Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
intergenerational forms
La mostra è il tentativo di guardare alle possibilità della forma attraverso linguaggi generazionali distanti che coesistono nella totale libertà dell’uso del segno, della forma e del corpo.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Ricordo vividamente il modo in cui David Joselit apre il suo Notes on Surface, lo trovo assolutamente brillante. L’incipit alle sue riflessioni sulla superficie è la vista di un cartellone che pubblicizza chirurgia plastica elettiva affisso nel suo quartiere a Los Angeles. In particolare, a colpirlo è un’affermazione che cita la pubblicità: “Real? Who cares!”. Escludendo che il lettore medio possa lontanamente associare la parola “reale” al reale lacaniano, Joselit si concentra sull’accezione di autenticità che il termine suggerisce. Ma se allora essere autentici è relativamente importante, avendo la medicina dimostrato che i corpi sono malleabili, l’autore si chiede dove alberga il sé, e se non sia da ricercare nelle superfici mutevoli del corpo. Nonostante il testo apra una densa considerazione sulla flatness passando per Jameson e Greenberg (estremamente interessante per gli amanti della critica d’arte postmoderna come la sottoscritta) è in questa domanda dell’autore che si condensa il senso. Questa mutevolezza della superficie è possibilmente retroattiva, come lo è il reale per un altro grande teorico americano del Postmoderno, e come lo sono le forme.
Soltanto recentemente ho osservato a lungo i lavori di Carla Accardi a cavallo del XXI secolo e ho realizzato che Joselit pubblica questo testo proprio nel 2000. Una coincidenza, o forse no. Ho iniziato a pensare a quelle grandi tele, a quei segni che si aprivano fino quasi a scomparire, fino ad affievolire la loro incisività. Niente più regole di composizione, il rapporto fra significante/significato, forma/colore è ormai un ricordo legato alle produzioni precedenti. Su piani differenti, i lavori di Sheila Hicks trasudano di una tensione costante nella scala dimensionale e ingannano le categorie mediali dell’arte: in queste superfici fatte di forme primordiali e scevre di figurazione – quanto di più rappresentativo delle prime Avanguardie artistiche – Hicks rinegozia la forma forzando l’idea di un astrattismo che non riesce a celare la manipolazione di una materia viva come il tessuto, né l’elemento corporale e materico. In quelle forme, amorfe, esplosive, piene di colori, ho percepito una freschezza comune alla vibe Millennial, di cui io stessa sono un prodotto, e che mi avvicinano a una certa modalità di guardare alla forma, al corpo e alla rappresentazione in un senso più ampio.
Come possono ricerche così sistematiche come quelle di Accardi e Hicks avvicinarsi a espressioni visive di una generazione ancora così dibattuta sul piano sociologico, che guarda alle cose del mondo con un’accelerazione visiva che non aveva avuto precedenti? È nell’uso della forma il collante, una forma che attraversa le generazioni senza incasellarsi o ingabbiarsi in definizioni precostituite. Verde e Grigio scuro (2000) di Carla Accardi e Convergence ardoise (1996) di Sheila Hicks sono il profumo di questa collettiva che, senza alcuna pretesa teorica o tematica come vorrebbe un approccio più canonico, è il tentativo (o i tentativi) di guardare alle possibilità della forma attraverso linguaggi generazionali distanti che coesistono nella totale libertà dell’uso del segno, della forma e del corpo.
La poliedricità segnica e formale che emerge nelle pratiche di artiste storicizzate come Accardi e Hicks in dialogo con i linguaggi più contemporanei di James Bantone, Becky Beasley, Pascale Birchler, Azize Ferizi, Simone Holliger, Deborah-Joyce Holman e PRICE – quasi tutti Millennials come me – va oltre la purezza del media e abita una zona liminale in cui la figura, l’autorappresentazione, i volumi, l’immagine si liberano. La relazione fra segno/forma/corpo e scala dimensionale in ogni lavoro rinegozia e riscrive in una modalità leggera, anche sensuale, la riflessione su concetti primigeni e semiologici.
I corpi-manichini di Bantone, decontestualizzati da qualsiasi fonte o luogo, finiscono per essere inghiottiti dalla superficie, dal colore, dagli strati di riflessione sul potere del corpo; mentre l’autoritratto di Birchler ci mette nuovamente di fronte a questioni scomode come lo sguardo su noi stessi: quali forme dell’identità sopravvivono nel tempo? I volumi di Holliger, simulando una monumentalità che sistematicamente implode, trovano conforto in un materiale deperibile e fragile e sono complementari alle forme pitto-scultoree di Ferizi, che trova nuovi impulsi all’oggetto artistico che si presenta diretto, senza mistificazioni. Per altri versi la ricerca scultorea di Beasley ripensa l’intimità dell’abitare lo spazio attraverso oggetti silenziosi e spesso muscolari. Holman torna al segno restituendolo acutamente sottoforma di traccia mnestica e identitaria, un modo per affrontare il conflitto fra categorie socialmente normative che nella pratica proteiforme di PRICE si risolve in architetture imponenti che ridicolizzano il white cube o in effluvi che lavorano sull’assenza e sull’odore della forma.
