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Inside The Mirror. Self Portraits
Partendo dalle pratiche artistiche di Michael Broughton, Pierre Molinier, Mattia Moreni, Fausto Pirandello, Arrigo Lora Totino e Michele Zaza, la mostra considera l’autoritratto come uno “squarcio” esistenziale e immaginario dell’artista.
Comunicato stampa
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Per l’artista contemporaneo l’autoritratto continua ad essere un momento indispensabile all’esplorazione dell’identità. Non tanto come “attenzione” per la propria immagine o l’affermazione della propria personalità, quanto invece la sperimentazione di uno spazio/visione della soggettività tra passato e presente, viaggio introspettivo e perdita dei codici (qualsiasi essi siano), riflessione autobiografica e laboratorio per “plasmare se stessi”.
Oggi più che mai è incalzante il desiderio di mostrare se stessi non tanto per la possibilità di conoscersi, quanto per la ricerca di un consenso da parte di un largo pubblico estimatore consumatore dell’identità altrui. La condivisione dell’autoritratto caratterizza lo scenario sociale e culturale nel quale viviamo. Selfie fotografici e filmici inondano i nostri spazi. Anzi compongono l’identikit del soggetto dentro lo spazio popolare della Rete e costituiscono un importante tassello della narrazione personale, che spesso però scivola nella mera esibizione, dentro una cornice multimediale che, semplicemente, la esteriorizza. Tra autopromozione e Self, tra conformità sociale e attenzione ai benefici di gruppo o alle miriadi di organizzazioni reticolari, tuttavia si avverte una lotta infinita della soggettività, del suo emergere contro l’alienazione e l’anonimato.
A questo orizzonte orami senza mediazioni e filtri, dominato da un panorama planetario di autoritratti poco riflessivi, si antepone il progetto espositivo Inside The Mirror – Self Portraits alla Galleria Six di Milano. Il progetto apre invece una riflessione sulla pratica dell’autoritratto come forma d’indagine dinamica e attiva tanto cara alla storia dell’arte visiva. Dagli Egizi, i Greci e i Romani, passando per il Medioevo e il Rinascimento, fino al Novecento, l’autoritratto ha segnato un lungo processo d’interrogazione dell’artista sulla propria identità. Nel Rinascimento si era giunti a teorizzare una sorta di ubiquità dell’autore nelle opere dipinte (il pittore che immette qualcosa di sé nelle figure che dipinge) o a una sicurezza e stima tali da ritrarre se stessi in modo eroico. E, nel Seicento, la piena conoscenza di sé era mirabilmente sfociata nell’autoironia. Man mano l’artista non si è limitato a rappresentarsi e sdoppiarsi, anzi, ha inventato un repertorio autobiografico spesso influenzato da vere ossessioni e momenti di totale s-definizione identitaria (nel Romanticismo, ad esempio, emerge la tendenza all’autoritratto come intricato miscuglio di pensieri ed emozioni). Non solo Goya, Kirchner, Van Gogh – solo per citarne alcuni – ma anche Marcel Duchamp, hanno scandagliato i registri del “ritrarsi” fino a rimuovere la propria immagine in favore di una dimensione oggettuale o di un’immagine mentale e ambivalente. Nel 1921 Duchamp svela la volubilità della propria personalità: il suo “alter ego” femminile Rose Sélavy (dove Rose non è altro che l’anagramma di Eros).
Partendo dalle pratiche artistiche di Michael Broughton, Pierre Molinier, Mattia Moreni, Fausto Pirandello, Arrigo Lora Totino e Michele Zaza, la mostra Inside The Mirror – Self Portraits della Galleria Six considera l’autoritratto come uno “squarcio” esistenziale e immaginario dell’artista: la capacità di creare una copia di sé attraverso un universo inatteso di segni e significanti. I singoli artisti in mostra ribadiscono che il ritratto non svela le fattezze dell’autore ma il suo essere, i sogni e gli stati mentali più reconditi, le fughe immaginare, finanche una visione del mondo circostante, pur veloce e impercepibile (come in Broughton).
