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IN SEQUENZA: LA PERMANENZA DELLE MUTAZIONI. LA SERIALITÀ METAMORFICA COME DOMINIO SUL TEMPO
Ogni artista viene presentato con una ristretta sequenza seriale articolata in più opere tese a formare un ideale “Polittico” composto da molteplici ma autonomi elementi diversi che nell’insieme alludono a una perseguita coralità.
Comunicato stampa
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La mostra di avvio della nuova stagione di programmazione culturale, per sottolineare l'avvenuta "Ripartenza" della nostra attività espositiva, è dedicata, come le prossime che si succederanno nel corso dell'anno, all'individuazione di momenti unitari, all'interno dell'itinerario poetico degli autori volta per volta coinvolti. Ogni artista viene presentato con una ristretta sequenza seriale articolata in più opere tese a formare un ideale "Polittico" composto da molteplici ma autonomi elementi diversi che nell'insieme alludono a una perseguita coralità.
Questa ulteriore tappa all'interno dell'intero ciclo di mostre, già prefissato nella sua futura complessa articolazione, vede coinvolti sette protagonisti della cultura artistica e architettonica del '900 italiano.
Con alcuni di loro, A.A.M. Architettura Arte Moderna si è trovata a collaborare non solo nell'arco della propria attività espositiva, ma anche come promotrice di occasioni professionali, affidando loro la realizzazione di opere di ampio respiro per committenze esterne pubbliche e private.
Anche in questa mostra, come nella precedente con cui è iniziato l'intero ciclo espositivo, sono presenti personalità del mondo dell'arte che oltre alla evidente diversificata scelta generazionale, rappresentano differenti specifici disciplinari nonché tecniche diverse.
La mostra si apre con un omaggio a Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964), con opere dei primi anni '30, in cui è evidente il suo severo controllo dei mezzi espressivi, la sua volontà di non far riferimento al mondo della cronaca più immediata quanto a quello della Storia. È nota la sua distaccata adesione ai movimenti artistici italiani del primo '900, ma la sua "indifferenza" è il controcanto della sua predilezione per i grandi artisti del passato, da P.Cézanne a J.B.C.Corot, da J.Vermeer e J.B.S.Chardin, maestri che sente in consonanza con la sua predilezione per i valori tonali. Riesce così a contemplare, anche in queste opere incise del 1931, la semplificazione degli schemi compositivi, ancora cézanniani, con le sottili trasparenze dei paesaggi di Corot. Morandi giunge proprio in quegli anni a sfaldare le forme consuete della sua figurazione, sottolineando l'autonomia del mezzo grafico da lui sempre mantenuta, fatto di segni sottili e rettilinei che si intersecano in reticoli più o meno fitti che danno origine a zone tonali di valore diverso.
Alla "leggerezza" e alla trasparenza morandiana, si contrappongono in mostra i progetti per grandi "murali" di Mario Sironi (Sassari 1885 - Milano 1961). Vengono presentati alcuni disegni dell'artista della fine degli anni '30 in cui si percepisce fortemente l'esigenza di un ritorno alla tradizione italiana, attraverso un linguaggio arcaicizzante caratterizzato dalla riduzione geometrica delle forme e dalla vigorosa costruzione plastica. I disegni restituiscono inoltre il mito dell'artista per l'antico e la mediterraneità, nonché la sua vocazione al Classicismo attraverso il recupero di tecniche tradizionali, quali l'affresco, il mosaico o il bassorilievo monumentale. Si tratta come è evidente del tentativo di formulare una estetica del regime come già aveva lasciato presagire nel suo "Manifesto della pittura murale" del 1933, in cui sosteneva la necessità di una grande arte pubblica come strumento per comunicare idee e ideologie, da contrapporre alla pittura da cavalletto. In questi lavori si avverte il passaggio dal retaggio futurista, da cui aveva ereditato il tema della civiltà urbana e industriale, sia pur fornendone una interpretazione eterodossa, a una visione storicizzata e quasi antica della Modernità. attraversata da un sentimento di straniamento e di solitudine.
