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Il Sacro
fotografie di Gianni Berengo Gardin, Mario Giacomelli, Mario De Biasi, Franco Pinna, Pepi Merisio, Caio Mario Garrubba, Federico Patellani, Carlo Bevilacqua, Piergiorgio Branzi, Enzo Sellerio, Alfredo Camisa.
Comunicato stampa
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Quello della religiosità popolare fu uno dei temi cruciali per la fotografia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, coinvolgendo fotografi di estrazioni ideologiche opposte e spaziando da rappresentazioni di momenti ufficiali della vita della Chiesa cattolica – come l’apertura dell’Anno santo, nel 1950 – ad inchieste sul magismo e sulla sopravvivenza di riti pagani, ancora molto diffusi nell’Italia meridionale, come quelli documentati da Federico Patellani in Lucania nel 1952, e pubblicati in dieci puntate sulla rivista ‘Tempo’ in una serie intitolata Italia magica. Fu uno straordinario laboratorio, che vide per anni impegnati i fotografi a fianco di scrittori e di etno-antropologi di fama, quali Leonardo Sciascia e Ernesto de Martino, per citare giusto due nomi tra i molti.
Raramente esposte prima d’ora, in mostra è una studiata selezione di vintage prints, capolavori di importanza straordinaria provenienti dal nucleo più segreto della collezione di Paolo Morello: «Ho cominciato a raccogliere fotografie dedicate a questo tema — spiega — oltre venti anni fa, e credo esistano poche altre raccolte confrontabili per qualità e rarità. Da qualsiasi prospettiva le si osservi, artistica, antropologica, storico-culturale o religiosa, sono opere la cui intensità suscita una commozione profonda».
La mostra si apre con la celeberrima serie di Mario Giacomelli, Lourdes, dove il fotografo si recò due volte, nel 1957 e poi di nuovo nel 1959, dietro una commissione professionale. «Mi sembrava un sacrilegio fotografare in mezzo a tanta gente che pregava con tanta fede — scrisse Giacomelli all’amico Alfredo Camisa nell’ottobre 1958 —. Poi, tutti quegli ammalati mi hanno impressionato in maniera da non credere». A Lourdes, Giacomelli fotografò la fiaccolata che si svolge di notte, sfilando in bianchi meandri sullo sfondo nero, e le colonne di ammalati, che si avviano verso la chiesa, in file sottili, interminabili, esangui, che attraversano l’inquadratura in diagonale, avanzando lentamente come ombre prive di consistenza. Ed ancora fotografò gli sguardi di rassegnazione, di fede, di attesa, degli ammalati distesi sulle barelle, sotto le cupolette di tela. Immagini cariche di umanità e di tensione, tra le più intense di Giacomelli, ancora distanti dal formalismo corrivo dei Pretini di pochi anni più tardi.
Altrettanto intensa è la serie dei Pellegrini al mio Santuario di Pepi Merisio, del 1956. Mirabile il volto dell’anziana donna, su una sedia a rotelle: ha gli occhi socchiusi, l’espressione contrita, la pelle rugosa, una mano che punta verso il petto, l’altra protesa, intorno alle dita si avvolge un rosario. Nato a Caravaggio, nella camapgna bergamasca, presa una laurea in filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, Merisio (1931) decide di dedicarsi alla fotografia professionale ritornando tra la sua gente: In morte dello zio Angelo, una lunga sequenza ripresa nel 1956 a Peia, un paese della val Gandino e pubblicato, con ampio risalto, sulla rivista svizzera ‘du’ due anni più tardi, manifesta pienamente l’orgoglio di appartenere a quella gente e a quella terra. Cattolico militante, Merisio fu per molti anni uno dei pochi fotografi delle cerimonie ufficiali in Vaticano. Uno dei suoi servizi più noti, Una giornata col papa, apparve su ‘Epoca’ nel 1964. Altri non meno importanti reportages sul Vaticano e sull’Italia cattolica saranno pubblicati su ‘du’ rispettivamente nel gennaio 1968 e nel luglio 1972. Le sue fotografie presentano dunque un doppio registro: da un lato, le porpore cardinalizie, le guardie svizzere, le secentesche uniformi dei principi dell’aristocrazia nera romana; dall’altro lato, la religione degli umili, le processioni, gli ex-voto, i pellegrinaggi: come il commovente Pellegrinaggio a monte Autore, del 1966: tra i fedeli accampati a terra, sulle coperte, tra i sassi battuti dal vento freddo, Merisio va alla ricerca di quel senso di solidarietà che tra i marmi dei palazzi Vaticani è difficile trovare.