Così quelle forme che hanno ispirato la mostra diventano estranee al segno e, aprendosi a un polimorfismo che trascende geometrie riconoscibili e criteri gerarchici, si connettono sorprendentemente alla sensibilità visiva delle più giovani generazioni che si prendono volutamente gioco dell’oggetto, della forma e della sua coesistenza nello spazio e nel tempo.
Eleonora Milani
Soltanto recentemente ho osservato a lungo i lavori di Carla Accardi a cavallo del XXI secolo e ho realizzato che Joselit pubblica questo testo proprio nel 2000. Una coincidenza, o forse no. Ho iniziato a pensare a quelle grandi tele, a quei segni che si aprivano fino quasi a scomparire, fino ad affievolire la loro incisività. Niente più regole di composizione, il rapporto fra significante/significato, forma/colore è ormai un ricordo legato alle produzioni precedenti. Su piani differenti, i lavori di Sheila Hicks trasudano di una tensione costante nella scala dimensionale e ingannano le categorie mediali dell’arte: in queste superfici fatte di forme primordiali e scevre di figurazione – quanto di più rappresentativo delle prime Avanguardie artistiche – Hicks rinegozia la forma forzando l’idea di un astrattismo che non riesce a celare la manipolazione di una materia viva come il tessuto, né l’elemento corporale e materico. In quelle forme, amorfe, esplosive, piene di colori, ho percepito una freschezza comune alla vibe Millennial, di cui io stessa sono un prodotto, e che mi avvicinano a una certa modalità di guardare alla forma, al corpo e alla rappresentazione in un senso più ampio.
Come possono ricerche così sistematiche come quelle di Accardi e Hicks avvicinarsi a espressioni visive di una generazione ancora così dibattuta sul piano sociologico, che guarda alle cose del mondo con un’accelerazione visiva che non aveva avuto precedenti? È nell’uso della forma il collante, una forma che attraversa le generazioni senza incasellarsi o ingabbiarsi in definizioni precostituite. Verde e Grigio scuro (2000) di Carla Accardi e Convergence ardoise (1996) di Sheila Hicks sono il profumo di questa collettiva che, senza alcuna pretesa teorica o tematica come vorrebbe un approccio più canonico, è il tentativo (o i tentativi) di guardare alle possibilità della forma attraverso linguaggi generazionali distanti che coesistono nella totale libertà dell’uso del segno, della forma e del corpo.
La poliedricità segnica e formale che emerge nelle pratiche di artiste storicizzate come Accardi e Hicks in dialogo con i linguaggi più contemporanei di James Bantone, Becky Beasley, Pascale Birchler, Azize Ferizi, Simone Holliger, Deborah-Joyce Holman e PRICE – quasi tutti Millennials come me – va oltre la purezza del media e abita una zona liminale in cui la figura, l’autorappresentazione, i volumi, l’immagine si liberano. La relazione fra segno/forma/corpo e scala dimensionale in ogni lavoro rinegozia e riscrive in una modalità leggera, anche sensuale, la riflessione su concetti primigeni e semiologici.
I corpi-manichini di Bantone, decontestualizzati da qualsiasi fonte o luogo, finiscono per essere inghiottiti dalla superficie, dal colore, dagli strati di riflessione sul potere del corpo; mentre l’autoritratto di Birchler ci mette nuovamente di fronte a questioni scomode come lo sguardo su noi stessi: quali forme dell’identità sopravvivono nel tempo? I volumi di Holliger, simulando una monumentalità che sistematicamente implode, trovano conforto in un materiale deperibile e fragile e sono complementari alle forme pitto-scultoree di Ferizi, che trova nuovi impulsi all’oggetto artistico che si presenta diretto, senza mistificazioni. Per altri versi la ricerca scultorea di Beasley ripensa l’intimità dell’abitare lo spazio attraverso oggetti silenziosi e spesso muscolari. Holman torna al segno restituendolo acutamente sottoforma di traccia mnestica e identitaria, un modo per affrontare il conflitto fra categorie socialmente normative che nella pratica proteiforme di PRICE si risolve in architetture imponenti che ridicolizzano il white cube o in effluvi che lavorano sull’assenza e sull’odore della forma.
Così quelle forme che hanno ispirato la mostra diventano estranee al segno e, aprendosi a un polimorfismo che trascende geometrie riconoscibili e criteri gerarchici, si connettono sorprendentemente alla sensibilità visiva delle più giovani generazioni che si prendono volutamente gioco dell’oggetto, della forma e della sua coesistenza nello spazio e nel tempo.
Eleonora Milani
16
maggio 2024
intergenerational forms
Dal 16 maggio al 26 luglio 2024
arte contemporanea
Location
GALLERIA FRANCESCA MININI
Milano, Via Massimiano, 25, (Milano)
Milano, Via Massimiano, 25, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 11-19
Vernissage
16 Maggio 2024, 18-21
Sito web
Autore
Curatore
Autore testo critico