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Ivan Piano – Metamorphosis Factory
Il lavoro fotografico, spesso articolato in sequenze di work in progess è l’unica testimo-nianza di azioni / rea-zioni private.
Comunicato stampa
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There was a boy
A very strange
Enchanted boy
They say he wandered
Very far, very far
Over land and sea
A little shy and sad of eye
But very wise was he
And then one day
One magic day
He passed my way
While we spoke
Of many things
Fools and kings
This he said to me
"The greatest thing
You'll ever learn
Is just to love and
Be loved in return"
Nature Boy - David Bowie/Massive Attack
Ivan Piano
Metamorphosis Factory
Lo sguardo, è il tramite del desiderio, ma è un desiderio intimo velato da una forma di auto voyeurismo derivante di fatto da un atto performativo totalmente solitario in cui l’artista diventa attore e spettatore di se stesso.
Il lavoro fotografico, spesso articolato in sequenze di work in progess è l’unica testimo-nianza di queste azioni / rea-zioni private.
Tuttavia l’opera di questo singolare artista si contraddistingue per la pluralità di intenti, alla componente performativa si va ad aggiungere un elemento formale di ricerca che lo porta ad intervenire sui negativi con gesti di violenza fino a manipolare l’immagine attra-verso bruciature, graffi e viraggi con sostanze colorate, come una sorta di gioco d’amour passion a testimo-nianza di un sadomasochismo auto indotto dove i due elementi contrapposti si ricompongono nella stessa persona attraverso la sua rappresentazione e l’intervento di autodistruzione.
Eros e thanatos riuniti in una logica delle assenze, dei non luoghi che prendono il sopravvento e confluiscono in un’immagine del tutto sorprendente nei risultati che vanno ben oltre le logiche costruttive e sfondano i canoni estetici convenzionali per proporre una realtà divisa tra forme astratte e dimensioni fluttuanti di una realtà parallela dove sogno e pazzia sembrano incontrarsi tra le note assordanti di brani mutuati dalla musica ele-ctronica anglosassone.
Questo non essere attraverso la rilevante componente di auto rendersi un fantasma permette a Ivan Piano di produrre opere estremamente raffinate, concettuali, dove l’atto creativo in tutte le sue parti va a confluire nel proprio ego, quasi a riportare in voga il mito dello specchio che riflette mondi nascosti e misteriosi.
Non ci sono certezze in questo gran tour immaginifico, c’è un attore velato dalla presenza importante del gesto che interviene a mutare un gesto performativo con elementi nuovi “disturbatori” e c’è una realtà inconsistente, inesi-stente che tuttavia si esprime in modo veritiero tra atmosfere dark e suggestioni gotiche riconducibili a quelle di un cult movie come Blade Runner.
Il pensiero cloisonné di un artista ambivalente rinchiude non solo se stesso o la sua auto rappresentazione ma tutte le divagazioni eroiche ed epiche di una generazione cresciuta a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, sfuggendo a una realtà dell’immagine mostrata a tutti i costi per mezzo di un’auto-negazione sfaldando l’usuale ricerca del bello assoluto con il dubbio perimetrale dell’incerto e del travestimento spettrale.
Questo rivelano le opere conturbanti e assolute di Ivan Piano, spirito libero che attraverso un lungo viaggio tra persone e luoghi arriva al perigeo di se stesso con la deformazione , deframmenta-zione della propria immagine per rivelarci un’anima geniale.
Sabrina Raffaghello
___________________________________________________________________________
IVAN PIANO: METAMORPHOSIS FACTORY
la fotografia mi aveva sempre affascinato
in quanto modo di dipingere con la luce
e le sostanze chimiche.
MAN RAY
Ci sono delle volte che guardando il lavoro di un artista si ha come la sensazione dello svolgersi della storia, della partecipazione ad un qualcosa di grande che dura da tempo, e cioè il processo di crescita di un’idea, di un modo di fare le cose che al di là delle singole specificità e declinazioni va a comporre il mosaico di una mentalità contemporanea.
