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In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization
In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization prende il titolo da un
omonimo passaggio contenuto in The Culture of Cities il primo libro di
Lewis Mumford, pubblicato nel 1938. Le analisi appassionate di Mumford
univano la forza della militanza a quella della lucidità teorica, nel tentativo di ripensare l’urbanistica come una pratica profondamente
umanistica, capace di guidare la progettazione delle città a partire da un insieme di valori civili e progressisti.
Comunicato stampa
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In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization prende il titolo da un
omonimo passaggio contenuto in The Culture of Cities il primo libro di
Lewis Mumford, pubblicato nel 1938. Le analisi appassionate di Mumford
univano la forza della militanza a quella della lucidità teorica, nel
tentativo di ripensare l’urbanistica come una pratica profondamente
umanistica, capace di guidare la progettazione delle città a partire da un
insieme di valori civili e progressisti. The Culture of Cities è così la
formulazione di un insieme di progetti e speranze declinate nel concreto
di una pratica progettuale volta a rivolgere l’attenzione sulle città come
centri decisivi del vivere civile nel mondo del XX secolo e del futuro
prossimo.
La mostra raccoglie le esperienze artistiche di cinque artisti di
diversi continenti che hanno riflettuto nel loro lavoro su temi legati
all’urbanesimo e alla storia degli inurbamenti metropolitani. Tra il
passato recente e un futuro immaginato, le opere riverberano liberamente
l’enigmatico senso del titolo che nelle intenzioni di Mumford esprimeva un
allarme, ma al tempo stesso l’urgenza di uno sprone a rinnovare lo spazio
abitativo dell’uomo a partire dal suo luogo di aggregazione e condivisione
da sempre più importante e decisivo: quello delle città.
My Father looks for an honest city (2010) di Basim Magdy mostra uno
scenario desolato, quello delle periferie in espansione del Cairo, segnato
da edifici anonimi in costruzione, strade in terra battuta e cani randagi.
Luogo di transizione tra il cemento e la vegetazione spontanea, non ancora
completamente urbanizzato e al tempo stesso non più rurale, il sito è
percorso lentamente dal padre dell’artista che regge in pieno giorno una
lampada accesa, esplorando il territorio senza una finalità manifesta. È
evidente il riferimento dell’opera alla figura di Diogene il cinico che
provocatoriamente “cercava l’uomo” sorreggendo una lampada mentre vagava
in pieno giorno per i mercati di Atene. Mediante questo gesto paradossale
Diogene suscitava una critica radicale sulla capacità dei suoi concittadini
di assumere una partecipazione attiva alla loro realtà sociale senza essere
solo vacue comparse. Il re-enactment filosofico di Magdy opera in termini
intuitivi una medesima sollecitazione, affidando ai gesti minimi del
padre la capacità di leggere un territorio anonimo in termini analitici,
interrogandosi sul destino del Cairo e dell’Egitto contemporaneo.
You Have never Been There (2010) di Mores McWreath
minuti, composto assemblando liberamente scene tratte
hanno raccontato e tematizzato la fine della civiltà
apocalittici. L’artista ha selezionato scene in cui
evidenza, paesaggi urbani e naturali devastati, segnati
civiltà occidentale e da un presente di disfacimento e dissoluzione. In tal
modo L’opera è un ritratto della civiltà occidentale successivo alla sua
fine, la descrizione per immagini di un’autodistruzione progressiva in cui
l’estetica della cinematografia è sottratta dall’artista alla fiction per
diventare documento reale, prova testimoniale e archivio ante litteram di
un probabile scenario futuro.
In End Transmission (2010) di Yin-Ju Chen & James T. Hong immagini in
bianco e nero di siti metropolitani in successione compongono un paesaggio
indecifrabile, caratterizzato da un senso di sorveglianza e asservimento.
I messaggi che appaiono a intermittenza dettano il nuovo programma di
gestione del pianeta da parte di entità aliene indefinite. Dai contenuti
imperativi dei testi si evince che l’umanità ha fallito ed è necessario un
radicale intervento di palingenesi da parte di un potere esterno. Questa
suggestione da science-fiction è supportata da immagini autentiche di
piattaforme industriali, sconfinate metropoli notturne, serre artificiali
e masse di merci da consumo pronte per l’esportazione. Girate dal vivo tra
l’Europa e l’Asia, le scene di Yin-Ju Chen e James T. Hong alludono alle
trasformazioni in corso dei grandi contesti metropolitani contemporanei
e delle produzioni industriali su grande scala, lasciando affiorare una
drammatica immagine dell’alienazione della vita e del lavoro contemporaneo
su scala globale.
