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Il Ritratto, apparenza ed enigma
Collettiva di pittura dedicata al Ritratto e all’interazione tra i suoi tre interlocutori artistici: il soggetto, l’artista e lo spettatore.
Comunicato stampa
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Che sia un ritratto il dipinto più noto al mondo la dice lunga su questo genere pittorico.
In quel volto, di cui nei secoli ci è stato tramandato persino un nome, già s’incontra il mistero del rapporto tra imitazione del vero e ideale, fra il soggetto in carne e ossa, la rappresentazione e l’artefice del dipinto, che attraversa l’intera storia della ritrattistica fino ai nostri giorni. C’è un enigma, nel ritratto, il quale non si esaurisce ma si nutre di sé e costituisce il fascino stesso del genere. Chi sei tu? Chi fosti? E io? C’è un’eco, non una risposta. Il nostro emblematico ritratto, d’altronde, si sa, ci sorride.
Non è solo un modulo espressivo, dunque, il ritratto. E’ un archetipo. Una figura della mente istintuale che traduce l’esperienza primitiva dell’altro. Tale esperienza, compresa quella, contemporanea, di me come diverso da me, abita l’alba della coscienza e attiva ogni possibile percorso di apprendimento. Nel ritratto, l’identità raffigurata sta all’alterità che la ritrae come il doppio sta al singolo da cui deriva. La collettiva allestita dalla 11DREAMS Art Gallery approfondisce il tema di questa “proporzione” che ha percorso la storia del ritratto, presentandone gli esiti attuali. Dal ’900 in poi la funzione celebrativa del ritratto si è sgretolata con l’irrompere della fotografia da un lato e dell’indagine psicologica dall’altro, a cui viene chiamato a partecipare, con l’artista e il soggetto, l’osservatore stesso. “Essere immortalati”, resi immortali, con un dipinto diviene un carattere complementare, non un fine, non solo. Quello che conta è il volto, luogo di metafore. Lo sfondo è lo spazio della luce e dell’oscurità, del colore, della mente.
Oggi che si vive ogni giorno a contatto con centinaia di facce, da quando la dimensione sociale si è allargata ai territori del web, viviamo nell’ipotesi di un possibile confronto all’infinito con una folla di identità apparenti. Facce, profili. Ritratti, insomma, in cui l’enigma s’infittisce, allargando i suoi termini dall’identità apparente alla vita apparente. In questo inizio di millennio l’artista sfida il mistero e s’infiltra negli interstizi tra reale, virtuale e ideale, rimarcando il rapporto fisico con gli strumenti della sua arte e con la materia, che nel ritratto sono l’alfabeto della comunicazione tra l’autore, il soggetto e chi guarda.
La matita iperrealista di Antonio Finelli si rallegra percorrendo le rughe dei volti, incanalandosi lungo le pieghe che ne scolpiscono la fisionomia. Sull’epidermide degli anziani ritratti in primissimo piano, di fronte, si coglie la trama del tempo. I soggetti osservano, soprattutto sorridono, attraverso la filatura chiaroscurale. Presenze quotidiane. Buongiorno, signore, dicono. E nulla appare al di là della loro cortesia, eppure s’intravede il mistero del vissuto nelle increspature attorno agli occhi, alla bocca e la ciclica metamorfosi che ci coinvolge tutti. La clessidra, però, si capovolge. C’è una bambina nel dipinto di Alessandra Pagliuca. Entra il colore. Su una campitura sfumata, ça va sans dire, senza connotazioni d’ambiente, pare colta all’improvviso. Di tre quarti, sbircia di lato. Negli occhi, motore dell’immagine, guizza il passaggio di qualcosa che attrae la sua attenzione. Schiude le labbra, dove resta sospeso un esclamativo, una domanda, forse. Sta arrivando qualcosa. Un sentimento d’attesa si trasmette a chi guarda anche dal lavoro di Gianna Bari, “Wedding”. Negli sguardi degli sposi, proiettati oltre il perimetro del quadro, si legge il tentativo di fermare l’istante, insieme già passato e gettato al futuro. L’abbraccio dei loro corpi, a mezzo busto, contrasto di bianco e nero, traccia la figura di un imperfetto triangolo. Al vertice il contatto dei volti, alla base l’incontro dei calici, mentre il moto di curve tonali sullo sfondo attrae nell’immagine la vibrazione del sentire. Qui, perciò, realismo e supremazia del disegno svelano la dimensione emotiva del momento raffigurato. Con i ritratti di Marco Rubiero, invece, si assiste a uno scarto rispetto all’adesione al vero e il canone fisiognomico, la rappresentazione di un soggetto concreto volge all’ideale. La donna ritratta, con toni di grigio e venature di movimento purpuree, è una bellezza adolescente il cui senso di stupore e di purezza sono ancorati nella quotidianità. Le linee del volto, i tratti somatici suggeriscono morbidezza al contatto e la sua identità sembra malleabile. Si presta all’incontro e alla trasformazione ma pare colta prima che ciò avvenga. La sabbiatura del supporto, infine, immette la fisicità della terra, elemento femminile, metafora del corpo, del ciclo vitale.