Questo, ci sembra di poter dire con certezza, è quello che avviene con Ivan Piano, perché il suo è un modo di fare arte che ha tutta la freschezza dei suoi soli trent’anni, ma che al medesimo tempo ha la maturità e la consapevolezza di un passato che è stato compreso e fatto proprio, e che non torna mai per essere una semplice citazione o un brano ripreso e fatto circolare, ma che si intravede e che emerge come esperienza. Del resto la maggior parte degli esempi dimostra che i grandi artisti, quelli che hanno saputo vivere davvero il loro tempo, lo hanno fatto anche nella consapevolezza del loro ruolo all’interno di un percorso, anche perché, tra l’altro, per amare il presente bisogna se non amare il passato, almeno averne la curiosità, lo stimolo a considerare le cose non come degli accadimenti isolati ma piuttosto come ad una concatenazione di pensieri e di idee, che nel tempo e grazie a certe menti e a certi personaggi, subiscono delle variazioni che anziché indebolirne la forza, gliene ridanno di nuova.
Approcciarsi all’opera di Ivan Piano significa un po’ respirare questo clima, ma i motivi che lo rendono un grande artista non sono legati solo all’intelligenza dell’approccio concettuale, ma anche ad un impasto di idee e tecniche che rendono il suo lavoro di una intrigante raffinatezza.
Al centro di tutto sembra esserci l’uomo, un uomo, quello di oggi, che deve affrontare non solo la complessità della società in cui vive ma anche la propria, quella dei suoi pensieri e delle reazioni agli eventi, un uomo, insomma, che continua a mettersi in discussione attraverso un incessante processo di metamorfosi. È un po’ come se oggi l’essere umano avesse compreso e accettato che lo stato di incertezza in cui riversa il mondo è proprio anche della mente, e che se generazioni e generazioni hanno avuto timore di tale debolezza, oggi le cose devono andare diversamente, perché questa dovrebbe essere la nostra forza, la scoperta che nulla è scontato, e che tutto può succedere, perché troppe sono le cose che ci condizionano, che ci cambiano, che sconvolgono la nostra personalità. L’uomo oggi è come un fascio di luce di cui si possono identificare infinite particelle diverse, tutte in costante e imperituro movimento, in una continua tensione verso l’infinito, quell’infinito che forse è la conoscenza. Ecco insomma che per crescere bisogna innanzitutto saper guardare, scoprire anche se stessi, mettersi in discussione, provare a dar sfogo a tutti gli stati d’animo, così, allora, vedremo che l’uomo può essere quasi un’apparenza fantasmica, come nella serie Nekromantik, in cui si rivela come uno spettro tra quei pensieri che prendono forma nei graffi, nelle macchie e nelle bruciature con cui l’artista aggredisce la pellicola, rendendola non solo una superficie capace di dipingere l’universo tramite la luce, come ha detto Man Ray, ma facendone un vero e proprio catalizzatore di esperienze e di riflessioni, ma anche di paure e incubi.
Nei trittici B.I./# 1-4 gli importa affermare la propria presenza in maniera più eccentrica, un’eccentricità che in Machete (Play)/# 1-6 giunge quasi alla spavalderia, come a sottolineare il peso di certi gesti o di certi comportamenti in una società massificata e stereotipata come la nostra.
O, ancora, in Believe è un uomo la cui apparenza corporea è sfibrata dagli interventi dell’artista, ma che pare reagire con più forza e affermare una più concreta fisicità rispetto ai Nekromantik, un po’ come se avesse compreso che è dall’aggressività del pensiero che si trae forza vitale, una forza che alle volte può farti diventare un guerriero, come in 100TH Window, oppure un satiro come in Do not disturb/Under the influence
La fotografia, insomma, viene utilizzata da Ivan Piano come rivelatore non tanto di realtà puramente fisiche, ma ha lo scopo di testimoniare la presenza di una complessità, di un processo tale per cui ad emergere è una verità umana in cui corpo e mente dialogano in un vortice di segni, si identificano come verità dialetticamente contrapposte, entrambe suscettibili ai condizionamenti e forti nell’atto della difesa o dell’affermazione del proprio essere.