Partendo da una ricerca localizzata sulla micro realtà della Sardegna
contemporanea, l’italiano Pietro Mele porta avanti una riflessione critica
sulla traumatica modernità che è stata imposta al mondo agropastorale
dell’isola.
Ottana
(2008)
prende
il
titolo
dall’omonima
cittadina
nell’area della Barbagia dove a partire dagli anni Sessanta è sorto un
gigantesco polo petrolchimico di devastante impatto ambientale. L’opera
racconta il compromesso stridente tra il mondo della grande produzione
industriale e la quotidianità degli operai che mantengono sin alle porte
della fabbrica tradizioni e usanze residuali proprie di un mondo ormai
prossimo all’estinzione. L’urbanizzazione e il lavoro industriale appaiono
nell’opera di Mele un incubo calato da altrove, una mostruosa allucinazione
visiva che si staglia sullo sfondo del paesaggio rurale sardo, attraversato
all’alba dagli operai in fila a cavallo verso la fabbrica.
Protagonista di Estádio Nacional (2009) di Camilo Yáñez è la città di
Santiago, colta nelle vicende drammatiche degli ultimi decenni. Il film è
stato girato dall’artista l’11 settembre del 2009 nello Stadio Nazionale
di Santiago del Cile, luogo chiave della storia cilena contemporanea.
In particolare lo stadio è entrato nella memoria collettiva del Paese
in seguito al colpo di stato occorso proprio l’11 settembre del 1973,
quando il generale Pinochet con l’appoggio degli Stati Uniti destituì il
governo democraticamente eletto di Salvatore Allende. Nei giorni convulsi
successivi al colpo di stato lo stadio divenne un luogo di prigionia dove
vennero assassinate oltre 3000 persone dalle forze della nuova dittatura
militare. Girato il film all’interno dello stadio vuoto e accompagnato da
una celebre canzone del repertorio nazionale cileno, Estádio Nacional è un
omaggio alla storia cilena, al tempo stesso un’elegia funebre in memoria
delle vittime del colpo di stato del ‘73, ma anche un rilancio in avanti
della speranza, in un luogo che ha visto alternarsi le speranze e i drammi
sociali più cupi del popolo cileno.
omonimo passaggio contenuto in The Culture of Cities il primo libro di
Lewis Mumford, pubblicato nel 1938. Le analisi appassionate di Mumford
univano la forza della militanza a quella della lucidità teorica, nel
tentativo di ripensare l’urbanistica come una pratica profondamente
umanistica, capace di guidare la progettazione delle città a partire da un
insieme di valori civili e progressisti. The Culture of Cities è così la
formulazione di un insieme di progetti e speranze declinate nel concreto
di una pratica progettuale volta a rivolgere l’attenzione sulle città come
centri decisivi del vivere civile nel mondo del XX secolo e del futuro
prossimo.
La mostra raccoglie le esperienze artistiche di cinque artisti di
diversi continenti che hanno riflettuto nel loro lavoro su temi legati
all’urbanesimo e alla storia degli inurbamenti metropolitani. Tra il
passato recente e un futuro immaginato, le opere riverberano liberamente
l’enigmatico senso del titolo che nelle intenzioni di Mumford esprimeva un
allarme, ma al tempo stesso l’urgenza di uno sprone a rinnovare lo spazio
abitativo dell’uomo a partire dal suo luogo di aggregazione e condivisione
da sempre più importante e decisivo: quello delle città.
My Father looks for an honest city (2010) di Basim Magdy mostra uno
scenario desolato, quello delle periferie in espansione del Cairo, segnato
da edifici anonimi in costruzione, strade in terra battuta e cani randagi.
Luogo di transizione tra il cemento e la vegetazione spontanea, non ancora
completamente urbanizzato e al tempo stesso non più rurale, il sito è
percorso lentamente dal padre dell’artista che regge in pieno giorno una
lampada accesa, esplorando il territorio senza una finalità manifesta. È
evidente il riferimento dell’opera alla figura di Diogene il cinico che
provocatoriamente “cercava l’uomo” sorreggendo una lampada mentre vagava
in pieno giorno per i mercati di Atene. Mediante questo gesto paradossale
Diogene suscitava una critica radicale sulla capacità dei suoi concittadini
di assumere una partecipazione attiva alla loro realtà sociale senza essere
solo vacue comparse. Il re-enactment filosofico di Magdy opera in termini
intuitivi una medesima sollecitazione, affidando ai gesti minimi del
padre la capacità di leggere un territorio anonimo in termini analitici,
interrogandosi sul destino del Cairo e dell’Egitto contemporaneo.
