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Iros Marpicati – La costruzione della grandezza umana
In mostra una trentina di opere realizzate dagli anni Duemila ad oggi dall’artista di Brescia
Comunicato stampa
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Il Museo MIIT di Torino, la rivista internazionale Italia Arte, la Galleria Folco presentano la mostra: “Iros
Marpicati: la costruzione della grandezza umana”, dedicata a uno degli artisti contemporanei più
interessanti e visionari del panorama internazionale. La mostra sarà corredata dal catalogo edito dal
Museo MIIT, con testi critici di Guido Folco, Direttore del Museo MIIT, Luca Beatrice e Claudio Strinati.
In mostra, una trentina di opere realizzate dagli anni Duemila ad oggi dall’artista di Brescia.
TESTI CRITICI
Il ritorno all’ordine di Iros Marpicati
Di Guido Folco
Il Museo MIIT di Torino, nella sua vocazione internazionale particolarmente attenta alla valorizzazione della storia artistica italiana
moderna e contemporanea, è orgoglioso di presentare la mostra personale di un grande interprete del nostro tempo: Iros Marpicati.
Le sue opere rappresentano un punto di contatto tra i canoni estetici di Novecento Italiano e le più avanzate ricerche della
modernità, dal rigore compositivo, alla monumentalità dell’impostazione stilistica e formale, dalla meditata e intima
rappresentazione dell’Uomo, alla metafisica di un’idea pittorica che si fa forma onirica, immaginata. L’artista interpreta l’essenza
stessa della nostra cultura, quella classicità idealizzata che fu dei grandi maestri del passato, da Giotto a Michelangelo, da Leonardo
a Raffaello, ma lo fa con la profonda sensibilità di uno sguardo nuovo, tipico della nostra epoca. Iros Marpicati autore classico,
quindi? Sicuramente sì, almeno in parte, intendendo con questo termine la sintesi di un’idea di modernità che ha tracciato un solco
profondo nella storia dell’ultimo secolo. Nei primi anni del Novecento la società inizia a confrontarsi profondamente con l’essenza
dell’Uomo, con la sua psiche e le sue ansie vitali, interpretando così il dramma di una umanità sofferente, straziata dalle guerre
mondiali, inesorabilmente condannata alla solitudine esistenziale. Quello stesso sentimento che traspare dai lavori di Iros Marpicati,
in cui l’uomo diventa presenza inevitabile, ma al contempo soffocata dalla fredda, rigorosa, inanimata contemporaneità, dalle
architetture ideali, cromaticamente immerse nelle nere notti della disperazione, in perenne lotta col l’abbacinante luce della
speranza. Il cosiddetto Ritorno all’Ordine, proclamato e voluto dal Ventennio, maturato da maestri quali Malerba, Oppi, Marussig,
Dudreville, dallo stesso Achille Funi, con cui Marpicati studia all’Accademia Carrara di Bergamo, si ritrova in queste tele dell’artista,
declinato però con modernità di linguaggio, in un continuo dialogo tra le istanze della stagione razionalista e neoclassica del primo
Novecento e il desiderio di raccontare l’Uomo, tipico della stagione del rinnovamento. Nel corso del ventennio, l’Uomo diventa il
centro della poetica e della ricerca degli artisti, quasi un’epifanìa delle avanguardie post belliche, prepotentemente provenienti dagli
Stati Uniti, così diverse nel loro linguaggio espressionista, eppure tanto vicine nella loro epidermica umanizzazione dell’arte. Uomo
inteso come eroe mitologico, semi-divinità scevra della sua intrinseca fragilità, osservato però anche alla luce delle nuove esperienze
contemporanee. In Marpicati, queste si concretizzano in una visione dell’Essere uguale e contraria, rispetto alla monumentalità del
passato. Nei suoi dipinti è l’architettura a prevalere sull’Uomo, sono i nuovi templi della modernità a renderlo quasi invisibile,
anonimo, ormai perduto nel ricordo lontano della sua grandezza e divinità. Iros Marpicati incarna quindi perfettamente quella che
Giorgio De Chirico definiva la ‘grammatica del linguaggio pittorico’, vale a dire l’interpretazione della figura umana, simbolo delle
debolezze della società e dell’anima del mondo. Nelle sue opere, l’artista ci suggerisce un’idea moderna e reale della vita, abitando
ogni dipinto con una sospesa, straniante e drammatica attesa, divenendo così ‘ponte’ ideale tra l’eterno linguaggio del mito e la
nuova utopia di salvezza.
La costruzione della grandezza umana: Iros Marpicati
Di Luca Beatrice
Iros Marpicati è figlio di una generazione influente. Appartiene alla storica classe d’artisti che ha inciso le iniziali della ‘cultura visiva’
del capoluogo meneghino, nella Milano degli anni ’30, appena reduce dal fascismo e dalla prima guerra mondiale e non ancora
cosciente di un conflitto a venire. Quella generazione, eterogenea e variopinta, ha disegnato panorami, prodotto immaginari e
costruito nuovi percorsi sulle ceneri ancora calde dell’Informale europeo e dai raccordi, concettuali e visivi, con le sue evoluzioni
teoriche (tra cui la pittura nucleare, il realismo esistenziale e la scuola dello sguardo). La stagione che ha seguito, e alla quale
Marpicati s’inscrive, ha chiamato ad adunata corporazioni e gruppi d’artisti, quando ancora la figura del critico militante non
sostituiva l’autogestione dei ‘movimenti’ (e la nomina di ‘curatore’ non compariva nemmeno nei dizionari) a favore di mostre ed
espressioni più spontanee di volontà e pulsioni creative, sia collettive che singole. L’arte di quegli anni manifesta la recettività verso
un mondo attraversato da un cambiamento e ne riconosce tutta la tensione sperimentale. Dentro a un paesaggio così vitale, l’arte
italiana guarda con entusiasmo all’Europa e all’America; a Milano si producono linee e formazioni accademiche, la strada
concettuale di Azimuth da una parte, dall’altra la direzione oggettuale dell’arte cinetica e programmata (Gruppo T e del Cenobio); si
assiste alla riconquista del disegno, della forma e della figurazione trasformata e aggiornata nei generi con echi provenienti dalla
Pop Art inglese e americana. Siamo negli anni ’50 quando Iros Marpicati espone per la prima volta alla Galleria Spotorno di Milano.
