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Irene Rubiano – Echi
La vita in Bosnia nelle fotografie di Irene Rubiano. Uno sguardo su una sofferenza insanabile, nascosta sotto la superficie della quotidianità, a due decenni di distanza dal conflitto.
Comunicato stampa
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Echi. La Bosnia di Irene Rubiano
di Fabrizio Bonci
L'uomo in costume da bagno è di spalle, in piedi sul pontile di pietra. Noi lo osserviamo da distante, dall'alto. L'uomo, con le mani appoggiate sui fianchi, osserva il placido specchio d'acqua, delimitato da un muro di roccia calcarea che scende a perpendicolo dal bordo superiore dell'immagine. Forse, tra un momento si tufferà, scomparendo per un istante sotto la superficie dell'acqua. In questo scatto, che possiamo solo immaginare, osserveremmo il pontile deserto proteso sul bacino desolato, chiuso dal suo orizzonte bianco di roccia. Guardando la fotografia con maggiore attenzione abbiamo, tuttavia, l'impressione che il tuffo sia già avvenuto, e che l'uomo sia risalito sul pontile e ora osservi quel suo passato prossimo in cui si è immerso nell'acqua del bacino. E, stranamente, ci sembra che, in questa prospettiva rivolta verso il passato, il tempo interno della fotografia ci proietti in una zona di invisibilità più grande e più profonda di quella nella quale siamo prima penetrati con l'immaginazione. Come se l'aldilà, insondabile e inimmaginabile, che attende il tuffatore di Paestum, nel caso del tuffatore bosniaco di Irene Rubiano, fotografato sulle sponde di un lago artificiale presso Vareš, fosse già avvenuto.
La piastra di ghisa del tombino sotto i piedi del passeggero alla fermata dell'autobus forma una sorta di piedistallo che trasforma l'uomo, immobile, con le mani dietro la schiena, in una statua. La donna alla moschea, di cui vediamo emergere dal limite inferiore dell'inquadratura solo la testa, guarda, in alto, sul soffitto dell'edificio, un fittizio cielo stellato di riflessi di luce giunti da una finestra dal vetro traforato. Sotto il tabernacolo, in una chiesa cattolica, tra un crocifisso ligneo e una nicchia nella quale è esposta una figurina di monaco, quattro sedie rivolte verso l'osservatore. Sulla terza da sinistra è posata una gruccia per appendere gli abiti. Statua di sale, testa decollata di un Battista donna e musulmano, e poi la gruccia che, nella sua incongrua profanità, ci può rinviare in modo surreale alla spoliazione di Cristo. Ci sembra che la Bosnia che osserviamo nelle fotografie della Rubiano – scattate nel corso di due viaggi, entrambi intrapresi a distanza di diversi anni dalla guerra – nella sua quotidianità apparentemente risanata, che in altre immagini cerchiamo di riconoscere nei gesti degli avventori dei mercati e nelle passeggiate sotto la pioggia di Breza, sia un aldiquà che intrattiene un abissale rapporto con il suo aldilà, quel superamento squarciante e insostenibile del limite dell'umano, che tutti noi abbiamo visto vent'anni or sono sui nostri schermi casalinghi, all'ora di cena.
Negli interni di abitazioni, poi, tavolini e vasi di fiori, un divano con un rivestimento di pelliccia bianca, interferenze luminose su un muro dietro un letto disfatto. E in quelle strisce di luce in una stanza da letto da poco lasciata dai suoi occupanti vediamo e ascoltiamo un'eco di cui non sappiamo dire la provenienza e la direzione.
di Fabrizio Bonci
L'uomo in costume da bagno è di spalle, in piedi sul pontile di pietra. Noi lo osserviamo da distante, dall'alto. L'uomo, con le mani appoggiate sui fianchi, osserva il placido specchio d'acqua, delimitato da un muro di roccia calcarea che scende a perpendicolo dal bordo superiore dell'immagine. Forse, tra un momento si tufferà, scomparendo per un istante sotto la superficie dell'acqua. In questo scatto, che possiamo solo immaginare, osserveremmo il pontile deserto proteso sul bacino desolato, chiuso dal suo orizzonte bianco di roccia. Guardando la fotografia con maggiore attenzione abbiamo, tuttavia, l'impressione che il tuffo sia già avvenuto, e che l'uomo sia risalito sul pontile e ora osservi quel suo passato prossimo in cui si è immerso nell'acqua del bacino. E, stranamente, ci sembra che, in questa prospettiva rivolta verso il passato, il tempo interno della fotografia ci proietti in una zona di invisibilità più grande e più profonda di quella nella quale siamo prima penetrati con l'immaginazione. Come se l'aldilà, insondabile e inimmaginabile, che attende il tuffatore di Paestum, nel caso del tuffatore bosniaco di Irene Rubiano, fotografato sulle sponde di un lago artificiale presso Vareš, fosse già avvenuto.
La piastra di ghisa del tombino sotto i piedi del passeggero alla fermata dell'autobus forma una sorta di piedistallo che trasforma l'uomo, immobile, con le mani dietro la schiena, in una statua. La donna alla moschea, di cui vediamo emergere dal limite inferiore dell'inquadratura solo la testa, guarda, in alto, sul soffitto dell'edificio, un fittizio cielo stellato di riflessi di luce giunti da una finestra dal vetro traforato. Sotto il tabernacolo, in una chiesa cattolica, tra un crocifisso ligneo e una nicchia nella quale è esposta una figurina di monaco, quattro sedie rivolte verso l'osservatore. Sulla terza da sinistra è posata una gruccia per appendere gli abiti. Statua di sale, testa decollata di un Battista donna e musulmano, e poi la gruccia che, nella sua incongrua profanità, ci può rinviare in modo surreale alla spoliazione di Cristo. Ci sembra che la Bosnia che osserviamo nelle fotografie della Rubiano – scattate nel corso di due viaggi, entrambi intrapresi a distanza di diversi anni dalla guerra – nella sua quotidianità apparentemente risanata, che in altre immagini cerchiamo di riconoscere nei gesti degli avventori dei mercati e nelle passeggiate sotto la pioggia di Breza, sia un aldiquà che intrattiene un abissale rapporto con il suo aldilà, quel superamento squarciante e insostenibile del limite dell'umano, che tutti noi abbiamo visto vent'anni or sono sui nostri schermi casalinghi, all'ora di cena.
Negli interni di abitazioni, poi, tavolini e vasi di fiori, un divano con un rivestimento di pelliccia bianca, interferenze luminose su un muro dietro un letto disfatto. E in quelle strisce di luce in una stanza da letto da poco lasciata dai suoi occupanti vediamo e ascoltiamo un'eco di cui non sappiamo dire la provenienza e la direzione.
22
febbraio 2013
Irene Rubiano – Echi
Dal 22 febbraio al 15 marzo 2013
fotografia
Location
GALLERIA OBLOM
Torino, Via Giuseppe Baretti, 28, (Torino)
Torino, Via Giuseppe Baretti, 28, (Torino)
Orario di apertura
Da martedì a venerdì ore 16-20
sabato su appuntamento
Vernissage
22 Febbraio 2013, ore 19
Autore
Curatore