del tutto analoghe a quelle che figurano sul cinturone del putto donatelliano, offrendo un’ulteriore nuova chiave di lettura in senso araldico di questo singolare dettaglio iconografico.
Sia le fasi salienti del restauro, che l’affascinante storia dell’opera e quella dell’antico dio Attis, sono illustrate e commentate in mostra da pannelli in italiano e in inglese.
La mostra si conclude con un audiovisivo dedicato a Donatello e all’arte del suo tempo, (curato da Carlo Sisi) che intende essere un invito al visitatore a ripercorrere la straordinaria vicenda artistica del più grande scultore del Quattrocento, i cui capolavori si conservano in gran numero nel salone al primo piano del Bargello.
01
ottobre 2005
Il ritorno d’Amore. L’Attis di Donatello restaurato
Dal primo ottobre 2005 all'otto gennaio 2006
arte antica
Location
MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO
Firenze, Via Del Proconsolo, 4, (Firenze)
Firenze, Via Del Proconsolo, 4, (Firenze)
Biglietti
Intero €. 6.00 (comprensivo dell’ingresso al museo)
Ridotto €. 3.00 per i cittadini della Comunità Europea tra i 18 e i 25 anni.
Gratuito per i cittadini della Comunità Europea sotto i 18 e sopra i 65 anni
Orario di apertura
Martedì – Sabato, 1°, 3° e 5° lunedì e 2°e 4° domenica del mese ore 8.15 - 13.50. Chiuso 2° e 4° lunedì e 1°,3°e 5° domenica del mese, 25 Dicembre e 1 Gennaio
Vernissage
1 Ottobre 2005, ore 18.30
Ufficio stampa
CAMILLA SPERANZA
Autore
Curatore