Il riflesso nello specchio, chiara allusione al riflettersi, al “vedersi”, annovera una meditazione sensibile capace di raggirare le tassonomie e i criteri stabiliti per proporre nuove comprensioni del mondo. Non va dimenticato che nel Medioevo gli specchi erano potenti simboli culturali, metafore di ogni tipo di conoscenza. D’altronde, lo specchio mette alla prova, mediante moltiplicazioni e sdoppiamenti, il senso dell’unicità e dell’individualità. È un dispositivo della fluidità e dell’abbattimento dei confini. Dall’autoritratto moltiplicato e ridondante (quale può essere quello di Andy Warhol) o dalla proiezione dei se stessi oltre i limiti del proprio corpo (sperimentata dalla fine degli anni Sessanta soprattutto nella Body Art) al ritratto esploso o ricomposto con impronte soggettive, la riflessione allo specchio (o, meglio, dentro di esso) permette stratificate invasioni autobiografiche ai bordi della realtà.
Le esperienze nella Galleria Six ostentano binomi tematici inaggiràbili: presenza e assenza, corpo e seduzione, solitudine e tormento, spazio fisico e rinascita immaginaria. Nel manipolare i tratti della propria immagine gli artisti segnano una posizione sia essa esistenziale o fantasiosa.
I tre autoritratti realizzati da Fausto Pirandello negli anni Cinquanta sono carichi d’introspezione. Il volto di Pirandello segnato con pastelli e acquerelli su carta possiede un marcato indice psicologico che oscilla tra inquietudini interiori, malinconia e raccoglimento. I suoi occhi assorti che si percepiscono dalla sinuosità dei segni cromatici e il silenzio che lo avvolge lasciano percepire una temporalità momentanea, un istante meditativo di rara intensità. Su un versante affine, ma ben distinto, troviamo gli autoritratti di Michael Broughton nei quali l’artista si mostra come se fosse davanti a uno specchio: si mostra uguale e diverso. Un altro.
Nelle due opere, eseguite nel 2020, Broughton è un soggetto inquieto. Appare in modo visionario: nel grande quadro campeggia, quasi nella pienezza della sua figura, tra oggetti quotidiani (s’intravede una scala) dominando la spazialità del suo operare artistico (un dipingere magmatico e fluttuante); mentre nel piccolo quadro ostenta il primo piano del suo volto girato di tre quarti con uno sguardo magnetico rivolto verso lo spettatore (qui l’atmosfera umana si fa più intensa).
Invece nell’opera di Mattia Moreni il fare pittorico diventa una fucina di pathos, dove i rapidi tocchi di pennello compongono una “idea” di autoritratto che unisce insiemi di scritte e motivi coloristici. Lo spessore informe del colore assume il compito di riportare i connotati dell’artista a una regressione identitaria. La libertà della pittura informale di Moreni ritrae la voglia di un ricongiungimento con le forze espressive e naturali dell’essere umano, un essere in preda a fantasticazioni trascritte sulla tela (“il computer cancella il volto.. perché?” / “l’identikit -artificato”).
Moreni affida la sua effige unicamente ai gesti e ai contenuti del suo modus operandi. Pertanto la rappresentazione chiara della sua immagine cede il passo a larghe e materiche pennellate impresse con una notevole carica gestuale, impregnate dalla luminosità del fondo color ocra senape su cui campeggiano i “brandelli” testuali. I segni sinuosi che sembrano dei riccioli o elementi biologici (persino una protuberanza dal rimando fallico) intorno alla larga matassa cromatica centrale (rimando all’involucro cubico-geometrico del computer degli anni Ottanta e Novanta), tratteggiano una presenza “umanoide”, metafora visiva per Moreni di un’entità ibrida e mutante.
La concentrazione narcisistica su di sé può aprire la strada alla trasformazione e alla dissimulazione. Difatti nel piccolo autoritratto di Pierre Molinier, datato 1960, l’identità permane incerta e duplice. Qui la maschera nera sugli occhi, da seduttore impenitente, invita al piacere e alla trasgressione. Molinier incarna un’identità androgina ed ermafrodita, emblema di un’umanità autosufficiente che oltrepassa i rigidi confini tra il maschile e il femminile. Travestendosi con la biancheria della moglie l’artista sfida le norme della moralità e della decenza, così come gli ideali della gloria e dell’onore. I suoi ritratti, le sue maschere e il trucco – fondanti di una mise-en-scène perversa e voluttuosa - creano equivoci e depistano qualsiasi sessualità legittima.