È difficile riassumere in poche righe la lunga e travagliata collaborazione tra il fotografo Franco Pinna e l’antropologo Ernesto de Martino, promotore, a partire dal 1952, di una serie di ‘spedizioni’ multidisciplinari in Lucania e in Puglia. alle quali quali presero parte, accanto ad etno-musicologi come Diego Carpitella, anche fotografi come Arturo Zavattini, Ando Gilardi e, con il duplice ruolo di cineoperatore e poi di fotografo, anche Pinna. Quest’ultimo seppe produrre immagini di documentazione, ma anche testimonianze visive dotate di carattere e di autonomia espressiva. Gli sguardi degli astanti al Santuario della Madonna di Pierno a San Fele, in una otografia che Pinna prese nel 1956, difficilmente possono trovare confronti di eguale intensità: qui capisci come la devozione popolare è un misto di speranza, di attesa e di arcaico terrore. Tutt’altro interesse hanno le testimonianze dei lamenti funebri rituali a Castelsaraceno o degli esorcismi delle ‘tarantate’ di Nardò, riti nei quali la liturgia cristiana si innesta sopra i ‘relitti’ (per usare una espressione di de Martino) di retaggi pagani millenari.
Un penetrante gioco di sguardi avvolge il vistatore della mostra. Agli occhi dei bambini della Madonna di Pierno fanno eco quelli della celeberrima Scuola coranica, di Alfredo Camisa, 1956, un’opera amata da Cornell Capa, che la pubblicò ed espose in innumerevoli occasioni. Come in un sottile controcanto, chiuse sono invece le palpebre dell’anziana donna russa che assiste ad una funzione in uan chiesa ortodossa a Mosca, ripresa da Caio Mario Garrubba nel 1964. In questo capolavoro tutto trasuda un misticismo orientale: la sguardo rapito, la mano sppiegata sul cuore, i ceri, il pope dalla lunga barba che solleva il turibolo. Assai più rarefatta è l’atmosfera della Processione di Carlo Bevilacqua, con il Cristo osteso dal chierichetto ed immerso in un metafisico controluce. Molto più fisico, muscolare — pagano, per usare le parole di Leonardo Sciascia — è il senso di religiosità che promana dalle feste religiose in Sicilia, come quella dei santi Alfio, Cirino e Filadelfo a Trecastagni, fotografate da Enzo Sellerio nel 1963, e dal giovanissimo Scianna. La mostra offre una rarità filologica, assai poco nota, con il menabò originale, prodotto in soli cinque esemplari con quattordici stampe vintage originali del catanese Mario Finocchiaro, il primo tra i siciliani a documentare nel 1958 le feste patronali del comprensorio etneo. Esposte a Padova nel 1958, le fotografie di Finocchiaro non ebbero tuttavia il successo atteso, sebbe possiedano una eccezionale intensità drammatica, negli sguardi, nei volti, nei gesti, negli ex-voto ostesi, nelle urla, negli svenimenti, nelle braccia protese. La cerimonia religiosa diviene occasione per una gigantesca, corale teatralizzazione, nella quale ciascuno ciascun fedele trova un ruolo d’attore.
Un progressivo intensificarsi di emozioni guida il visitatore verso il climax della mostra: due rarissime vintage prints di Gianni Berengo Gardin: Venezia, Corpus Domini, del 1957. Si tratta esattamente degli esemplari esposti alla III mostra nazionale di Padova, alla quale Berengo Gardin vinse il primo premio, superando persino Giacomelli che allo stesso concorso esponeva Vita d’ospizio (Verrà la morte e avrà i suoi occhi). Dopo il suo rientro in Italia da Parigi, nel 1953, Berengo aveva iniziato un lavoro su Venezia, dove viveva, lavoro che si sarebbe concluso nel 1965 con la pubblicazione del volume Venise des saisons, per i tipi della Guilde du Livre di Losanna. La serie sul Corpus Domini è di fatto parte di questo più ampio progetto. La prima immagine mostra un anziano che, in un gesto di struggente abbandono, si porta alla fronte una croce di legno al passaggio della processione; un’altra fotografia mostra quattro persone – un prete, due donne, un vecchio sullo sfondo – che attendono in piedi alla cerimonia. Immagini indimenticabili per tensione psicologica, alle quali fa eco la straordinaria intensità emotiva della serie ripresa da Mario De Biasi alla Festa di san Tomas a Chichicastenango, in Guatemala, nel 1972. Come nelle abitudini del grande reporter, anche questa serie fu ripresa nelle condizioni più estreme: dall’alto di un cornicione, alla luce di sole candele. È l’abbandono dei volti, delle braccia aperte, dei bambini attaccati al seno di giovani donne, a commuoverci profondamente. Quello ripreso da De Biasi non è un freddo rituale, ma un presepio vivente.