You Have never Been There (2010) di Mores McWreath
minuti, composto assemblando liberamente scene tratte
hanno raccontato e tematizzato la fine della civiltà
apocalittici. L’artista ha selezionato scene in cui
evidenza, paesaggi urbani e naturali devastati, segnati
civiltà occidentale e da un presente di disfacimento e dissoluzione. In tal
modo L’opera è un ritratto della civiltà occidentale successivo alla sua
fine, la descrizione per immagini di un’autodistruzione progressiva in cui
l’estetica della cinematografia è sottratta dall’artista alla fiction per
diventare documento reale, prova testimoniale e archivio ante litteram di
un probabile scenario futuro.
In End Transmission (2010) di Yin-Ju Chen & James T. Hong immagini in
bianco e nero di siti metropolitani in successione compongono un paesaggio
indecifrabile, caratterizzato da un senso di sorveglianza e asservimento.
I messaggi che appaiono a intermittenza dettano il nuovo programma di
gestione del pianeta da parte di entità aliene indefinite. Dai contenuti
imperativi dei testi si evince che l’umanità ha fallito ed è necessario un
radicale intervento di palingenesi da parte di un potere esterno. Questa
suggestione da science-fiction è supportata da immagini autentiche di
piattaforme industriali, sconfinate metropoli notturne, serre artificiali
e masse di merci da consumo pronte per l’esportazione. Girate dal vivo tra
l’Europa e l’Asia, le scene di Yin-Ju Chen e James T. Hong alludono alle
trasformazioni in corso dei grandi contesti metropolitani contemporanei
e delle produzioni industriali su grande scala, lasciando affiorare una
drammatica immagine dell’alienazione della vita e del lavoro contemporaneo
su scala globale.
Partendo da una ricerca localizzata sulla micro realtà della Sardegna
contemporanea, l’italiano Pietro Mele porta avanti una riflessione critica
sulla traumatica modernità che è stata imposta al mondo agropastorale
dell’isola.
Ottana
(2008)
prende
il
titolo
dall’omonima
cittadina
nell’area della Barbagia dove a partire dagli anni Sessanta è sorto un
gigantesco polo petrolchimico di devastante impatto ambientale. L’opera
racconta il compromesso stridente tra il mondo della grande produzione
industriale e la quotidianità degli operai che mantengono sin alle porte
della fabbrica tradizioni e usanze residuali proprie di un mondo ormai
prossimo all’estinzione. L’urbanizzazione e il lavoro industriale appaiono
nell’opera di Mele un incubo calato da altrove, una mostruosa allucinazione
visiva che si staglia sullo sfondo del paesaggio rurale sardo, attraversato
all’alba dagli operai in fila a cavallo verso la fabbrica.
Protagonista di Estádio Nacional (2009) di Camilo Yáñez è la città di
Santiago, colta nelle vicende drammatiche degli ultimi decenni. Il film è
stato girato dall’artista l’11 settembre del 2009 nello Stadio Nazionale
di Santiago del Cile, luogo chiave della storia cilena contemporanea.
In particolare lo stadio è entrato nella memoria collettiva del Paese
in seguito al colpo di stato occorso proprio l’11 settembre del 1973,
quando il generale Pinochet con l’appoggio degli Stati Uniti destituì il
governo democraticamente eletto di Salvatore Allende. Nei giorni convulsi
successivi al colpo di stato lo stadio divenne un luogo di prigionia dove
vennero assassinate oltre 3000 persone dalle forze della nuova dittatura
militare. Girato il film all’interno dello stadio vuoto e accompagnato da
una celebre canzone del repertorio nazionale cileno, Estádio Nacional è un
omaggio alla storia cilena, al tempo stesso un’elegia funebre in memoria
delle vittime del colpo di stato del ‘73, ma anche un rilancio in avanti
della speranza, in un luogo che ha visto alternarsi le speranze e i drammi
sociali più cupi del popolo cileno.
16
novembre 2012
In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization
Dal 16 novembre 2012 al 12 gennaio 2013
arte contemporanea
Location
AR/GE KUNST GALLERIA MUSEO
Bolzano, Via Museo, 29, (Bolzano)
Bolzano, Via Museo, 29, (Bolzano)
Orario di apertura
Ma-Ve 10 – 13, 15 – 19
Sa 10 – 13
Vernissage
16 Novembre 2012, ore 19
Autore
Curatore