I disegni architettonici di Aldo Rossi (Milano 1931-1997) selezionati ed esposti in mostra, si configurano come momenti di pura evocazione, non tanto quindi come promessa di architettura, quanto piuttosto come poetica allusione alla "sostanza di cose sperate". Come tali si qualificano le diverse declinazioni dei suoi progetti per alcuni specifici luoghi, sul filo di un sempre evocato rapporto tra morfologia urbana, o meglio tra la forma della città e la tipologia edilizia che vi deve sempre corrispondere così come le più immaginifiche diverse versioni dei suoi teatri. Il tema del teatro è un nodo centrale della poetica di A.Rossi, non tanto come specifica tipologia architettonica quanto piuttosto per il suo essere uno spazio in continua oscillazione tra realtà e finzione, in cui si alternano le stesse vicende mutevoli dell'esistenza. In entrambi i due diversi ambiti della sua ricerca, più sopra indicati, è evidente la sua costante propensione al realismo spinto però a confrontarsi con la dimensione dell'immaginazione, il suo oscillare continuamente tra soggettivo ed oggettivo, "per giungere a quell'espressione del reale che rappresenta la vita ma nello stesso tempo la trascende", quasi a voler mostrare una coincidenza degli opposti tra il livello logico-scientifico fondato su principi e quello immaginifico ed onirico immerso in una realtà più profonda.
La mostra si apre poi a nuovi e più ampi "orizzonti" e contesti urbani attraverso le fotografie vintage print di Gabriele Basilico (Milano 1944-2013), con le sue diversificate riletture di luoghi, architetture e città, che vanno dalla dimensione "sospesa" della Milano degli anni '20 e '30, alla Roma segnata dall'Altra Modernità, ai luoghi della memoria con la metafisica rilettura da parte dello stesso fotografo, dell'ampliamento e della riconfigurazione aldorossiana del Cimitero di S.Cataldo a Modena, sino ai "frammenti urbani" berlinesi dello stesso architetto.
La mostra si apre inoltre alla contemporaneità con le opere di artisti a noi più vicini, come nel caso dell'aspirazione all'Universale visto nella sua totalità di senso di Stefano Di Stasio, il cui mondo non è solo razionale ma neppure solo visionario e in cui tutto è nello stesso reale e tutto è fantastico. L'artista propone nella sua opera una sorta di realismo visionario le cui fonti primarie vanno ricercate nella scuola romana degli anni '30 "ricca di colore, segno ed emozione". La sua pittura nasce e si sviluppa a partire da una profonda coscienza del significato attuale dell'Arte, dalla constatazione che la scelta che a noi "moderni" rimane è quella tra uno sterile e disperato silenzio oppure un gioco solitario dell'individuo-artista, tutto svolto al di sopra e contro la Storia. Di Stasio tenta così di "sottrarsi alla scissione moderna che vuole da una parte la riflessione logico-concettuale e, dall'altra, la pelle astratta della pittura, il formalismo". Restituisce così alla pittura la sua forza, il suo essere "fondamento alogico al pensiero", non una semplice operazione dissacrante ma, al contrario, una risposta alla perdita dei valori del mondo contemporaneo, che rischia di omologare tutte le immagini, di trasformare e banalizzare non solo l'arte ma tutta la nostra vita.
La mostra prosegue poi con le stratificate e compresenti evocazioni di improbabili Atlanti Metafisici di Felice Levini, con la sua perseguita dualità, nel suo modo di procedere, in quel suo accostare spesso il gigantismo, se non l'esasperazione dimensionale delle sue opere al "brulichio" pulviscolare di tante minuziose osservazioni sul mondo, attraverso tanti suoi più piccoli disegni. Il suo è un continuo oscillare tra memoria, storia e propensione all'ignoto, appena indicati da ambigue e depistanti presenze inquietanti. C'è nel suo Universo di riferimento, in cui si confrontano tuffatori e lumache, cavalieri e farfalle, navi e scacchiere, locomotive e profili generati dal fumo, infine trapezisti ed alberi piuttosto che squali e personaggi, una sorta di gusto per il paradosso, per il gioco dissacrante, con un'ironia velata da un'appena percepibile melanconia. È lo stesso dualismo a segnare e a uniformare la ricerca di Levini, sempre oscillante tra universi contrapposti: icone fluttuanti, in vuoti abissali, ma sempre in formazione unitaria e compatta, in una sorta di coazione a ripetere, in cui la riproposta serialità riduce il tutto a "figurine", quasi fossero impresse con un gesto di pura riproduzione meccanica, la stessa con cui si confrontano le sue insistite frantumazioni, sotto forma di lacerti, di brandelli ma con la propensione unitaria di totalizzanti visioni ricondotte all'unità.
