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Il viaggio
Mostra conclusiva e proclamazione del vincitore del Premio Arti Visive San Fedele 2005/2006
Comunicato stampa
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La Giuria:
Daniele Astrologo, Giuseppina Caccia Dominioni, Chiara Canali, Chiara Chiavarino, Andrea Dall’Asta, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Claudia Gian Ferrari, Paolo Lamberti, Angela Madesani, Ada Masoero, Lucia Matino, Angela Orsini, Stefano Pirovano, Silvana Turzio, Marco Zanta
Il tema del viaggio ha segnato molte esperienze artistiche contemporanee. Su questo, sono stati chiamati a confrontarsi i giovani artisti del Premio San Fedele, che piegando il tema proposto in base alle proprie ricerche estetiche, sono riusciti a darne interpretazioni talvolta inedite. Come Domenico Buzzetti, che più di tutti sembra aver ragionato sull’argomento, riflettendo sull’idea del bagaglio - o meglio del fardello - come simbolo di un viaggio esistenziale che, da un lato, tende ad abbandonare le cose (intese come i legami materiali), dall’altro ad accumularne (in termini di esperienze, ricordi e ferite che pesano come borse piene di sassi). Buzzetti, regista e interprete di un cortometraggio che strizza lo stomaco - complici il montaggio da cardiopalma e le musiche inquietanti da carillon - è stato bravissimo nell’inventare “un viaggio sul senso del viaggio”. Un percorso di ricerca dei propri limiti, di raggiungimento della consapevolezza di sé attraverso un tragitto quotidiano, atrocemente normale; fatto di pendolarismo, di pasti consumati in fretta, di chiacchiere veloci e estenuanti routine. Più che un viaggio dell’esistenza, il suo è un viaggio per la sopravvivenza. Qualcosa di molto simile a ciò che ha messo in scena anche Yamilé Barcelò Hondares, nata a l’Avana nel ’75 e autrice di un dittico video-fotografico, in cui ritrae se stessa di spalle, seduta su un gommone di fortuna, intenta a remare con tutte le sue forze pur di raggiungere una sorta di terra promessa, posta al di là dell’oceano e lontana da Cuba. Peccato che di fronte a lei ci sia un muro di cemento, simbolo di una fuga impedita da ostacoli ingombranti. Come lo sono i pregiudizi diffusi sulla situazione degli immigrati e, soprattutto, come lo è il peso del passato, fatto di amore e odio per la propria terra, di legami che si tenta, dolorosamente, di spezzare, ma che tornano a presentarsi come moniti, come avvertimenti di una condizione immutabile e – citando il titolo del lavoro - di un “tempo immobile”. Complice e vittima del suo stesso vascello di fortuna, Yamilé rilegge l’iconografia classica della nave bloccata in mezzo al mare dall’assenza di vento; sullo sfondo c’è l’idea di un viaggio destinato a toccare i porti delle necessità. C’è anche una costante ricerca di risposte; c’è la paura di ciò che non si può prevedere e, specialmente, c’è un forte bisogno di comunicare.
Più ottimistica, la visione di Tomy Tanaka. Sintetizzata nella raffigurazione di un piccolo seme d’oro da cui spunta appena un ramoscello tenero, la sua immagine del viaggio corrisponde con quella della vita stessa, a partire dalla nascita, per passare poi attraverso lo sviluppo e la maturazione. In linea con il suo retroterra giapponese, l’arte di Tomy dice molto, servendosi di poco. Senza clamori. Ma con messaggi diretti. È raffinata ed essenziale. E il messaggio risulta chiaro sin dal titolo dell’opera, Viaggio di luce. Il seme è quello dell’anima e fiorisce sotto il sole. Il ciclo della natura coincide con quello della vita. Tutto il resto è mistero: il mistero dell’esistenza, da accettare come un tragitto di cui si conosce il punto di partenza e non quello d’arrivo. Sul punto d’arrivo ha riflettuto, invece, Gianni Moretti in un lavoro, Ritratto di famiglia, che al viaggio della vita contrappone quello della morte, narrando, per fotogrammi, il volo metafisico di un uccello verso la decomposizione del corpo. Un viaggio, insomma, senza speranza, che attualizza le iconografie antiche della vanitas e del memento mori.