Raramente esposte prima d’ora, in mostra è una studiata selezione di vintage prints, capolavori di importanza straordinaria provenienti dal nucleo più segreto della collezione di Paolo Morello: «Ho cominciato a raccogliere fotografie dedicate a questo tema — spiega — oltre venti anni fa, e credo esistano poche altre raccolte confrontabili per qualità e rarità. Da qualsiasi prospettiva le si osservi, artistica, antropologica, storico-culturale o religiosa, sono opere la cui intensità suscita una commozione profonda».
La mostra si apre con la celeberrima serie di Mario Giacomelli, Lourdes, dove il fotografo si recò due volte, nel 1957 e poi di nuovo nel 1959, dietro una commissione professionale. «Mi sembrava un sacrilegio fotografare in mezzo a tanta gente che pregava con tanta fede — scrisse Giacomelli all’amico Alfredo Camisa nell’ottobre 1958 —. Poi, tutti quegli ammalati mi hanno impressionato in maniera da non credere». A Lourdes, Giacomelli fotografò la fiaccolata che si svolge di notte, sfilando in bianchi meandri sullo sfondo nero, e le colonne di ammalati, che si avviano verso la chiesa, in file sottili, interminabili, esangui, che attraversano l’inquadratura in diagonale, avanzando lentamente come ombre prive di consistenza. Ed ancora fotografò gli sguardi di rassegnazione, di fede, di attesa, degli ammalati distesi sulle barelle, sotto le cupolette di tela. Immagini cariche di umanità e di tensione, tra le più intense di Giacomelli, ancora distanti dal formalismo corrivo dei Pretini di pochi anni più tardi.
Altrettanto intensa è la serie dei Pellegrini al mio Santuario di Pepi Merisio, del 1956. Mirabile il volto dell’anziana donna, su una sedia a rotelle: ha gli occhi socchiusi, l’espressione contrita, la pelle rugosa, una mano che punta verso il petto, l’altra protesa, intorno alle dita si avvolge un rosario. Nato a Caravaggio, nella camapgna bergamasca, presa una laurea in filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, Merisio (1931) decide di dedicarsi alla fotografia professionale ritornando tra la sua gente: In morte dello zio Angelo, una lunga sequenza ripresa nel 1956 a Peia, un paese della val Gandino e pubblicato, con ampio risalto, sulla rivista svizzera ‘du’ due anni più tardi, manifesta pienamente l’orgoglio di appartenere a quella gente e a quella terra. Cattolico militante, Merisio fu per molti anni uno dei pochi fotografi delle cerimonie ufficiali in Vaticano. Uno dei suoi servizi più noti, Una giornata col papa, apparve su ‘Epoca’ nel 1964. Altri non meno importanti reportages sul Vaticano e sull’Italia cattolica saranno pubblicati su ‘du’ rispettivamente nel gennaio 1968 e nel luglio 1972. Le sue fotografie presentano dunque un doppio registro: da un lato, le porpore cardinalizie, le guardie svizzere, le secentesche uniformi dei principi dell’aristocrazia nera romana; dall’altro lato, la religione degli umili, le processioni, gli ex-voto, i pellegrinaggi: come il commovente Pellegrinaggio a monte Autore, del 1966: tra i fedeli accampati a terra, sulle coperte, tra i sassi battuti dal vento freddo, Merisio va alla ricerca di quel senso di solidarietà che tra i marmi dei palazzi Vaticani è difficile trovare.
È difficile riassumere in poche righe la lunga e travagliata collaborazione tra il fotografo Franco Pinna e l’antropologo Ernesto de Martino, promotore, a partire dal 1952, di una serie di ‘spedizioni’ multidisciplinari in Lucania e in Puglia. alle quali quali presero parte, accanto ad etno-musicologi come Diego Carpitella, anche fotografi come Arturo Zavattini, Ando Gilardi e, con il duplice ruolo di cineoperatore e poi di fotografo, anche Pinna. Quest’ultimo seppe produrre immagini di documentazione, ma anche testimonianze visive dotate di carattere e di autonomia espressiva. Gli sguardi degli astanti al Santuario della Madonna di Pierno a San Fele, in una otografia che Pinna prese nel 1956, difficilmente possono trovare confronti di eguale intensità: qui capisci come la devozione popolare è un misto di speranza, di attesa e di arcaico terrore. Tutt’altro interesse hanno le testimonianze dei lamenti funebri rituali a Castelsaraceno o degli esorcismi delle ‘tarantate’ di Nardò, riti nei quali la liturgia cristiana si innesta sopra i ‘relitti’ (per usare una espressione di de Martino) di retaggi pagani millenari.