La mostra si conclude infine, con l'insistito rinvio, agli archetipi più elementari di ogni immagine evocata di Enrico Luzzi, attraverso il ricorso a un mondo di pure Icone, in cui è evidente il suo costante fare ricorso ad "addensamenti di materia" fin dagli esordi del proprio percorso artistico. L'artista perveniva allora ad una sorta di "liquidità" diffusa in cui le sue figure, si trattasse di alberi, animali o oggetti cercavano di riappaesarsi, pur nel loro "straniamento", attraverso impercettibili sollecitazioni, ottenute su un fondo fatto appena vibrare da un furor grafico che si placava nelle delicate armonie di tesissimi giochi chiaroscurali. E.Luzzi ha sempre sottolineato la bellezza del frammento, isolato nella propria autonomia, che proprio nel confronto-scontro con altri frammenti trova impreviste e inedite espressività. Ecco perché ha sempre contrapposto le sue evocate staticità, con le allusioni al fondamento se non al radicamento, all'immobilità delle sue icone "senza tempo", ricorrendo, per contrasto, a raggelati movimenti e gestualità delle sue figure. Proprio sul valore dell'icona sembra essersi fondato il suo percorso artistico, fin da quando il suo universo figurativo era costituito da grandi e invadenti "figure", bisonti, frutta, foglie, alberi o chiodi, sempre ripresi in instabile equilibrio, quasi a campeggiare su astratti fondali con evidenti riferimenti al lascito dell'espressionismo astratto americano. Ciò che ancora oggi sembra permeare il suo più recente percorso artistico in cui di nuovo la poesia, la scrittura, la musica sembrano far lievitare, se non smaterializzare l'intero suo universo figurativo.
Anche in questa occasione espositiva si ritrova il consueto metodo da sempre perseguito da A.A.M. Architettura Arte Moderna di contaminare, attraverso confronti all'interno del variegato Sistema dell'Arte, i differenti percorsi della ricerca tra varie discipline e diverse specificità dall'arte, all'architettura, dalla fotografia, alla moda e al design, dalla grafica all'illustrazione. Il tutto evidenziato con il ricorso alla tecnica dello sguardo incrociato e della dissolvenza incrociata tesa a stemperare i confini tra le varie discipline sino a dissolverli.
Ed è per questo che, nell'ormai quarantennale percorso della nostra storia espositiva, siamo sempre stati attenti a investigare i diversificati campi dell'ampio territorio delle Arti Visive, con particolare attenzione agli esiti in cui fosse sempre percepibile la costante attenzione alla coerenza culturale e filosofica come elemento qualificante la singola poetica di ogni autore, unitamente alla dimensione etica del fare artistico, per noi irrinunciabile.
Questa ulteriore tappa all'interno dell'intero ciclo di mostre, già prefissato nella sua futura complessa articolazione, vede coinvolti sette protagonisti della cultura artistica e architettonica del '900 italiano.
Con alcuni di loro, A.A.M. Architettura Arte Moderna si è trovata a collaborare non solo nell'arco della propria attività espositiva, ma anche come promotrice di occasioni professionali, affidando loro la realizzazione di opere di ampio respiro per committenze esterne pubbliche e private.
Anche in questa mostra, come nella precedente con cui è iniziato l'intero ciclo espositivo, sono presenti personalità del mondo dell'arte che oltre alla evidente diversificata scelta generazionale, rappresentano differenti specifici disciplinari nonché tecniche diverse.
La mostra si apre con un omaggio a Giorgio Morandi (Bologna 1890-1964), con opere dei primi anni '30, in cui è evidente il suo severo controllo dei mezzi espressivi, la sua volontà di non far riferimento al mondo della cronaca più immediata quanto a quello della Storia. È nota la sua distaccata adesione ai movimenti artistici italiani del primo '900, ma la sua "indifferenza" è il controcanto della sua predilezione per i grandi artisti del passato, da P.Cézanne a J.B.C.Corot, da J.Vermeer e J.B.S.Chardin, maestri che sente in consonanza con la sua predilezione per i valori tonali. Riesce così a contemplare, anche in queste opere incise del 1931, la semplificazione degli schemi compositivi, ancora cézanniani, con le sottili trasparenze dei paesaggi di Corot. Morandi giunge proprio in quegli anni a sfaldare le forme consuete della sua figurazione, sottolineando l'autonomia del mezzo grafico da lui sempre mantenuta, fatto di segni sottili e rettilinei che si intersecano in reticoli più o meno fitti che danno origine a zone tonali di valore diverso.