Ed ecco che detto questo non sono più possibili fraintendimenti, specialmente in riferimento al lavoro di artisti che, come Rainer, hanno unito un’indagine fotografica e una segnica. Del resto infatti negli anni Settanta la volontà di fondo era completamente diversa, il corpo allora veniva sottoposto agli stessi traumi che pennelli e spatole infliggevano alla tela, e gli interventi pittorici sulla fotografia erano funzionali all’accentuazione di questa violenza. Anche Piano aggredisce l’immagine, è vero, ma è impossibile vedere una discendenza diretta dalle esperienze precedenti, e non solo perché le aggressioni non sono pittoriche in senso stretto, ma anche perché l’artista agisce sul negativo, la matrice perfetta, depositaria delle informazioni che la luce, tramite lo scatto, ha trasferito sulla pellicola, fermando su quella superficie un brandello temporale e situazionale circoscritto. La traccia del reale dunque viene stravolta, sfigurata, arricchita di quel valore aggiunto fondamentale che é la forma degli assoluti della mente, realtà impalpabili eppure presenti, le uniche che la luce non riesce a catturare e fissare sulla pellicola. E poi il corpo, per l’artista, è esso stesso parte di questa complessa realtà cerebrale in continua metamorfosi, i suoi uomini, insomma oramai lo sappiamo, partecipano fisicamente a questo processo, vivono una corporalità mutevole, capace di rarefarsi ma anche di apparire volumetrica e plastica. Ma non è tutto qui, perché ad accentuare la percezione di tutti questi aspetti concorre certamente quell’atmosfera particolare che si vive nei lavori dell’artista, un’atmosfera che si fa senso del tempo e dello spazio, nel suo avviluppare non solo le scene ma anche i personaggi, che respirano e vivono quella luce magica e irreale che li catapulta in una ideale dimensione di indefinitezza. Ad essere fondamentale in questo senso è certamente la messinscena, la costruzione teatrale e la teatralizzazione stessa che l’artista attua nella creazione delle sue opere. Eppure, anche in questo caso, non ci si può confondere con le peculiarità della performance classica, perché i contesti in cui lavora Piano sono privati e quindi vengono meno l’intento dimostrativo e il presupposto fondamentale della partecipazione esterna.La finalità, insomma, è la creazione di ambienti fisici e psicologici in cui l’uomo possa liberare se stesso, una liberazione in cui ad avere un ruolo fondamentale proprio per la connotazione magica e misterica di cui si è detto, è la fotografia concepita non solo come mezzo ma anche come catalizzatore di tensioni che si liberano anche tramite quella pozione di immaginario cinematografico e musica electronica che l’artista ascolta quando procede all’aggressione della pellicola.
Ecco allora che le parole di Man Ray citate in apertura trovano nel lavoro di Ivan Piano tutta una nuova attualità: del resto cos’è questa alchimia di componenti se non un nuovo modo di dipingere con la luce e delle inusuali sostanze chimiche?
Elena Forin
A very strange
Enchanted boy
They say he wandered
Very far, very far
Over land and sea
A little shy and sad of eye
But very wise was he
And then one day
One magic day
He passed my way
While we spoke
Of many things
Fools and kings
This he said to me
"The greatest thing
You'll ever learn
Is just to love and
Be loved in return"
Nature Boy - David Bowie/Massive Attack
Ivan Piano
Metamorphosis Factory
Lo sguardo, è il tramite del desiderio, ma è un desiderio intimo velato da una forma di auto voyeurismo derivante di fatto da un atto performativo totalmente solitario in cui l’artista diventa attore e spettatore di se stesso.