Un penetrante gioco di sguardi avvolge il vistatore della mostra. Agli occhi dei bambini della Madonna di Pierno fanno eco quelli della celeberrima Scuola coranica, di Alfredo Camisa, 1956, un’opera amata da Cornell Capa, che la pubblicò ed espose in innumerevoli occasioni. Come in un sottile controcanto, chiuse sono invece le palpebre dell’anziana donna russa che assiste ad una funzione in uan chiesa ortodossa a Mosca, ripresa da Caio Mario Garrubba nel 1964. In questo capolavoro tutto trasuda un misticismo orientale: la sguardo rapito, la mano sppiegata sul cuore, i ceri, il pope dalla lunga barba che solleva il turibolo. Assai più rarefatta è l’atmosfera della Processione di Carlo Bevilacqua, con il Cristo osteso dal chierichetto ed immerso in un metafisico controluce. Molto più fisico, muscolare — pagano, per usare le parole di Leonardo Sciascia — è il senso di religiosità che promana dalle feste religiose in Sicilia, come quella dei santi Alfio, Cirino e Filadelfo a Trecastagni, fotografate da Enzo Sellerio nel 1963, e dal giovanissimo Scianna. La mostra offre una rarità filologica, assai poco nota, con il menabò originale, prodotto in soli cinque esemplari con quattordici stampe vintage originali del catanese Mario Finocchiaro, il primo tra i siciliani a documentare nel 1958 le feste patronali del comprensorio etneo. Esposte a Padova nel 1958, le fotografie di Finocchiaro non ebbero tuttavia il successo atteso, sebbe possiedano una eccezionale intensità drammatica, negli sguardi, nei volti, nei gesti, negli ex-voto ostesi, nelle urla, negli svenimenti, nelle braccia protese. La cerimonia religiosa diviene occasione per una gigantesca, corale teatralizzazione, nella quale ciascuno ciascun fedele trova un ruolo d’attore.
Un progressivo intensificarsi di emozioni guida il visitatore verso il climax della mostra: due rarissime vintage prints di Gianni Berengo Gardin: Venezia, Corpus Domini, del 1957. Si tratta esattamente degli esemplari esposti alla III mostra nazionale di Padova, alla quale Berengo Gardin vinse il primo premio, superando persino Giacomelli che allo stesso concorso esponeva Vita d’ospizio (Verrà la morte e avrà i suoi occhi). Dopo il suo rientro in Italia da Parigi, nel 1953, Berengo aveva iniziato un lavoro su Venezia, dove viveva, lavoro che si sarebbe concluso nel 1965 con la pubblicazione del volume Venise des saisons, per i tipi della Guilde du Livre di Losanna. La serie sul Corpus Domini è di fatto parte di questo più ampio progetto. La prima immagine mostra un anziano che, in un gesto di struggente abbandono, si porta alla fronte una croce di legno al passaggio della processione; un’altra fotografia mostra quattro persone – un prete, due donne, un vecchio sullo sfondo – che attendono in piedi alla cerimonia. Immagini indimenticabili per tensione psicologica, alle quali fa eco la straordinaria intensità emotiva della serie ripresa da Mario De Biasi alla Festa di san Tomas a Chichicastenango, in Guatemala, nel 1972. Come nelle abitudini del grande reporter, anche questa serie fu ripresa nelle condizioni più estreme: dall’alto di un cornicione, alla luce di sole candele. È l’abbandono dei volti, delle braccia aperte, dei bambini attaccati al seno di giovani donne, a commuoverci profondamente. Quello ripreso da De Biasi non è un freddo rituale, ma un presepio vivente.
13
dicembre 2014
Il Sacro
Dal 13 dicembre 2014 al 30 gennaio 2015
fotografia
Location
GALLERIA STUDIO
Palermo, Via Bandiera, 11, (Palermo)
Palermo, Via Bandiera, 11, (Palermo)
Orario di apertura
martedì - domenica 16.00 · 20.00
Vernissage
13 Dicembre 2014, ore 18.30
Autore