La costruzione di allegorie si afferma con evidenza nell’iperrealismo di Elisa Grassi, alterato da esiti glamour, da foto d’alta moda, dell’immagine. C’è un’identità di donna, di coscienza, di carne dietro al volto che l’esuberanza del colore fa affiorare dal nero dello sfondo. Prevale, però, l’artificio e gli accessori d’attrattiva femminili, l’acconciatura, il trucco, il collare in foglia d’oro concorrono a creare un ideale femminino magico e misterioso. “Sirena dell’oro”, d’altronde, rientra in una serie dedicata al legame tra gli elementi naturali e la donna. Suoi attributi l’incanto e una seducenza verso una bellezza fragile, a volte terribile, di miraggio, di sirena, appunto, che illude, trae a sé e smarrisce.
All’opposto, sui volti di Ramon Trinca vengono a galla gli abissi dell’animo, gli spazi di follia. La fisionomia reale è scossa dal loro emergere, il segno diviene brivido, i tratti somatici sembrano sul punto di sciogliersi. I toni sono quelli di un giorno di pioggia e i soggetti trasmettono lo spaesamento di una folla di solitudini senza interlocutori per i drammi dell’esistenza. E poi difficile non pensare a Warhol e a Bacon di fronte a “Marilyn deve morire”. La decomposizione che, istante dopo istante, agisce sui corpi accompagna quella di un mito contemporaneo che si spappola su di sé, travolto dal reiterare all’infinito un’icona la quale così si consuma.
La mimesi del reale si spezza nei lavori di Elena Menga e Marta Rolandi. Codice di contatto tra autore e soggetto, nei dipinti di Menga, è il colore, che dà voce al dialogo tra i poli della rappresentazione. Con contorni netti e un tocco cromatico deciso la figura si stacca dallo sfondo, irrompe sulla scena. “Betty” fuma, ride, guarda avanti, oltre chi l’osserva. Nella scelta di un gesto pittorico potente, di toni innaturali, di timbri in contrasto, l’artista ne coglie le contraddizioni. Se la spalla destra, infatti, si abbassa, invita, il braccio alzato, la mano che sorregge la sigaretta costituiscono un piano di separazione rispetto all’esterno. Evapora dal supporto la ragazza nel dipinto, a olio su legno, di Rolandi. E’ un’impressione di passaggio colta al volo, l’impronta di un volto, di un’occhiata, di un corpo. Qui mi vedi ma sono già altrove, rivela, abbattendo la finzione del ritratto. L’equilibrio tonale è dato dal dialogo di poche tinte terrose, su cui le generose pennellate di bianco che seguono i contorni della figura introducono il movimento e un’inquietudine acquattata dietro a quegli occhi, indefinibile e condivisa dallo sguardo dell’artista. Nell’autoritratto di Gaspare Sicula il gioco di sfaccettature creato dal supporto in pluriball scompone in cellule il colore. E’ il solo autoritratto della rassegna e ritorna l’adesione al “verosimile”, l’enigma del doppio. La rappresentazione fisiognomica del suo volto è però una rarità tra i lavori dell’artista. Più spesso egli si identifica con Feliscatus, il Gatto, a volte è un poco Dracula, il vampiro o Arlecchino multicolore. Ecco Gaspare, invece, a continuare la serie degli alter ego, figura schiva che non guarda chi osserva, concentrato nella pittura che immortala e specchia in simboli la realtà.