Di matrice diversa, la ricerca di Nicola Vinci tratta il tema del viaggio connesso a quello della guerra. Un grande trittico fotografico - risultato finale di una performance - mette in scena la storia di un soldato di ritorno dal fronte. Col petto decorato di stellette, l’uomo guarda in macchina con un’espressione a metà strada fra soddisfazione e sconcerto. Alle sue spalle, la silhouette bianca di una donna in attesa e un campo disseminato di biciclette con le gambe per aria. Si tratta di una doppia simbologia sospesa fra passato e futuro. Il passato è rievocato dalle bici rotte, usate un tempo per sfrecciare lungo le strade di campagna, emblema di un mondo lontano che ha già fatto il suo corso. La figura femminile è l’icona di una vita a venire, dell’amore, della famiglia che aspetta e riaccoglie. In tutto questo, Vinci ha la mano di un filmaker. All’interno dello spazio scenico il suo personaggio tenta di trovare una propria collocazione e allo stesso tempo fugge dagli schemi, si pone interrogativi e li pone agli spettatori, si muove in una scenografia semplice, scarna, a tratti simbolica, in cui il lettore viene coinvolto come in una pellicola surreale di Antonioni. Lo stesso effetto lo produce (con l’aggiunta di una vena beffarda) il fotomontaggio di Veronica Dell’Agostino, meno completa nella messa in scena, ma arguta nella scelta della vicenda. Che è quella di una novella Babette, armata di mantella e fagottino sulle spalle, in perfetto stile “cappuccetto rosso”. La figura, autoreferenziale, gira su se stessa, cercando una strada nella neve. La strada, però, non c’è (o, forse, non si vede!) e il risultato è quello di un viaggio a vuoto, di un girotondo, appunto, allusione sottile alla perdita di una direzione e, in sostanza, alla perdita di se stessi. Altro tipo di passeggiata quella proposta, ancora, dal gruppo Paperkut: più che artisti, scienziati, esperti di nanotecnologia, che su una piastrina di silicio, poco più grande di un’unghia, hanno inciso, con procedimento litografico, una serie di impronte in dimensioni micrometriche. “Nell’infinitamente piccolo – diceva Ferroni – c’è il grandissimo”. Il maestro del Realismo esistenziale andava a caccia del mistero della vita nei granelli della polvere. Paperkut lo cerca in un mondo in miniatura, proiettato sulla superficie di un metallo. Arte e fisica vanno qui di pari passo. Ricerca estetica e ricerca tecnologica s’intrecciano per dare vita a un risultato suggestivo. Si tratta di un viaggio in un universo microscopico che ha un retrogusto ancestrale. I piccoli passi incisi sulla materia e resi visibili grazie a una serie di gigantografie (ottenute per mezzo di microscopio elettronico) hanno il fascino di un fossile antichissimo. Il senso del viaggio diventa per Paperkut una passeggiata nella materia, nello spazio e soprattutto in un’altra dimensione.
Chiara Gatti (dal testo del catalogo)
Storia del Premio San Fedele
Dal 1951 al 1967 il Premio San Fedele è considerato come il maggior premio nazionale riservato ai giovani pittori sotto i trent‚anni. Fautori dell'iniziativa, oltre a p. A. Favaro, sono il critico G. Kaisserlian e la contessa M. Dal Verme. La giuria alterna i più importanti operatori artistici del tempo scelti tra pittori, critici, galleristi, collezionisti: L. Fontana, G.F. Usellini, C. Carrà, B. Cassinari, A. Funi, G. Manzù, P. Portaluppi, L. Figini, E. Morlotti, C. Cardazzo, G. Panza di Biumo, solo per citarne alcuni.
Nei primi anni di vita del Premio, risultano vincitori Gadaldi (1951), Guerreschi (1952) e Celiberti (1953). Paolucci e Ruggeri vincono (ex aequo) nel 1954 per la pittura, mentre sono premiati per la scenografia Illiprandi e Mari. Successivamente ottengono il premio Borsato (1955) e per la seconda volta Guerreschi (1956). Tra i selezionati dello stesso anno compare anche il giovane Manzoni. Con la vittoria di Banchieri nel 1957 un riconoscimento particolare va al Realismo Esistenziale. Nel 1958 i cosiddetti premi minori vanno a Pistoletto e Recalcati. Vincitore è Adami. Risultano poi ancora vincitori Cazzaniga (1959) e Della Torre (1960). Nel 1961 il Premio va a Pardi, nel 1962 a Volpini; a Ossola nel 1963. Nel frattempo il numero dei partecipanti si fa sempre più alto e difficile da gestire. Occorre perciò cambiare l’organizzazione. Nel 1964 (p. Favaro viene nel frattempo sostituito temporaneamente da p. Cappelletto) si decide di trasformare il Premio in concorso a invito, procedimento indispensabile, che tuttavia comporta la dolorosa e forzata rinuncia della Galleria all’accoglienza di molti giovani provenienti da tutta Italia. Il Premio viene soppresso nel 1968, anno in cui p. Favaro, a pochi mesi dall’inaugurazione della nuova sede, muore. La Galleria viene affidata prima a p. Saccardo, in seguito a p. Bruno e attualmente a p. Dall'Asta.