Dal quel 1957, il maestro che oggi conosciamo per i suoi Paesaggi inospiti, ha coltivato una carriera unica nel suo genere,
rinnovandosi ogni volta nel linguaggio seppur preservando la lucidità di un pensiero analitico verso la realtà, mai scontato e per
nulla derivativo da mode o stili. Le prime opere di Marpicati raccontano di un’umanità introversa tramite un organicismo pre-
figurativo, con ritratti di persone e natura, dentro la durezza del bianco e nero e la gestualità dell’olio che si sfuma sulla trama della
tela. Di lì a poco, il volto amaro di una società che ha conosciuto la guerra civile e la fame lascia il posto a un più lucido e scientifico
sentimento: il dramma e il pathos giovanile si trasformano nell’artista in coscienza e responsabilità intellettuale. Si dichiara ora nei
titoli (Incidenti, Paesaggi e Composizioni), e nella scelta dei soggetti (ingranaggi e macchine), la storia che accompagnerà tutta la
pittura di Marpicati. Già da questi primi esperimenti narrativi l’evidente presenza di realtà e di massa critica dentro le superfici
mobili e dinamiche dei quadri, mai eccessivamente formali, stupisce in considerazione del fatto che tutto intorno – la storia a
ricordarlo - spingeva verso le entusiaste attese generate dalla prima tecnologia e dalle scoperte scientifiche, con un’evidente fiducia
nel progresso e nelle possibilità dell'uomo. Marpicati parla di quel presente ma con una proiezione tesa al divenire di un futuro
appena prossimo: guarda l’uomo e stima la sua integrità eppure riconosce la minaccia del progresso tecnocratico e, in
controtendenza rispetto al panorama culturale di quegli anni, adopera un’acuta e sensibile denuncia all’ottimismo dominante che si
era infuso a partire già dal movimento futurista. Macchine e ingranaggi sostituiscono gli espedienti di volti e fiori ma sono
governate da una più inquietante organicità artificiale; le astrazioni degli anni ’60, con la ripetizione sistematica dei soggetti,
ossessiva e permeante, che porta il senso delle macchie di Clyfford Still e la fredda continuità estetica delle tavole numeriche di
Franz Kline, sono state espressione dell’inquietudine sperimentale del tempo e costituiscono le sotto tracce formali e concettuali dei
Paesaggi inospiti di oggi. L’artista è di origini bresciane, ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo - sotto la guida di Achille Funi
- e lambisce la formazione d’architetto per decidere poi di consacrarsi alla pittura e di trasferirsi a Milano, come altri della sua
generazione (tra cui Tullio Pericoli). Fondendo l’interesse per la Figuration Critique di origine francese, per la quale lo stato del corpo
è al centro di una pittura allegorica e metafisica, e l’astrattismo di stampo americano, che vede nella pittura una costante possibilità
d’interesse e rinnovamento, Marpicati enuncia nei suoi lavori una riflessione intorno al rapporto uomo/ambiente; più dichiarato nei
lavori degli anni ’90, o diversamente celato nell’evoluzione stilistica formatasi a partire dagli anni duemila verso la direzione di una
pittura piatta e geometrica, ma fortemente contraddittoria, confessa una tangenza perpetrata nell’immaginario architettonico che
considera il vuoto un elemento centrale e pieno, può sembrare un ossimoro, dei suoi originalissimi paesaggi. La relazione con
l’architettura, manifestata sia nei temi che nella loro restituzione narrativa, deve in parte alla stessa stagione creativa della Milano
degli anni ’50, quella che va da Enzo Mari a Ugo La Pietra fino ai fratelli Joe e Gianni Colombo e si nutre ancora oggi di un
compendio di fascinazioni in uso nella grafica e nel design, che garantiscono la freschezza ancora vitale nei dipinti del maestro. Nelle
opere che portano la sigla 2013 e 2014, si avverte il rigore formale e costruttivo di una certa stilizzazione dei manifesti russi dei
primi del Novecento già riadoperata nell’ultimo decennio, e ancor prima negli anni ’90, dal mondo della comunicazione e della
pubblicità. Si pensi alle copertine di dischi (‘The Man Machine’ del gruppo tedesco dei Kraftwerk, gli scozzesi Franz Ferdinand) e alle
espressioni grafiche di festival musicali, culturali e locandine politiche dove il grido del formalismo russo risponde all’esigenza di una
comunicazione diretta e immediata richiesta dal consumo visivo dei nostri giorni. La storicità dell’immaginario della propaganda (di
El Lissitzky e di Alexander Rodchenko), così asciutto e severo, si mescola alla leggerezza pop e occidentale, in particolare americana,
del melting pot praticato dal vocabolario odierno. E’ nell’ultima serie dell’artista che, ancora più del layout grafico sopra citato, si
intravede un certo modernismo architettonico alla Le Corbusier, di profili che suggeriscono forme e ombre in movimento, con cesure
e tagli cromatici che incombono e compenetrano sulle geometrie al nero di paesaggi industriali, ingranaggi, macchine, costruzioni. Il
retaggio visivo di altri scenari (dalla grafica alla musica, dall’architettura alla scenografia), trova spazio nella sintesi stilistica di
Marpicati che conferma la sua capacità di aderire al presente seppur nella storicizzazione di un percorso nutrito di riferimenti colti
della cultura artistica più contemporanea: i profili dell’inglese Gary Hume, la vivacità del segno astratto del maestro americano
Terry Winters o le ombre del reale dentro il minimalismo di Ellsworth Kelly. Pur manifestando influenze e tangenze, come d'altra
parte qualsiasi artista, il lavoro di Marpicati è personale e originale, trovando pochi eguali nell'ambito della pittura astratta italiana.