Elena Carrea
In quel volto, di cui nei secoli ci è stato tramandato persino un nome, già s’incontra il mistero del rapporto tra imitazione del vero e ideale, fra il soggetto in carne e ossa, la rappresentazione e l’artefice del dipinto, che attraversa l’intera storia della ritrattistica fino ai nostri giorni. C’è un enigma, nel ritratto, il quale non si esaurisce ma si nutre di sé e costituisce il fascino stesso del genere. Chi sei tu? Chi fosti? E io? C’è un’eco, non una risposta. Il nostro emblematico ritratto, d’altronde, si sa, ci sorride.
Non è solo un modulo espressivo, dunque, il ritratto. E’ un archetipo. Una figura della mente istintuale che traduce l’esperienza primitiva dell’altro. Tale esperienza, compresa quella, contemporanea, di me come diverso da me, abita l’alba della coscienza e attiva ogni possibile percorso di apprendimento. Nel ritratto, l’identità raffigurata sta all’alterità che la ritrae come il doppio sta al singolo da cui deriva. La collettiva allestita dalla 11DREAMS Art Gallery approfondisce il tema di questa “proporzione” che ha percorso la storia del ritratto, presentandone gli esiti attuali. Dal ’900 in poi la funzione celebrativa del ritratto si è sgretolata con l’irrompere della fotografia da un lato e dell’indagine psicologica dall’altro, a cui viene chiamato a partecipare, con l’artista e il soggetto, l’osservatore stesso. “Essere immortalati”, resi immortali, con un dipinto diviene un carattere complementare, non un fine, non solo. Quello che conta è il volto, luogo di metafore. Lo sfondo è lo spazio della luce e dell’oscurità, del colore, della mente.
Oggi che si vive ogni giorno a contatto con centinaia di facce, da quando la dimensione sociale si è allargata ai territori del web, viviamo nell’ipotesi di un possibile confronto all’infinito con una folla di identità apparenti. Facce, profili. Ritratti, insomma, in cui l’enigma s’infittisce, allargando i suoi termini dall’identità apparente alla vita apparente. In questo inizio di millennio l’artista sfida il mistero e s’infiltra negli interstizi tra reale, virtuale e ideale, rimarcando il rapporto fisico con gli strumenti della sua arte e con la materia, che nel ritratto sono l’alfabeto della comunicazione tra l’autore, il soggetto e chi guarda.
La matita iperrealista di Antonio Finelli si rallegra percorrendo le rughe dei volti, incanalandosi lungo le pieghe che ne scolpiscono la fisionomia. Sull’epidermide degli anziani ritratti in primissimo piano, di fronte, si coglie la trama del tempo. I soggetti osservano, soprattutto sorridono, attraverso la filatura chiaroscurale. Presenze quotidiane. Buongiorno, signore, dicono. E nulla appare al di là della loro cortesia, eppure s’intravede il mistero del vissuto nelle increspature attorno agli occhi, alla bocca e la ciclica metamorfosi che ci coinvolge tutti. La clessidra, però, si capovolge. C’è una bambina nel dipinto di Alessandra Pagliuca. Entra il colore. Su una campitura sfumata, ça va sans dire, senza connotazioni d’ambiente, pare colta all’improvviso. Di tre quarti, sbircia di lato. Negli occhi, motore dell’immagine, guizza il passaggio di qualcosa che attrae la sua attenzione. Schiude le labbra, dove resta sospeso un esclamativo, una domanda, forse. Sta arrivando qualcosa. Un sentimento d’attesa si trasmette a chi guarda anche dal lavoro di Gianna Bari, “Wedding”. Negli sguardi degli sposi, proiettati oltre il perimetro del quadro, si legge il tentativo di fermare l’istante, insieme già passato e gettato al futuro. L’abbraccio dei loro corpi, a mezzo busto, contrasto di bianco e nero, traccia la figura di un imperfetto triangolo. Al vertice il contatto dei volti, alla base l’incontro dei calici, mentre il moto di curve tonali sullo sfondo attrae nell’immagine la vibrazione del sentire. Qui, perciò, realismo e supremazia del disegno svelano la dimensione emotiva del momento raffigurato. Con i ritratti di Marco Rubiero, invece, si assiste a uno scarto rispetto all’adesione al vero e il canone fisiognomico, la rappresentazione di un soggetto concreto volge all’ideale. La donna ritratta, con toni di grigio e venature di movimento purpuree, è una bellezza adolescente il cui senso di stupore e di purezza sono ancorati nella quotidianità. Le linee del volto, i tratti somatici suggeriscono morbidezza al contatto e la sua identità sembra malleabile. Si presta all’incontro e alla trasformazione ma pare colta prima che ciò avvenga. La sabbiatura del supporto, infine, immette la fisicità della terra, elemento femminile, metafora del corpo, del ciclo vitale.