Sfuggendo all’ordine di ciò che è abitualmente considerato “naturale” e di ciò che è propriamente “umano”, l’arte sperimenta altri corpi. Fermo restando che i limiti della carne non coincidono con i limiti del corpo. La possibilità di estendere, sdoppiare e ripensare il proprio corpo in Michele Zaza si concretizza in un corpo simbolico senza tempo: Corpo sacro, 1996. Sotto l’immagine del volto dell’artista si ripete una forma scultorea astratta che funge da corpo inventato. Le ali di questa forma sembrano elevarsi in movimento verso il volto misterioso che appare scomparendo e scompare apparendo nel fondo nero – energia misteriosa e arcana. Mentre nell’opera Anamnesi, 1976, disposta nell’angolo tra due pareti, l’artista incarna segretamente le fantasie di un volatile che si ciba di molliche di pane poste sul pavimento e sulla parete.
Il viaggio magico della trasfigurazione approda a uno stadio di totale semplificazione e concettualizzazione visiva nell’opera Autoritratto, 1973, di Arrigo Lora Totino. Un testo dattiloscritto dà l’idea di una scheda identitaria criptica, quasi in codice. Osservando con attenzione, si carpisce subito un’espansione fonetica (leggendo le parole), nonché visiva (rincorrendo con gli occhi la ripetizione di alcune lettere). Nel foglio superiore, sorta di testa-cervello dell’artista, si leggono alcune parole estese ripetendo singole consonanti (”vvvv...vvvventana”, “www…wwwindow”, “evvvvv…vvvento”, e altre ancora), scandite in successione una sotto l’altra con la medesima lunghezza. La combinazione di queste parole riattiva una meccanica verbale e poetica.
L’autoritratto di Arrigo Lora Totino è una dichiarazione orchestrata con semplici elementi grafico-verbali vettori di un riverbero performativo sempre attuabile da chi legge l’opera. Ciò che vediamo è lo spazio della mente. L’artista si offre attraverso il linguaggio – un linguaggio che mantiene il contenuto semantico e attua una sintesi dei processi gestaltici, strutturali, programmatici, e inesplorati nessi verbali.
Lora Totino giunge non alla raffigurazione, ma alla costruzione di un campo di funzioni grafico-spaziali, acustico-orali, contenutistiche. Le parole sono polivalenti. Queste stesse, adoperate non solo in senso plastico-visuale-sonoro, ma anche come materiale dotato di significato, ritraggono l’artista come “architetto del verbo”.
Giacomo Zaza
Oggi più che mai è incalzante il desiderio di mostrare se stessi non tanto per la possibilità di conoscersi, quanto per la ricerca di un consenso da parte di un largo pubblico estimatore consumatore dell’identità altrui. La condivisione dell’autoritratto caratterizza lo scenario sociale e culturale nel quale viviamo. Selfie fotografici e filmici inondano i nostri spazi. Anzi compongono l’identikit del soggetto dentro lo spazio popolare della Rete e costituiscono un importante tassello della narrazione personale, che spesso però scivola nella mera esibizione, dentro una cornice multimediale che, semplicemente, la esteriorizza. Tra autopromozione e Self, tra conformità sociale e attenzione ai benefici di gruppo o alle miriadi di organizzazioni reticolari, tuttavia si avverte una lotta infinita della soggettività, del suo emergere contro l’alienazione e l’anonimato.
A questo orizzonte orami senza mediazioni e filtri, dominato da un panorama planetario di autoritratti poco riflessivi, si antepone il progetto espositivo Inside The Mirror – Self Portraits alla Galleria Six di Milano. Il progetto apre invece una riflessione sulla pratica dell’autoritratto come forma d’indagine dinamica e attiva tanto cara alla storia dell’arte visiva. Dagli Egizi, i Greci e i Romani, passando per il Medioevo e il Rinascimento, fino al Novecento, l’autoritratto ha segnato un lungo processo d’interrogazione dell’artista sulla propria identità. Nel Rinascimento si era giunti a teorizzare una sorta di ubiquità dell’autore nelle opere dipinte (il pittore che immette qualcosa di sé nelle figure che dipinge) o a una sicurezza e stima tali da ritrarre se stessi in modo eroico. E, nel Seicento, la piena conoscenza di sé era mirabilmente sfociata nell’autoironia. Man mano l’artista non si è limitato a rappresentarsi e sdoppiarsi, anzi, ha inventato un repertorio autobiografico spesso influenzato da vere ossessioni e momenti di totale s-definizione identitaria (nel Romanticismo, ad esempio, emerge la tendenza all’autoritratto come intricato miscuglio di pensieri ed emozioni). Non solo Goya, Kirchner, Van Gogh – solo per citarne alcuni – ma anche Marcel Duchamp, hanno scandagliato i registri del “ritrarsi” fino a rimuovere la propria immagine in favore di una dimensione oggettuale o di un’immagine mentale e ambivalente. Nel 1921 Duchamp svela la volubilità della propria personalità: il suo “alter ego” femminile Rose Sélavy (dove Rose non è altro che l’anagramma di Eros).