Daniele Astrologo, Giuseppina Caccia Dominioni, Chiara Canali, Chiara Chiavarino, Andrea Dall’Asta, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Claudia Gian Ferrari, Paolo Lamberti, Angela Madesani, Ada Masoero, Lucia Matino, Angela Orsini, Stefano Pirovano, Silvana Turzio, Marco Zanta
Il tema del viaggio ha segnato molte esperienze artistiche contemporanee. Su questo, sono stati chiamati a confrontarsi i giovani artisti del Premio San Fedele, che piegando il tema proposto in base alle proprie ricerche estetiche, sono riusciti a darne interpretazioni talvolta inedite. Come Domenico Buzzetti, che più di tutti sembra aver ragionato sull’argomento, riflettendo sull’idea del bagaglio - o meglio del fardello - come simbolo di un viaggio esistenziale che, da un lato, tende ad abbandonare le cose (intese come i legami materiali), dall’altro ad accumularne (in termini di esperienze, ricordi e ferite che pesano come borse piene di sassi). Buzzetti, regista e interprete di un cortometraggio che strizza lo stomaco - complici il montaggio da cardiopalma e le musiche inquietanti da carillon - è stato bravissimo nell’inventare “un viaggio sul senso del viaggio”. Un percorso di ricerca dei propri limiti, di raggiungimento della consapevolezza di sé attraverso un tragitto quotidiano, atrocemente normale; fatto di pendolarismo, di pasti consumati in fretta, di chiacchiere veloci e estenuanti routine. Più che un viaggio dell’esistenza, il suo è un viaggio per la sopravvivenza. Qualcosa di molto simile a ciò che ha messo in scena anche Yamilé Barcelò Hondares, nata a l’Avana nel ’75 e autrice di un dittico video-fotografico, in cui ritrae se stessa di spalle, seduta su un gommone di fortuna, intenta a remare con tutte le sue forze pur di raggiungere una sorta di terra promessa, posta al di là dell’oceano e lontana da Cuba. Peccato che di fronte a lei ci sia un muro di cemento, simbolo di una fuga impedita da ostacoli ingombranti. Come lo sono i pregiudizi diffusi sulla situazione degli immigrati e, soprattutto, come lo è il peso del passato, fatto di amore e odio per la propria terra, di legami che si tenta, dolorosamente, di spezzare, ma che tornano a presentarsi come moniti, come avvertimenti di una condizione immutabile e – citando il titolo del lavoro - di un “tempo immobile”. Complice e vittima del suo stesso vascello di fortuna, Yamilé rilegge l’iconografia classica della nave bloccata in mezzo al mare dall’assenza di vento; sullo sfondo c’è l’idea di un viaggio destinato a toccare i porti delle necessità. C’è anche una costante ricerca di risposte; c’è la paura di ciò che non si può prevedere e, specialmente, c’è un forte bisogno di comunicare.
Più ottimistica, la visione di Tomy Tanaka. Sintetizzata nella raffigurazione di un piccolo seme d’oro da cui spunta appena un ramoscello tenero, la sua immagine del viaggio corrisponde con quella della vita stessa, a partire dalla nascita, per passare poi attraverso lo sviluppo e la maturazione. In linea con il suo retroterra giapponese, l’arte di Tomy dice molto, servendosi di poco. Senza clamori. Ma con messaggi diretti. È raffinata ed essenziale. E il messaggio risulta chiaro sin dal titolo dell’opera, Viaggio di luce. Il seme è quello dell’anima e fiorisce sotto il sole. Il ciclo della natura coincide con quello della vita. Tutto il resto è mistero: il mistero dell’esistenza, da accettare come un tragitto di cui si conosce il punto di partenza e non quello d’arrivo. Sul punto d’arrivo ha riflettuto, invece, Gianni Moretti in un lavoro, Ritratto di famiglia, che al viaggio della vita contrappone quello della morte, narrando, per fotogrammi, il volo metafisico di un uccello verso la decomposizione del corpo. Un viaggio, insomma, senza speranza, che attualizza le iconografie antiche della vanitas e del memento mori.