Confermandosi maestro del segno e del disegno, della figurazione abitata nell’astrattismo, dell’esistenzialismo intellettuale
trattenuto da un formalismo mai troppo distaccato e complice con lo spettatore che lo esperisce, Marpicati immerge la presenza
umana in un universo visivo inquietante e riflessivo. Non rinuncia al racconto facendo comparire ospiti (o per meglio dire inospiti)
minuscoli, sagome lillipuziane di personaggi che camminano lunghe le traiettorie vertiginose dei suoi paesaggi apocalittici e
futuribili. L’uso del monocromo, dei soli colori primari (blu, rosso e giallo) e altre volte del verde, restituiti da una pittura à plat e del
cloissonisme, data per campiture omogenee di colore (come retini grafici), garantisce alla composizione la costruzione equilibrata di
un set quasi cinematografico, come una sequenza di still video sceneggiati nella mente dello spettatore che li osserva. I Paesaggi
inospiti sono intuizioni astratte di un ritmo espressivo ripetibile all’infinito, con sensibili variazioni, che diventa riflessione temporale
- oltre che spaziale - della dimensione umana e del suo divenire. La scansione ritmica dello spazio della tela, alla ricerca di un ordine
strutturale e compositivo (di tensione classica) fa aleggiare in questi quadri una presenza metafisica e quindi trascendentale, per
certi versi mistica, dove ricercare l’integrità della grandezza umana nella piccolezza inversamente proporzionale della realtà che lo
ospita.
L’arte protegge
Di Claudio Strinati
Nel corso della sua carriera artistica Iros Marpicati ha avuto spesso a che fare con eventi e sensazioni gravi e devastanti, il più
terribile dei quali fu forse la tragedia del Vajont. Quando il maestro si interessò di quel fatto terribile era già passato attraverso un
percorso che si era nutrito di apporti dell’ informale americano e dell’ espressionismo tedesco, “ al limite di un bianconero filmico
espressionista”, come annotò felicemente Fausto Lorenzi in un suo intervento critico del 1996. Maestro di profonda moralità e di
severa introspezione. Marpicati aveva già alle spalle una produzione cospicua su cui si era appuntata l’ attenzione di critici insigni e
di appassionati d’ arte delle più disparate provenienze. Un’ arte, la sua, che sembrava oscillare tra impulsi audaci, tali da essere
comparato all’ action painting, e attitudini meditative altrettanto energicamente espresse e talvolta successivamente connesse con
spunti provenienti anche dall’ universo della musica, una musica, però, che parla sempre di sdegno, indignazione, tragico contrasto
con la decadenza fisica e morale dell’ essere umano e basti ricordare in tal senso gli echi da compositori come Bartok, Prokofiev,
Stravinskij e soprattutto Luigi Nono alla cui grande opera Intolleranza Marpicati ha dedicato una eletta riflessione pittorica. Il
mondo di Marpicati è stato da subito un mondo dolente e cupo e gli eventi, piccoli e grandi, che si svolgevano intorno a lui
sembravano rafforzare sempre più la sua acuta disperazione e il suo bisogno di esprimersi con forza e franchezza. C’ è, in proposito,
un curioso parallelismo con la vicenda di Marpicati ed è quello di Alberto Burri, uno dei supremi esponenti dell’ informale italiano, da
cui non si può sostenere che Marpicati abbia tratto ispirazione, ma che ha definito alcuni termini della questione pittorica nella
seconda metà del Novecento che hanno funzionato da orientatori per alcuni spiriti sensibili e fervidi che sono venuti dopo. Lo spazio
lacerato e insieme compatto; le lame che tagliano la superficie; le punte che attraversano il classico equilibrio della distribuzione
delle masse e di fattori compositivi: sono altrettanti elementi che Burri cominciò a affrontare e vagliare dall’ immediato secondo
dopoguerra e che un artista vero come Marpicati, appartenente però alla generazione successiva, ha come assunto su di sé, sia pure
con una impostazione stilistica e una intenzionalità espressiva ben diverse. A volte, per certi artisti, le chiavi interpretative sono nei
titoli delle opere. Per Marpicati questo vale particolarmente. E’ stato notato come soggetti suoi emblematici possano essere
addirittura circoscritti nei criteri della rappresentazione di devastazioni totali, di una sorta di deserto che spinge verso il nulla. E’
stato altresì notato come largo spazio della rappresentazione il pittore lo affidi sia alle macchine che torturano sia ai corpi dormienti
e estenuati che sembrano ignorare tali presenze allucinanti ma vi sono immerse fino a sfiorarne il contatto che distruggerà quelle
estasi e quello stato di compiaciuto “relax” in cui il pittore ama collocarli. Non sembrerebbe, a questo punto, possibile circoscrivere
tali raffigurazioni in un’ unica lettura critica che dia conto degli elementi essenziali dell’ ispirazione di Marpicati. Ma proprio a
partire da qui nacque la formula critica forse più efficace e che ancora, oggi a distanza di molti anni, è illuminante per l’ arte di
questo pittore singolare e rimarchevole. La si deve al suo esegeta più fine e fedele, Mario De Micheli quando, esattamente
cinquanta anni fa, affermò come il giovane Marpicati fosse arrivato a una “ espressione allarmante” che caratterizzava tutto il suo
lavoro. E’ vero e resta valido ancora oggi. Allarmante. Sembrerebbe qui risiedere la quintessenza di questa arte nitida, nobilmente
atteggiata, aristocratica per certi versi, popolare per altri. La pittura di Marpicati, in effetti, era ed è restata negli anni un allarme
gettato nel flusso della storia. Un “allarme” che continua a suonare ( soffermandoci per un momento sulla possibile metafora
scaturente da tale termine) anche se forse non può ridestare i suoi personaggi che dormono e che, come in una favola antica,