Alla "leggerezza" e alla trasparenza morandiana, si contrappongono in mostra i progetti per grandi "murali" di Mario Sironi (Sassari 1885 - Milano 1961). Vengono presentati alcuni disegni dell'artista della fine degli anni '30 in cui si percepisce fortemente l'esigenza di un ritorno alla tradizione italiana, attraverso un linguaggio arcaicizzante caratterizzato dalla riduzione geometrica delle forme e dalla vigorosa costruzione plastica. I disegni restituiscono inoltre il mito dell'artista per l'antico e la mediterraneità, nonché la sua vocazione al Classicismo attraverso il recupero di tecniche tradizionali, quali l'affresco, il mosaico o il bassorilievo monumentale. Si tratta come è evidente del tentativo di formulare una estetica del regime come già aveva lasciato presagire nel suo "Manifesto della pittura murale" del 1933, in cui sosteneva la necessità di una grande arte pubblica come strumento per comunicare idee e ideologie, da contrapporre alla pittura da cavalletto. In questi lavori si avverte il passaggio dal retaggio futurista, da cui aveva ereditato il tema della civiltà urbana e industriale, sia pur fornendone una interpretazione eterodossa, a una visione storicizzata e quasi antica della Modernità. attraversata da un sentimento di straniamento e di solitudine.
I disegni architettonici di Aldo Rossi (Milano 1931-1997) selezionati ed esposti in mostra, si configurano come momenti di pura evocazione, non tanto quindi come promessa di architettura, quanto piuttosto come poetica allusione alla "sostanza di cose sperate". Come tali si qualificano le diverse declinazioni dei suoi progetti per alcuni specifici luoghi, sul filo di un sempre evocato rapporto tra morfologia urbana, o meglio tra la forma della città e la tipologia edilizia che vi deve sempre corrispondere così come le più immaginifiche diverse versioni dei suoi teatri. Il tema del teatro è un nodo centrale della poetica di A.Rossi, non tanto come specifica tipologia architettonica quanto piuttosto per il suo essere uno spazio in continua oscillazione tra realtà e finzione, in cui si alternano le stesse vicende mutevoli dell'esistenza. In entrambi i due diversi ambiti della sua ricerca, più sopra indicati, è evidente la sua costante propensione al realismo spinto però a confrontarsi con la dimensione dell'immaginazione, il suo oscillare continuamente tra soggettivo ed oggettivo, "per giungere a quell'espressione del reale che rappresenta la vita ma nello stesso tempo la trascende", quasi a voler mostrare una coincidenza degli opposti tra il livello logico-scientifico fondato su principi e quello immaginifico ed onirico immerso in una realtà più profonda.
La mostra si apre poi a nuovi e più ampi "orizzonti" e contesti urbani attraverso le fotografie vintage print di Gabriele Basilico (Milano 1944-2013), con le sue diversificate riletture di luoghi, architetture e città, che vanno dalla dimensione "sospesa" della Milano degli anni '20 e '30, alla Roma segnata dall'Altra Modernità, ai luoghi della memoria con la metafisica rilettura da parte dello stesso fotografo, dell'ampliamento e della riconfigurazione aldorossiana del Cimitero di S.Cataldo a Modena, sino ai "frammenti urbani" berlinesi dello stesso architetto.
La mostra si apre inoltre alla contemporaneità con le opere di artisti a noi più vicini, come nel caso dell'aspirazione all'Universale visto nella sua totalità di senso di Stefano Di Stasio, il cui mondo non è solo razionale ma neppure solo visionario e in cui tutto è nello stesso reale e tutto è fantastico. L'artista propone nella sua opera una sorta di realismo visionario le cui fonti primarie vanno ricercate nella scuola romana degli anni '30 "ricca di colore, segno ed emozione". La sua pittura nasce e si sviluppa a partire da una profonda coscienza del significato attuale dell'Arte, dalla constatazione che la scelta che a noi "moderni" rimane è quella tra uno sterile e disperato silenzio oppure un gioco solitario dell'individuo-artista, tutto svolto al di sopra e contro la Storia. Di Stasio tenta così di "sottrarsi alla scissione moderna che vuole da una parte la riflessione logico-concettuale e, dall'altra, la pelle astratta della pittura, il formalismo". Restituisce così alla pittura la sua forza, il suo essere "fondamento alogico al pensiero", non una semplice operazione dissacrante ma, al contrario, una risposta alla perdita dei valori del mondo contemporaneo, che rischia di omologare tutte le immagini, di trasformare e banalizzare non solo l'arte ma tutta la nostra vita.