Di matrice diversa, la ricerca di Nicola Vinci tratta il tema del viaggio connesso a quello della guerra. Un grande trittico fotografico - risultato finale di una performance - mette in scena la storia di un soldato di ritorno dal fronte. Col petto decorato di stellette, l’uomo guarda in macchina con un’espressione a metà strada fra soddisfazione e sconcerto. Alle sue spalle, la silhouette bianca di una donna in attesa e un campo disseminato di biciclette con le gambe per aria. Si tratta di una doppia simbologia sospesa fra passato e futuro. Il passato è rievocato dalle bici rotte, usate un tempo per sfrecciare lungo le strade di campagna, emblema di un mondo lontano che ha già fatto il suo corso. La figura femminile è l’icona di una vita a venire, dell’amore, della famiglia che aspetta e riaccoglie. In tutto questo, Vinci ha la mano di un filmaker. All’interno dello spazio scenico il suo personaggio tenta di trovare una propria collocazione e allo stesso tempo fugge dagli schemi, si pone interrogativi e li pone agli spettatori, si muove in una scenografia semplice, scarna, a tratti simbolica, in cui il lettore viene coinvolto come in una pellicola surreale di Antonioni. Lo stesso effetto lo produce (con l’aggiunta di una vena beffarda) il fotomontaggio di Veronica Dell’Agostino, meno completa nella messa in scena, ma arguta nella scelta della vicenda. Che è quella di una novella Babette, armata di mantella e fagottino sulle spalle, in perfetto stile “cappuccetto rosso”. La figura, autoreferenziale, gira su se stessa, cercando una strada nella neve. La strada, però, non c’è (o, forse, non si vede!) e il risultato è quello di un viaggio a vuoto, di un girotondo, appunto, allusione sottile alla perdita di una direzione e, in sostanza, alla perdita di se stessi. Altro tipo di passeggiata quella proposta, ancora, dal gruppo Paperkut: più che artisti, scienziati, esperti di nanotecnologia, che su una piastrina di silicio, poco più grande di un’unghia, hanno inciso, con procedimento litografico, una serie di impronte in dimensioni micrometriche. “Nell’infinitamente piccolo – diceva Ferroni – c’è il grandissimo”. Il maestro del Realismo esistenziale andava a caccia del mistero della vita nei granelli della polvere. Paperkut lo cerca in un mondo in miniatura, proiettato sulla superficie di un metallo. Arte e fisica vanno qui di pari passo. Ricerca estetica e ricerca tecnologica s’intrecciano per dare vita a un risultato suggestivo. Si tratta di un viaggio in un universo microscopico che ha un retrogusto ancestrale. I piccoli passi incisi sulla materia e resi visibili grazie a una serie di gigantografie (ottenute per mezzo di microscopio elettronico) hanno il fascino di un fossile antichissimo. Il senso del viaggio diventa per Paperkut una passeggiata nella materia, nello spazio e soprattutto in un’altra dimensione.
Chiara Gatti (dal testo del catalogo)
Storia del Premio San Fedele
Dal 1951 al 1967 il Premio San Fedele è considerato come il maggior premio nazionale riservato ai giovani pittori sotto i trent‚anni. Fautori dell'iniziativa, oltre a p. A. Favaro, sono il critico G. Kaisserlian e la contessa M. Dal Verme. La giuria alterna i più importanti operatori artistici del tempo scelti tra pittori, critici, galleristi, collezionisti: L. Fontana, G.F. Usellini, C. Carrà, B. Cassinari, A. Funi, G. Manzù, P. Portaluppi, L. Figini, E. Morlotti, C. Cardazzo, G. Panza di Biumo, solo per citarne alcuni.
Nei primi anni di vita del Premio, risultano vincitori Gadaldi (1951), Guerreschi (1952) e Celiberti (1953). Paolucci e Ruggeri vincono (ex aequo) nel 1954 per la pittura, mentre sono premiati per la scenografia Illiprandi e Mari. Successivamente ottengono il premio Borsato (1955) e per la seconda volta Guerreschi (1956). Tra i selezionati dello stesso anno compare anche il giovane Manzoni. Con la vittoria di Banchieri nel 1957 un riconoscimento particolare va al Realismo Esistenziale. Nel 1958 i cosiddetti premi minori vanno a Pistoletto e Recalcati. Vincitore è Adami. Risultano poi ancora vincitori Cazzaniga (1959) e Della Torre (1960). Nel 1961 il Premio va a Pardi, nel 1962 a Volpini; a Ossola nel 1963. Nel frattempo il numero dei partecipanti si fa sempre più alto e difficile da gestire. Occorre perciò cambiare l’organizzazione. Nel 1964 (p. Favaro viene nel frattempo sostituito temporaneamente da p. Cappelletto) si decide di trasformare il Premio in concorso a invito, procedimento indispensabile, che tuttavia comporta la dolorosa e forzata rinuncia della Galleria all’accoglienza di molti giovani provenienti da tutta Italia. Il Premio viene soppresso nel 1968, anno in cui p. Favaro, a pochi mesi dall’inaugurazione della nuova sede, muore. La Galleria viene affidata prima a p. Saccardo, in seguito a p. Bruno e attualmente a p. Dall'Asta.
08
giugno 2006
Il viaggio
Dall'otto giugno al 15 luglio 2006
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
GALLERIA SAN FEDELE
Milano, Via Ulrico Hoepli, 3A-B, (Milano)
Milano, Via Ulrico Hoepli, 3A-B, (Milano)
Orario di apertura
martedì - venerdì 16.00-19.00 (mattino su richiesta), chiuso lunedì, sabato e festivi
Vernissage
8 Giugno 2006, ore 18
Sito web
www.premioartivisivesanfedele.com
Autore
Curatore