ancora attendono il risveglio che li ricollocherà in uno spazio e un tempo felici e intoccati dal dolore e dalla morte. Invece abitano in
uno spazio che per lo più Marpicati stesso chiama “inospite”. Non inospitale ma inospite. Quasi a rimarcare la parola “ospite”
rivoltata di significato. Quasi che la pittura del maestro dicesse ai suoi personaggi: “vi desidero qui ma non vi voglio”. L’ allarme è
una dimensione dello spirito un po’ particolare. Non è propriamente l’ ansia, non è la paura, non è l’ attesa angosciosa magari
decifrabile in senso kafkiano ( e Kafka è stato più volte evocato commentando l’ opera di Marpicati). Ma è uno stato di vigilanza
unito a uno stato di distrazione. Chi si allarma o ascolta un allarme che lo sta richiamando, per lo più non sa bene cosa sta
veramente succedendo ma teme che stia succedendo qualcosa di grave e forse di irreparabile. O, modificando un poco le parole, di
“irriparabile”, di ciò, in altri termini, che non si può riparare. Come è il mondo di Iros Marpicati? si è chiesto in un notevole studio
critico Giorgio Di Genova nel 2005? E risponde: “è una sorta di macchina stritolatrice, con i suoi ingranaggi di irrazionale geometria,
costituiti dai suoi muri interni, dagli edifici urbani, dagli spazi industriali”. E’ un insieme , insomma, che non si può riparare, che
arriva a noi come massacrato e che possiamo solo contemplare e ricostruire mentalmente. Mette, dunque, in allarme il riguardante
e non è detto che sia uno stato d’ animo desiderato da nessuno di noi. Eppure sempre ricordiamo come uno dei compiti specifici dell’
arte sia quello di indurre alla riflessione, a stimolare il pensiero verso orizzonti inattesi e non necessariamente rasserenanti. E si
pensa, allora, a quelle opere che Marpicati ha ripetutamente intitolato “ incidente” e si intuisce che dietro a quel titolo ci sia, o
perlomeno ci possa essere, una disposizione d’ animo ben precisa e una informazione circostanziata. “Incidente” è quello che capita,
ad esempio, in automobile e che provoca disastri più o meno gravi. Provoca comunque rotture. Ma “incidente” è un participio
presente del verbo incidere e in tal senso significa, dunque, ciò che incide. Può essere un’ idea, un principio, un’ opera d’ arte, tanto
acuta e potente da “incidere” profondamente sul nostro animo determinandone convinzioni, desideri, aspirazioni. Non è il singolo
quadro di Marpicati che rappresenta un incidente a interessare compiutamente l’ indagine critica sul suo lavoro. E’ l’ opera
complessiva di Marpicati che è “incidente” sulla coscienza dell’ osservatore. Incide nel profondo e condiziona il nostro modo di
guardare tra spigolosità terribili e dolcezze altrettanto penetranti nel nostro essere. E’, Marpicati, un artista dialettico che sa tenere
in allarme i suoi osservatori, non per perseguitarli ma per richiamarli a una sorta di dovere estetico che è quello di connettersi
costantemente con la dimensione artistica onde non perdere i più intimi moti del cuore e dell’ immaginazione, che competono a
ogni essere umano. Segna le superfici con discrezione e precisione ma rappresenta tutto ciò che vede con le stigmate di una sorta di
amore universale, per cui il suo tema supremo è proprio quello dell’ armonia, della pacificazione delle forme, dell’ immobilizzazione
dei contrasti, sia latenti sia in essere. Ne promana l’ immagine di un dolente umanista che considera pressochè sacrale il suo lavoro
di pittore grazie al quale, tassello per tassello, ricostruisce un universo scomposto e disordinato per renderlo organico e coerente nel
tentativo di esorcizzare l’ “incidente” , come se all’ uomo saggio e equilibrato fosse concesso di sfuggire dal caos della casualità.
Naturalmente questo non è concesso a nessuno, ma è metaforicamente concesso all’artista di rappresentare tale aspirazione.
Biogafia
Iros Marpicati è nato a Ghedi (Brescia). Ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo con Achille Funi e ha cominciato ad esporre
nel 1957. In seguito ha conseguito il diploma al liceo artistico di Brera. Il suo lavoro si muove da anni su un territorio di evocazioni
esistenziali. L’artista che opera tra Brescia e Milano ha allestito diverse personali e partecipato a importanti rassegne nazionali ed
internazionali. Marpicati dipinge un viaggio nel labirinto di un mondo meccanico e artificiale, la prigionia e l’abbandono dei corpi, gli
ingranaggi che si fanno paesaggio e una luce che offre una speranza di salvezza: su queste coordinate si muove il lungo percorso
dell’artista nella sua lenta sintesi che ha trovato la qualità di una combinazione sempre più accentuata dei suoi aspetti formali e
metaforici. L’opera di Marpicati unisce in modo del tutto personale la visione di taglio sociale e psicologico che indaga l’alienazione
e la solitudine dell’uomo contemporaneo, la classicità dell’eros dei nudi addormentati, la pittura di paesaggio urbano, periferico e
industriale e l’astrazione geometrica : una serie di elementi che formano un quadro complesso e articolato in cui possiamo trovare
un’acuta rielaborazione di alcune delle linee forti dell’arte italiana e internazionale tra ventesimo e ventunesimo secolo. L’atmosfera
di inquietudine e di allucinata contraddizione dei quadri di Marpicati è aumentata dunque dal contrasto tra la stesura piatta,
astraente e bidimensionale delle architetture e dei congegni e la vibrante definizione pittorica dei corpi giovani maschili e femminili,
addolciti e resi ancora più sensuali dalla levità delle ombre trasparenti e quasi leonardesche che modellano lo sfumato delle loro
anatomie ammorbidite dall’abbandono e dal sonno.