Il lavoro fotografico, spesso articolato in sequenze di work in progess è l’unica testimo-nianza di queste azioni / rea-zioni private.
Tuttavia l’opera di questo singolare artista si contraddistingue per la pluralità di intenti, alla componente performativa si va ad aggiungere un elemento formale di ricerca che lo porta ad intervenire sui negativi con gesti di violenza fino a manipolare l’immagine attra-verso bruciature, graffi e viraggi con sostanze colorate, come una sorta di gioco d’amour passion a testimo-nianza di un sadomasochismo auto indotto dove i due elementi contrapposti si ricompongono nella stessa persona attraverso la sua rappresentazione e l’intervento di autodistruzione.
Eros e thanatos riuniti in una logica delle assenze, dei non luoghi che prendono il sopravvento e confluiscono in un’immagine del tutto sorprendente nei risultati che vanno ben oltre le logiche costruttive e sfondano i canoni estetici convenzionali per proporre una realtà divisa tra forme astratte e dimensioni fluttuanti di una realtà parallela dove sogno e pazzia sembrano incontrarsi tra le note assordanti di brani mutuati dalla musica ele-ctronica anglosassone.
Questo non essere attraverso la rilevante componente di auto rendersi un fantasma permette a Ivan Piano di produrre opere estremamente raffinate, concettuali, dove l’atto creativo in tutte le sue parti va a confluire nel proprio ego, quasi a riportare in voga il mito dello specchio che riflette mondi nascosti e misteriosi.
Non ci sono certezze in questo gran tour immaginifico, c’è un attore velato dalla presenza importante del gesto che interviene a mutare un gesto performativo con elementi nuovi “disturbatori” e c’è una realtà inconsistente, inesi-stente che tuttavia si esprime in modo veritiero tra atmosfere dark e suggestioni gotiche riconducibili a quelle di un cult movie come Blade Runner.
Il pensiero cloisonné di un artista ambivalente rinchiude non solo se stesso o la sua auto rappresentazione ma tutte le divagazioni eroiche ed epiche di una generazione cresciuta a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, sfuggendo a una realtà dell’immagine mostrata a tutti i costi per mezzo di un’auto-negazione sfaldando l’usuale ricerca del bello assoluto con il dubbio perimetrale dell’incerto e del travestimento spettrale.
Questo rivelano le opere conturbanti e assolute di Ivan Piano, spirito libero che attraverso un lungo viaggio tra persone e luoghi arriva al perigeo di se stesso con la deformazione , deframmenta-zione della propria immagine per rivelarci un’anima geniale.
Sabrina Raffaghello
___________________________________________________________________________
IVAN PIANO: METAMORPHOSIS FACTORY
la fotografia mi aveva sempre affascinato
in quanto modo di dipingere con la luce
e le sostanze chimiche.
MAN RAY
Ci sono delle volte che guardando il lavoro di un artista si ha come la sensazione dello svolgersi della storia, della partecipazione ad un qualcosa di grande che dura da tempo, e cioè il processo di crescita di un’idea, di un modo di fare le cose che al di là delle singole specificità e declinazioni va a comporre il mosaico di una mentalità contemporanea.
Questo, ci sembra di poter dire con certezza, è quello che avviene con Ivan Piano, perché il suo è un modo di fare arte che ha tutta la freschezza dei suoi soli trent’anni, ma che al medesimo tempo ha la maturità e la consapevolezza di un passato che è stato compreso e fatto proprio, e che non torna mai per essere una semplice citazione o un brano ripreso e fatto circolare, ma che si intravede e che emerge come esperienza. Del resto la maggior parte degli esempi dimostra che i grandi artisti, quelli che hanno saputo vivere davvero il loro tempo, lo hanno fatto anche nella consapevolezza del loro ruolo all’interno di un percorso, anche perché, tra l’altro, per amare il presente bisogna se non amare il passato, almeno averne la curiosità, lo stimolo a considerare le cose non come degli accadimenti isolati ma piuttosto come ad una concatenazione di pensieri e di idee, che nel tempo e grazie a certe menti e a certi personaggi, subiscono delle variazioni che anziché indebolirne la forza, gliene ridanno di nuova.