Partendo dalle pratiche artistiche di Michael Broughton, Pierre Molinier, Mattia Moreni, Fausto Pirandello, Arrigo Lora Totino e Michele Zaza, la mostra Inside The Mirror – Self Portraits della Galleria Six considera l’autoritratto come uno “squarcio” esistenziale e immaginario dell’artista: la capacità di creare una copia di sé attraverso un universo inatteso di segni e significanti. I singoli artisti in mostra ribadiscono che il ritratto non svela le fattezze dell’autore ma il suo essere, i sogni e gli stati mentali più reconditi, le fughe immaginare, finanche una visione del mondo circostante, pur veloce e impercepibile (come in Broughton).
Il riflesso nello specchio, chiara allusione al riflettersi, al “vedersi”, annovera una meditazione sensibile capace di raggirare le tassonomie e i criteri stabiliti per proporre nuove comprensioni del mondo. Non va dimenticato che nel Medioevo gli specchi erano potenti simboli culturali, metafore di ogni tipo di conoscenza. D’altronde, lo specchio mette alla prova, mediante moltiplicazioni e sdoppiamenti, il senso dell’unicità e dell’individualità. È un dispositivo della fluidità e dell’abbattimento dei confini. Dall’autoritratto moltiplicato e ridondante (quale può essere quello di Andy Warhol) o dalla proiezione dei se stessi oltre i limiti del proprio corpo (sperimentata dalla fine degli anni Sessanta soprattutto nella Body Art) al ritratto esploso o ricomposto con impronte soggettive, la riflessione allo specchio (o, meglio, dentro di esso) permette stratificate invasioni autobiografiche ai bordi della realtà.
Le esperienze nella Galleria Six ostentano binomi tematici inaggiràbili: presenza e assenza, corpo e seduzione, solitudine e tormento, spazio fisico e rinascita immaginaria. Nel manipolare i tratti della propria immagine gli artisti segnano una posizione sia essa esistenziale o fantasiosa.
I tre autoritratti realizzati da Fausto Pirandello negli anni Cinquanta sono carichi d’introspezione. Il volto di Pirandello segnato con pastelli e acquerelli su carta possiede un marcato indice psicologico che oscilla tra inquietudini interiori, malinconia e raccoglimento. I suoi occhi assorti che si percepiscono dalla sinuosità dei segni cromatici e il silenzio che lo avvolge lasciano percepire una temporalità momentanea, un istante meditativo di rara intensità. Su un versante affine, ma ben distinto, troviamo gli autoritratti di Michael Broughton nei quali l’artista si mostra come se fosse davanti a uno specchio: si mostra uguale e diverso. Un altro.
Nelle due opere, eseguite nel 2020, Broughton è un soggetto inquieto. Appare in modo visionario: nel grande quadro campeggia, quasi nella pienezza della sua figura, tra oggetti quotidiani (s’intravede una scala) dominando la spazialità del suo operare artistico (un dipingere magmatico e fluttuante); mentre nel piccolo quadro ostenta il primo piano del suo volto girato di tre quarti con uno sguardo magnetico rivolto verso lo spettatore (qui l’atmosfera umana si fa più intensa).
Invece nell’opera di Mattia Moreni il fare pittorico diventa una fucina di pathos, dove i rapidi tocchi di pennello compongono una “idea” di autoritratto che unisce insiemi di scritte e motivi coloristici. Lo spessore informe del colore assume il compito di riportare i connotati dell’artista a una regressione identitaria. La libertà della pittura informale di Moreni ritrae la voglia di un ricongiungimento con le forze espressive e naturali dell’essere umano, un essere in preda a fantasticazioni trascritte sulla tela (“il computer cancella il volto.. perché?” / “l’identikit -artificato”).