Marpicati: la costruzione della grandezza umana”, dedicata a uno degli artisti contemporanei più
interessanti e visionari del panorama internazionale. La mostra sarà corredata dal catalogo edito dal
Museo MIIT, con testi critici di Guido Folco, Direttore del Museo MIIT, Luca Beatrice e Claudio Strinati.
In mostra, una trentina di opere realizzate dagli anni Duemila ad oggi dall’artista di Brescia.
TESTI CRITICI
Il ritorno all’ordine di Iros Marpicati
Di Guido Folco
Il Museo MIIT di Torino, nella sua vocazione internazionale particolarmente attenta alla valorizzazione della storia artistica italiana
moderna e contemporanea, è orgoglioso di presentare la mostra personale di un grande interprete del nostro tempo: Iros Marpicati.
Le sue opere rappresentano un punto di contatto tra i canoni estetici di Novecento Italiano e le più avanzate ricerche della
modernità, dal rigore compositivo, alla monumentalità dell’impostazione stilistica e formale, dalla meditata e intima
rappresentazione dell’Uomo, alla metafisica di un’idea pittorica che si fa forma onirica, immaginata. L’artista interpreta l’essenza
stessa della nostra cultura, quella classicità idealizzata che fu dei grandi maestri del passato, da Giotto a Michelangelo, da Leonardo
a Raffaello, ma lo fa con la profonda sensibilità di uno sguardo nuovo, tipico della nostra epoca. Iros Marpicati autore classico,
quindi? Sicuramente sì, almeno in parte, intendendo con questo termine la sintesi di un’idea di modernità che ha tracciato un solco
profondo nella storia dell’ultimo secolo. Nei primi anni del Novecento la società inizia a confrontarsi profondamente con l’essenza
dell’Uomo, con la sua psiche e le sue ansie vitali, interpretando così il dramma di una umanità sofferente, straziata dalle guerre
mondiali, inesorabilmente condannata alla solitudine esistenziale. Quello stesso sentimento che traspare dai lavori di Iros Marpicati,
in cui l’uomo diventa presenza inevitabile, ma al contempo soffocata dalla fredda, rigorosa, inanimata contemporaneità, dalle
architetture ideali, cromaticamente immerse nelle nere notti della disperazione, in perenne lotta col l’abbacinante luce della
speranza. Il cosiddetto Ritorno all’Ordine, proclamato e voluto dal Ventennio, maturato da maestri quali Malerba, Oppi, Marussig,
Dudreville, dallo stesso Achille Funi, con cui Marpicati studia all’Accademia Carrara di Bergamo, si ritrova in queste tele dell’artista,
declinato però con modernità di linguaggio, in un continuo dialogo tra le istanze della stagione razionalista e neoclassica del primo
Novecento e il desiderio di raccontare l’Uomo, tipico della stagione del rinnovamento. Nel corso del ventennio, l’Uomo diventa il
centro della poetica e della ricerca degli artisti, quasi un’epifanìa delle avanguardie post belliche, prepotentemente provenienti dagli
Stati Uniti, così diverse nel loro linguaggio espressionista, eppure tanto vicine nella loro epidermica umanizzazione dell’arte. Uomo
inteso come eroe mitologico, semi-divinità scevra della sua intrinseca fragilità, osservato però anche alla luce delle nuove esperienze
contemporanee. In Marpicati, queste si concretizzano in una visione dell’Essere uguale e contraria, rispetto alla monumentalità del
passato. Nei suoi dipinti è l’architettura a prevalere sull’Uomo, sono i nuovi templi della modernità a renderlo quasi invisibile,
anonimo, ormai perduto nel ricordo lontano della sua grandezza e divinità. Iros Marpicati incarna quindi perfettamente quella che
Giorgio De Chirico definiva la ‘grammatica del linguaggio pittorico’, vale a dire l’interpretazione della figura umana, simbolo delle
debolezze della società e dell’anima del mondo. Nelle sue opere, l’artista ci suggerisce un’idea moderna e reale della vita, abitando
ogni dipinto con una sospesa, straniante e drammatica attesa, divenendo così ‘ponte’ ideale tra l’eterno linguaggio del mito e la
nuova utopia di salvezza.
La costruzione della grandezza umana: Iros Marpicati
Di Luca Beatrice
Iros Marpicati è figlio di una generazione influente. Appartiene alla storica classe d’artisti che ha inciso le iniziali della ‘cultura visiva’
del capoluogo meneghino, nella Milano degli anni ’30, appena reduce dal fascismo e dalla prima guerra mondiale e non ancora
cosciente di un conflitto a venire. Quella generazione, eterogenea e variopinta, ha disegnato panorami, prodotto immaginari e
costruito nuovi percorsi sulle ceneri ancora calde dell’Informale europeo e dai raccordi, concettuali e visivi, con le sue evoluzioni
teoriche (tra cui la pittura nucleare, il realismo esistenziale e la scuola dello sguardo). La stagione che ha seguito, e alla quale
Marpicati s’inscrive, ha chiamato ad adunata corporazioni e gruppi d’artisti, quando ancora la figura del critico militante non
sostituiva l’autogestione dei ‘movimenti’ (e la nomina di ‘curatore’ non compariva nemmeno nei dizionari) a favore di mostre ed
espressioni più spontanee di volontà e pulsioni creative, sia collettive che singole. L’arte di quegli anni manifesta la recettività verso
un mondo attraversato da un cambiamento e ne riconosce tutta la tensione sperimentale. Dentro a un paesaggio così vitale, l’arte
italiana guarda con entusiasmo all’Europa e all’America; a Milano si producono linee e formazioni accademiche, la strada
concettuale di Azimuth da una parte, dall’altra la direzione oggettuale dell’arte cinetica e programmata (Gruppo T e del Cenobio); si
assiste alla riconquista del disegno, della forma e della figurazione trasformata e aggiornata nei generi con echi provenienti dalla
Pop Art inglese e americana. Siamo negli anni ’50 quando Iros Marpicati espone per la prima volta alla Galleria Spotorno di Milano.