La costruzione di allegorie si afferma con evidenza nell’iperrealismo di Elisa Grassi, alterato da esiti glamour, da foto d’alta moda, dell’immagine. C’è un’identità di donna, di coscienza, di carne dietro al volto che l’esuberanza del colore fa affiorare dal nero dello sfondo. Prevale, però, l’artificio e gli accessori d’attrattiva femminili, l’acconciatura, il trucco, il collare in foglia d’oro concorrono a creare un ideale femminino magico e misterioso. “Sirena dell’oro”, d’altronde, rientra in una serie dedicata al legame tra gli elementi naturali e la donna. Suoi attributi l’incanto e una seducenza verso una bellezza fragile, a volte terribile, di miraggio, di sirena, appunto, che illude, trae a sé e smarrisce.
All’opposto, sui volti di Ramon Trinca vengono a galla gli abissi dell’animo, gli spazi di follia. La fisionomia reale è scossa dal loro emergere, il segno diviene brivido, i tratti somatici sembrano sul punto di sciogliersi. I toni sono quelli di un giorno di pioggia e i soggetti trasmettono lo spaesamento di una folla di solitudini senza interlocutori per i drammi dell’esistenza. E poi difficile non pensare a Warhol e a Bacon di fronte a “Marilyn deve morire”. La decomposizione che, istante dopo istante, agisce sui corpi accompagna quella di un mito contemporaneo che si spappola su di sé, travolto dal reiterare all’infinito un’icona la quale così si consuma.
La mimesi del reale si spezza nei lavori di Elena Menga e Marta Rolandi. Codice di contatto tra autore e soggetto, nei dipinti di Menga, è il colore, che dà voce al dialogo tra i poli della rappresentazione. Con contorni netti e un tocco cromatico deciso la figura si stacca dallo sfondo, irrompe sulla scena. “Betty” fuma, ride, guarda avanti, oltre chi l’osserva. Nella scelta di un gesto pittorico potente, di toni innaturali, di timbri in contrasto, l’artista ne coglie le contraddizioni. Se la spalla destra, infatti, si abbassa, invita, il braccio alzato, la mano che sorregge la sigaretta costituiscono un piano di separazione rispetto all’esterno. Evapora dal supporto la ragazza nel dipinto, a olio su legno, di Rolandi. E’ un’impressione di passaggio colta al volo, l’impronta di un volto, di un’occhiata, di un corpo. Qui mi vedi ma sono già altrove, rivela, abbattendo la finzione del ritratto. L’equilibrio tonale è dato dal dialogo di poche tinte terrose, su cui le generose pennellate di bianco che seguono i contorni della figura introducono il movimento e un’inquietudine acquattata dietro a quegli occhi, indefinibile e condivisa dallo sguardo dell’artista. Nell’autoritratto di Gaspare Sicula il gioco di sfaccettature creato dal supporto in pluriball scompone in cellule il colore. E’ il solo autoritratto della rassegna e ritorna l’adesione al “verosimile”, l’enigma del doppio. La rappresentazione fisiognomica del suo volto è però una rarità tra i lavori dell’artista. Più spesso egli si identifica con Feliscatus, il Gatto, a volte è un poco Dracula, il vampiro o Arlecchino multicolore. Ecco Gaspare, invece, a continuare la serie degli alter ego, figura schiva che non guarda chi osserva, concentrato nella pittura che immortala e specchia in simboli la realtà.
Elena Carrea
25
novembre 2012
Il Ritratto, apparenza ed enigma
Dal 25 novembre 2012 al 06 gennaio 2013
arte contemporanea
Location
11DREAMS ART GALLERY
Tortona, Via Rinarolo, 11/c, (Alessandria)
Tortona, Via Rinarolo, 11/c, (Alessandria)
Orario di apertura
da martedì a domenica ore 16-19:30
Vernissage
25 Novembre 2012, ore 17:30
Autore
Curatore