La mostra prosegue poi con le stratificate e compresenti evocazioni di improbabili Atlanti Metafisici di Felice Levini, con la sua perseguita dualità, nel suo modo di procedere, in quel suo accostare spesso il gigantismo, se non l'esasperazione dimensionale delle sue opere al "brulichio" pulviscolare di tante minuziose osservazioni sul mondo, attraverso tanti suoi più piccoli disegni. Il suo è un continuo oscillare tra memoria, storia e propensione all'ignoto, appena indicati da ambigue e depistanti presenze inquietanti. C'è nel suo Universo di riferimento, in cui si confrontano tuffatori e lumache, cavalieri e farfalle, navi e scacchiere, locomotive e profili generati dal fumo, infine trapezisti ed alberi piuttosto che squali e personaggi, una sorta di gusto per il paradosso, per il gioco dissacrante, con un'ironia velata da un'appena percepibile melanconia. È lo stesso dualismo a segnare e a uniformare la ricerca di Levini, sempre oscillante tra universi contrapposti: icone fluttuanti, in vuoti abissali, ma sempre in formazione unitaria e compatta, in una sorta di coazione a ripetere, in cui la riproposta serialità riduce il tutto a "figurine", quasi fossero impresse con un gesto di pura riproduzione meccanica, la stessa con cui si confrontano le sue insistite frantumazioni, sotto forma di lacerti, di brandelli ma con la propensione unitaria di totalizzanti visioni ricondotte all'unità.
La mostra si conclude infine, con l'insistito rinvio, agli archetipi più elementari di ogni immagine evocata di Enrico Luzzi, attraverso il ricorso a un mondo di pure Icone, in cui è evidente il suo costante fare ricorso ad "addensamenti di materia" fin dagli esordi del proprio percorso artistico. L'artista perveniva allora ad una sorta di "liquidità" diffusa in cui le sue figure, si trattasse di alberi, animali o oggetti cercavano di riappaesarsi, pur nel loro "straniamento", attraverso impercettibili sollecitazioni, ottenute su un fondo fatto appena vibrare da un furor grafico che si placava nelle delicate armonie di tesissimi giochi chiaroscurali. E.Luzzi ha sempre sottolineato la bellezza del frammento, isolato nella propria autonomia, che proprio nel confronto-scontro con altri frammenti trova impreviste e inedite espressività. Ecco perché ha sempre contrapposto le sue evocate staticità, con le allusioni al fondamento se non al radicamento, all'immobilità delle sue icone "senza tempo", ricorrendo, per contrasto, a raggelati movimenti e gestualità delle sue figure. Proprio sul valore dell'icona sembra essersi fondato il suo percorso artistico, fin da quando il suo universo figurativo era costituito da grandi e invadenti "figure", bisonti, frutta, foglie, alberi o chiodi, sempre ripresi in instabile equilibrio, quasi a campeggiare su astratti fondali con evidenti riferimenti al lascito dell'espressionismo astratto americano. Ciò che ancora oggi sembra permeare il suo più recente percorso artistico in cui di nuovo la poesia, la scrittura, la musica sembrano far lievitare, se non smaterializzare l'intero suo universo figurativo.
Anche in questa occasione espositiva si ritrova il consueto metodo da sempre perseguito da A.A.M. Architettura Arte Moderna di contaminare, attraverso confronti all'interno del variegato Sistema dell'Arte, i differenti percorsi della ricerca tra varie discipline e diverse specificità dall'arte, all'architettura, dalla fotografia, alla moda e al design, dalla grafica all'illustrazione. Il tutto evidenziato con il ricorso alla tecnica dello sguardo incrociato e della dissolvenza incrociata tesa a stemperare i confini tra le varie discipline sino a dissolverli.
Ed è per questo che, nell'ormai quarantennale percorso della nostra storia espositiva, siamo sempre stati attenti a investigare i diversificati campi dell'ampio territorio delle Arti Visive, con particolare attenzione agli esiti in cui fosse sempre percepibile la costante attenzione alla coerenza culturale e filosofica come elemento qualificante la singola poetica di ogni autore, unitamente alla dimensione etica del fare artistico, per noi irrinunciabile.
13
novembre 2023
IN SEQUENZA: LA PERMANENZA DELLE MUTAZIONI. LA SERIALITÀ METAMORFICA COME DOMINIO SUL TEMPO
Dal 13 novembre 2023 al 09 febbraio 2024
arte contemporanea
Location
FFMAAM | Fondo Francesco Moschini A.A.M. Architettura Arte Moderna
Roma, Via dei Banchi Vecchi, 61, (RM)
Roma, Via dei Banchi Vecchi, 61, (RM)
Orario di apertura
da Lunedì a Venerdì, orario d'apertura 15.00-19.00
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