Dal quel 1957, il maestro che oggi conosciamo per i suoi Paesaggi inospiti, ha coltivato una carriera unica nel suo genere,
rinnovandosi ogni volta nel linguaggio seppur preservando la lucidità di un pensiero analitico verso la realtà, mai scontato e per
nulla derivativo da mode o stili. Le prime opere di Marpicati raccontano di un’umanità introversa tramite un organicismo pre-
figurativo, con ritratti di persone e natura, dentro la durezza del bianco e nero e la gestualità dell’olio che si sfuma sulla trama della
tela. Di lì a poco, il volto amaro di una società che ha conosciuto la guerra civile e la fame lascia il posto a un più lucido e scientifico
sentimento: il dramma e il pathos giovanile si trasformano nell’artista in coscienza e responsabilità intellettuale. Si dichiara ora nei
titoli (Incidenti, Paesaggi e Composizioni), e nella scelta dei soggetti (ingranaggi e macchine), la storia che accompagnerà tutta la
pittura di Marpicati. Già da questi primi esperimenti narrativi l’evidente presenza di realtà e di massa critica dentro le superfici
mobili e dinamiche dei quadri, mai eccessivamente formali, stupisce in considerazione del fatto che tutto intorno – la storia a
ricordarlo - spingeva verso le entusiaste attese generate dalla prima tecnologia e dalle scoperte scientifiche, con un’evidente fiducia
nel progresso e nelle possibilità dell'uomo. Marpicati parla di quel presente ma con una proiezione tesa al divenire di un futuro
appena prossimo: guarda l’uomo e stima la sua integrità eppure riconosce la minaccia del progresso tecnocratico e, in
controtendenza rispetto al panorama culturale di quegli anni, adopera un’acuta e sensibile denuncia all’ottimismo dominante che si
era infuso a partire già dal movimento futurista. Macchine e ingranaggi sostituiscono gli espedienti di volti e fiori ma sono
governate da una più inquietante organicità artificiale; le astrazioni degli anni ’60, con la ripetizione sistematica dei soggetti,
ossessiva e permeante, che porta il senso delle macchie di Clyfford Still e la fredda continuità estetica delle tavole numeriche di
Franz Kline, sono state espressione dell’inquietudine sperimentale del tempo e costituiscono le sotto tracce formali e concettuali dei
Paesaggi inospiti di oggi. L’artista è di origini bresciane, ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo - sotto la guida di Achille Funi
- e lambisce la formazione d’architetto per decidere poi di consacrarsi alla pittura e di trasferirsi a Milano, come altri della sua
generazione (tra cui Tullio Pericoli). Fondendo l’interesse per la Figuration Critique di origine francese, per la quale lo stato del corpo
è al centro di una pittura allegorica e metafisica, e l’astrattismo di stampo americano, che vede nella pittura una costante possibilità
d’interesse e rinnovamento, Marpicati enuncia nei suoi lavori una riflessione intorno al rapporto uomo/ambiente; più dichiarato nei
lavori degli anni ’90, o diversamente celato nell’evoluzione stilistica formatasi a partire dagli anni duemila verso la direzione di una
pittura piatta e geometrica, ma fortemente contraddittoria, confessa una tangenza perpetrata nell’immaginario architettonico che
considera il vuoto un elemento centrale e pieno, può sembrare un ossimoro, dei suoi originalissimi paesaggi. La relazione con
l’architettura, manifestata sia nei temi che nella loro restituzione narrativa, deve in parte alla stessa stagione creativa della Milano
degli anni ’50, quella che va da Enzo Mari a Ugo La Pietra fino ai fratelli Joe e Gianni Colombo e si nutre ancora oggi di un
compendio di fascinazioni in uso nella grafica e nel design, che garantiscono la freschezza ancora vitale nei dipinti del maestro. Nelle
opere che portano la sigla 2013 e 2014, si avverte il rigore formale e costruttivo di una certa stilizzazione dei manifesti russi dei
primi del Novecento già riadoperata nell’ultimo decennio, e ancor prima negli anni ’90, dal mondo della comunicazione e della
pubblicità. Si pensi alle copertine di dischi (‘The Man Machine’ del gruppo tedesco dei Kraftwerk, gli scozzesi Franz Ferdinand) e alle
espressioni grafiche di festival musicali, culturali e locandine politiche dove il grido del formalismo russo risponde all’esigenza di una
comunicazione diretta e immediata richiesta dal consumo visivo dei nostri giorni. La storicità dell’immaginario della propaganda (di
El Lissitzky e di Alexander Rodchenko), così asciutto e severo, si mescola alla leggerezza pop e occidentale, in particolare americana,
del melting pot praticato dal vocabolario odierno. E’ nell’ultima serie dell’artista che, ancora più del layout grafico sopra citato, si
intravede un certo modernismo architettonico alla Le Corbusier, di profili che suggeriscono forme e ombre in movimento, con cesure
e tagli cromatici che incombono e compenetrano sulle geometrie al nero di paesaggi industriali, ingranaggi, macchine, costruzioni. Il
retaggio visivo di altri scenari (dalla grafica alla musica, dall’architettura alla scenografia), trova spazio nella sintesi stilistica di
Marpicati che conferma la sua capacità di aderire al presente seppur nella storicizzazione di un percorso nutrito di riferimenti colti
della cultura artistica più contemporanea: i profili dell’inglese Gary Hume, la vivacità del segno astratto del maestro americano
Terry Winters o le ombre del reale dentro il minimalismo di Ellsworth Kelly. Pur manifestando influenze e tangenze, come d'altra
parte qualsiasi artista, il lavoro di Marpicati è personale e originale, trovando pochi eguali nell'ambito della pittura astratta italiana.