Moreni affida la sua effige unicamente ai gesti e ai contenuti del suo modus operandi. Pertanto la rappresentazione chiara della sua immagine cede il passo a larghe e materiche pennellate impresse con una notevole carica gestuale, impregnate dalla luminosità del fondo color ocra senape su cui campeggiano i “brandelli” testuali. I segni sinuosi che sembrano dei riccioli o elementi biologici (persino una protuberanza dal rimando fallico) intorno alla larga matassa cromatica centrale (rimando all’involucro cubico-geometrico del computer degli anni Ottanta e Novanta), tratteggiano una presenza “umanoide”, metafora visiva per Moreni di un’entità ibrida e mutante.
La concentrazione narcisistica su di sé può aprire la strada alla trasformazione e alla dissimulazione. Difatti nel piccolo autoritratto di Pierre Molinier, datato 1960, l’identità permane incerta e duplice. Qui la maschera nera sugli occhi, da seduttore impenitente, invita al piacere e alla trasgressione. Molinier incarna un’identità androgina ed ermafrodita, emblema di un’umanità autosufficiente che oltrepassa i rigidi confini tra il maschile e il femminile. Travestendosi con la biancheria della moglie l’artista sfida le norme della moralità e della decenza, così come gli ideali della gloria e dell’onore. I suoi ritratti, le sue maschere e il trucco – fondanti di una mise-en-scène perversa e voluttuosa - creano equivoci e depistano qualsiasi sessualità legittima.
Sfuggendo all’ordine di ciò che è abitualmente considerato “naturale” e di ciò che è propriamente “umano”, l’arte sperimenta altri corpi. Fermo restando che i limiti della carne non coincidono con i limiti del corpo. La possibilità di estendere, sdoppiare e ripensare il proprio corpo in Michele Zaza si concretizza in un corpo simbolico senza tempo: Corpo sacro, 1996. Sotto l’immagine del volto dell’artista si ripete una forma scultorea astratta che funge da corpo inventato. Le ali di questa forma sembrano elevarsi in movimento verso il volto misterioso che appare scomparendo e scompare apparendo nel fondo nero – energia misteriosa e arcana. Mentre nell’opera Anamnesi, 1976, disposta nell’angolo tra due pareti, l’artista incarna segretamente le fantasie di un volatile che si ciba di molliche di pane poste sul pavimento e sulla parete.
Il viaggio magico della trasfigurazione approda a uno stadio di totale semplificazione e concettualizzazione visiva nell’opera Autoritratto, 1973, di Arrigo Lora Totino. Un testo dattiloscritto dà l’idea di una scheda identitaria criptica, quasi in codice. Osservando con attenzione, si carpisce subito un’espansione fonetica (leggendo le parole), nonché visiva (rincorrendo con gli occhi la ripetizione di alcune lettere). Nel foglio superiore, sorta di testa-cervello dell’artista, si leggono alcune parole estese ripetendo singole consonanti (”vvvv...vvvventana”, “www…wwwindow”, “evvvvv…vvvento”, e altre ancora), scandite in successione una sotto l’altra con la medesima lunghezza. La combinazione di queste parole riattiva una meccanica verbale e poetica.
L’autoritratto di Arrigo Lora Totino è una dichiarazione orchestrata con semplici elementi grafico-verbali vettori di un riverbero performativo sempre attuabile da chi legge l’opera. Ciò che vediamo è lo spazio della mente. L’artista si offre attraverso il linguaggio – un linguaggio che mantiene il contenuto semantico e attua una sintesi dei processi gestaltici, strutturali, programmatici, e inesplorati nessi verbali.
Lora Totino giunge non alla raffigurazione, ma alla costruzione di un campo di funzioni grafico-spaziali, acustico-orali, contenutistiche. Le parole sono polivalenti. Queste stesse, adoperate non solo in senso plastico-visuale-sonoro, ma anche come materiale dotato di significato, ritraggono l’artista come “architetto del verbo”.
Giacomo Zaza
04
maggio 2021
Inside The Mirror. Self Portraits
Dal 04 maggio al 16 luglio 2021
arte contemporanea
Location
GALLERIA SIX
Milano, Piazzale Gabrio Piola, 5, (Milano)
Milano, Piazzale Gabrio Piola, 5, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 15-19
Vernissage
4 Maggio 2021, ore 15
Sito web
Ufficio stampa
galleria Six
Autore
Curatore
Autore testo critico
Allestimento
Progetto grafico
Produzione organizzazione