Confermandosi maestro del segno e del disegno, della figurazione abitata nell’astrattismo, dell’esistenzialismo intellettuale
trattenuto da un formalismo mai troppo distaccato e complice con lo spettatore che lo esperisce, Marpicati immerge la presenza
umana in un universo visivo inquietante e riflessivo. Non rinuncia al racconto facendo comparire ospiti (o per meglio dire inospiti)
minuscoli, sagome lillipuziane di personaggi che camminano lunghe le traiettorie vertiginose dei suoi paesaggi apocalittici e
futuribili. L’uso del monocromo, dei soli colori primari (blu, rosso e giallo) e altre volte del verde, restituiti da una pittura à plat e del
cloissonisme, data per campiture omogenee di colore (come retini grafici), garantisce alla composizione la costruzione equilibrata di
un set quasi cinematografico, come una sequenza di still video sceneggiati nella mente dello spettatore che li osserva. I Paesaggi
inospiti sono intuizioni astratte di un ritmo espressivo ripetibile all’infinito, con sensibili variazioni, che diventa riflessione temporale
- oltre che spaziale - della dimensione umana e del suo divenire. La scansione ritmica dello spazio della tela, alla ricerca di un ordine
strutturale e compositivo (di tensione classica) fa aleggiare in questi quadri una presenza metafisica e quindi trascendentale, per
certi versi mistica, dove ricercare l’integrità della grandezza umana nella piccolezza inversamente proporzionale della realtà che lo
ospita.
L’arte protegge
Di Claudio Strinati
Nel corso della sua carriera artistica Iros Marpicati ha avuto spesso a che fare con eventi e sensazioni gravi e devastanti, il più
terribile dei quali fu forse la tragedia del Vajont. Quando il maestro si interessò di quel fatto terribile era già passato attraverso un
percorso che si era nutrito di apporti dell’ informale americano e dell’ espressionismo tedesco, “ al limite di un bianconero filmico
espressionista”, come annotò felicemente Fausto Lorenzi in un suo intervento critico del 1996. Maestro di profonda moralità e di
severa introspezione. Marpicati aveva già alle spalle una produzione cospicua su cui si era appuntata l’ attenzione di critici insigni e
di appassionati d’ arte delle più disparate provenienze. Un’ arte, la sua, che sembrava oscillare tra impulsi audaci, tali da essere
comparato all’ action painting, e attitudini meditative altrettanto energicamente espresse e talvolta successivamente connesse con
spunti provenienti anche dall’ universo della musica, una musica, però, che parla sempre di sdegno, indignazione, tragico contrasto
con la decadenza fisica e morale dell’ essere umano e basti ricordare in tal senso gli echi da compositori come Bartok, Prokofiev,
Stravinskij e soprattutto Luigi Nono alla cui grande opera Intolleranza Marpicati ha dedicato una eletta riflessione pittorica. Il
mondo di Marpicati è stato da subito un mondo dolente e cupo e gli eventi, piccoli e grandi, che si svolgevano intorno a lui
sembravano rafforzare sempre più la sua acuta disperazione e il suo bisogno di esprimersi con forza e franchezza. C’ è, in proposito,
un curioso parallelismo con la vicenda di Marpicati ed è quello di Alberto Burri, uno dei supremi esponenti dell’ informale italiano, da
cui non si può sostenere che Marpicati abbia tratto ispirazione, ma che ha definito alcuni termini della questione pittorica nella
seconda metà del Novecento che hanno funzionato da orientatori per alcuni spiriti sensibili e fervidi che sono venuti dopo. Lo spazio
lacerato e insieme compatto; le lame che tagliano la superficie; le punte che attraversano il classico equilibrio della distribuzione
delle masse e di fattori compositivi: sono altrettanti elementi che Burri cominciò a affrontare e vagliare dall’ immediato secondo
dopoguerra e che un artista vero come Marpicati, appartenente però alla generazione successiva, ha come assunto su di sé, sia pure
con una impostazione stilistica e una intenzionalità espressiva ben diverse. A volte, per certi artisti, le chiavi interpretative sono nei
titoli delle opere. Per Marpicati questo vale particolarmente. E’ stato notato come soggetti suoi emblematici possano essere
addirittura circoscritti nei criteri della rappresentazione di devastazioni totali, di una sorta di deserto che spinge verso il nulla. E’
stato altresì notato come largo spazio della rappresentazione il pittore lo affidi sia alle macchine che torturano sia ai corpi dormienti
e estenuati che sembrano ignorare tali presenze allucinanti ma vi sono immerse fino a sfiorarne il contatto che distruggerà quelle
estasi e quello stato di compiaciuto “relax” in cui il pittore ama collocarli. Non sembrerebbe, a questo punto, possibile circoscrivere
tali raffigurazioni in un’ unica lettura critica che dia conto degli elementi essenziali dell’ ispirazione di Marpicati. Ma proprio a
partire da qui nacque la formula critica forse più efficace e che ancora, oggi a distanza di molti anni, è illuminante per l’ arte di
questo pittore singolare e rimarchevole. La si deve al suo esegeta più fine e fedele, Mario De Micheli quando, esattamente
cinquanta anni fa, affermò come il giovane Marpicati fosse arrivato a una “ espressione allarmante” che caratterizzava tutto il suo
lavoro. E’ vero e resta valido ancora oggi. Allarmante. Sembrerebbe qui risiedere la quintessenza di questa arte nitida, nobilmente
atteggiata, aristocratica per certi versi, popolare per altri. La pittura di Marpicati, in effetti, era ed è restata negli anni un allarme
gettato nel flusso della storia. Un “allarme” che continua a suonare ( soffermandoci per un momento sulla possibile metafora
scaturente da tale termine) anche se forse non può ridestare i suoi personaggi che dormono e che, come in una favola antica,
ancora attendono il risveglio che li ricollocherà in uno spazio e un tempo felici e intoccati dal dolore e dalla morte. Invece abitano in
uno spazio che per lo più Marpicati stesso chiama “inospite”. Non inospitale ma inospite. Quasi a rimarcare la parola “ospite”
rivoltata di significato. Quasi che la pittura del maestro dicesse ai suoi personaggi: “vi desidero qui ma non vi voglio”. L’ allarme è
una dimensione dello spirito un po’ particolare. Non è propriamente l’ ansia, non è la paura, non è l’ attesa angosciosa magari
decifrabile in senso kafkiano ( e Kafka è stato più volte evocato commentando l’ opera di Marpicati). Ma è uno stato di vigilanza
unito a uno stato di distrazione. Chi si allarma o ascolta un allarme che lo sta richiamando, per lo più non sa bene cosa sta
veramente succedendo ma teme che stia succedendo qualcosa di grave e forse di irreparabile. O, modificando un poco le parole, di
“irriparabile”, di ciò, in altri termini, che non si può riparare. Come è il mondo di Iros Marpicati? si è chiesto in un notevole studio
critico Giorgio Di Genova nel 2005? E risponde: “è una sorta di macchina stritolatrice, con i suoi ingranaggi di irrazionale geometria,
costituiti dai suoi muri interni, dagli edifici urbani, dagli spazi industriali”. E’ un insieme , insomma, che non si può riparare, che
arriva a noi come massacrato e che possiamo solo contemplare e ricostruire mentalmente. Mette, dunque, in allarme il riguardante
e non è detto che sia uno stato d’ animo desiderato da nessuno di noi. Eppure sempre ricordiamo come uno dei compiti specifici dell’
arte sia quello di indurre alla riflessione, a stimolare il pensiero verso orizzonti inattesi e non necessariamente rasserenanti. E si
pensa, allora, a quelle opere che Marpicati ha ripetutamente intitolato “ incidente” e si intuisce che dietro a quel titolo ci sia, o
perlomeno ci possa essere, una disposizione d’ animo ben precisa e una informazione circostanziata. “Incidente” è quello che capita,
ad esempio, in automobile e che provoca disastri più o meno gravi. Provoca comunque rotture. Ma “incidente” è un participio
presente del verbo incidere e in tal senso significa, dunque, ciò che incide. Può essere un’ idea, un principio, un’ opera d’ arte, tanto
acuta e potente da “incidere” profondamente sul nostro animo determinandone convinzioni, desideri, aspirazioni. Non è il singolo
quadro di Marpicati che rappresenta un incidente a interessare compiutamente l’ indagine critica sul suo lavoro. E’ l’ opera
complessiva di Marpicati che è “incidente” sulla coscienza dell’ osservatore. Incide nel profondo e condiziona il nostro modo di
guardare tra spigolosità terribili e dolcezze altrettanto penetranti nel nostro essere. E’, Marpicati, un artista dialettico che sa tenere
in allarme i suoi osservatori, non per perseguitarli ma per richiamarli a una sorta di dovere estetico che è quello di connettersi
costantemente con la dimensione artistica onde non perdere i più intimi moti del cuore e dell’ immaginazione, che competono a
ogni essere umano. Segna le superfici con discrezione e precisione ma rappresenta tutto ciò che vede con le stigmate di una sorta di
amore universale, per cui il suo tema supremo è proprio quello dell’ armonia, della pacificazione delle forme, dell’ immobilizzazione
dei contrasti, sia latenti sia in essere. Ne promana l’ immagine di un dolente umanista che considera pressochè sacrale il suo lavoro
di pittore grazie al quale, tassello per tassello, ricostruisce un universo scomposto e disordinato per renderlo organico e coerente nel
tentativo di esorcizzare l’ “incidente” , come se all’ uomo saggio e equilibrato fosse concesso di sfuggire dal caos della casualità.
Naturalmente questo non è concesso a nessuno, ma è metaforicamente concesso all’artista di rappresentare tale aspirazione.
Biogafia
Iros Marpicati è nato a Ghedi (Brescia). Ha studiato all’Accademia Carrara di Bergamo con Achille Funi e ha cominciato ad esporre
nel 1957. In seguito ha conseguito il diploma al liceo artistico di Brera. Il suo lavoro si muove da anni su un territorio di evocazioni
esistenziali. L’artista che opera tra Brescia e Milano ha allestito diverse personali e partecipato a importanti rassegne nazionali ed
internazionali. Marpicati dipinge un viaggio nel labirinto di un mondo meccanico e artificiale, la prigionia e l’abbandono dei corpi, gli
ingranaggi che si fanno paesaggio e una luce che offre una speranza di salvezza: su queste coordinate si muove il lungo percorso
dell’artista nella sua lenta sintesi che ha trovato la qualità di una combinazione sempre più accentuata dei suoi aspetti formali e
metaforici. L’opera di Marpicati unisce in modo del tutto personale la visione di taglio sociale e psicologico che indaga l’alienazione
e la solitudine dell’uomo contemporaneo, la classicità dell’eros dei nudi addormentati, la pittura di paesaggio urbano, periferico e
industriale e l’astrazione geometrica : una serie di elementi che formano un quadro complesso e articolato in cui possiamo trovare
un’acuta rielaborazione di alcune delle linee forti dell’arte italiana e internazionale tra ventesimo e ventunesimo secolo. L’atmosfera
di inquietudine e di allucinata contraddizione dei quadri di Marpicati è aumentata dunque dal contrasto tra la stesura piatta,
astraente e bidimensionale delle architetture e dei congegni e la vibrante definizione pittorica dei corpi giovani maschili e femminili,
addolciti e resi ancora più sensuali dalla levità delle ombre trasparenti e quasi leonardesche che modellano lo sfumato delle loro
anatomie ammorbidite dall’abbandono e dal sonno.
11
aprile 2015
Iros Marpicati – La costruzione della grandezza umana
Dall'undici aprile al 09 maggio 2015
arte contemporanea
Location
MIIT – MUSEO INTERNAZIONALE ITALIA ARTE
Torino, Corso Cairoli, 4, (Torino)
Torino, Corso Cairoli, 4, (Torino)
Orario di apertura
da martedì a sabato dalle 15:30 alle 19:30; su appuntamento domenica, lunedì e festivi per visite guidate, gruppi, scolaresche
Vernissage
11 Aprile 2015, h 18
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