Approcciarsi all’opera di Ivan Piano significa un po’ respirare questo clima, ma i motivi che lo rendono un grande artista non sono legati solo all’intelligenza dell’approccio concettuale, ma anche ad un impasto di idee e tecniche che rendono il suo lavoro di una intrigante raffinatezza.
Al centro di tutto sembra esserci l’uomo, un uomo, quello di oggi, che deve affrontare non solo la complessità della società in cui vive ma anche la propria, quella dei suoi pensieri e delle reazioni agli eventi, un uomo, insomma, che continua a mettersi in discussione attraverso un incessante processo di metamorfosi. È un po’ come se oggi l’essere umano avesse compreso e accettato che lo stato di incertezza in cui riversa il mondo è proprio anche della mente, e che se generazioni e generazioni hanno avuto timore di tale debolezza, oggi le cose devono andare diversamente, perché questa dovrebbe essere la nostra forza, la scoperta che nulla è scontato, e che tutto può succedere, perché troppe sono le cose che ci condizionano, che ci cambiano, che sconvolgono la nostra personalità. L’uomo oggi è come un fascio di luce di cui si possono identificare infinite particelle diverse, tutte in costante e imperituro movimento, in una continua tensione verso l’infinito, quell’infinito che forse è la conoscenza. Ecco insomma che per crescere bisogna innanzitutto saper guardare, scoprire anche se stessi, mettersi in discussione, provare a dar sfogo a tutti gli stati d’animo, così, allora, vedremo che l’uomo può essere quasi un’apparenza fantasmica, come nella serie Nekromantik, in cui si rivela come uno spettro tra quei pensieri che prendono forma nei graffi, nelle macchie e nelle bruciature con cui l’artista aggredisce la pellicola, rendendola non solo una superficie capace di dipingere l’universo tramite la luce, come ha detto Man Ray, ma facendone un vero e proprio catalizzatore di esperienze e di riflessioni, ma anche di paure e incubi.
Nei trittici B.I./# 1-4 gli importa affermare la propria presenza in maniera più eccentrica, un’eccentricità che in Machete (Play)/# 1-6 giunge quasi alla spavalderia, come a sottolineare il peso di certi gesti o di certi comportamenti in una società massificata e stereotipata come la nostra.
O, ancora, in Believe è un uomo la cui apparenza corporea è sfibrata dagli interventi dell’artista, ma che pare reagire con più forza e affermare una più concreta fisicità rispetto ai Nekromantik, un po’ come se avesse compreso che è dall’aggressività del pensiero che si trae forza vitale, una forza che alle volte può farti diventare un guerriero, come in 100TH Window, oppure un satiro come in Do not disturb/Under the influence
La fotografia, insomma, viene utilizzata da Ivan Piano come rivelatore non tanto di realtà puramente fisiche, ma ha lo scopo di testimoniare la presenza di una complessità, di un processo tale per cui ad emergere è una verità umana in cui corpo e mente dialogano in un vortice di segni, si identificano come verità dialetticamente contrapposte, entrambe suscettibili ai condizionamenti e forti nell’atto della difesa o dell’affermazione del proprio essere.
Ed ecco che detto questo non sono più possibili fraintendimenti, specialmente in riferimento al lavoro di artisti che, come Rainer, hanno unito un’indagine fotografica e una segnica. Del resto infatti negli anni Settanta la volontà di fondo era completamente diversa, il corpo allora veniva sottoposto agli stessi traumi che pennelli e spatole infliggevano alla tela, e gli interventi pittorici sulla fotografia erano funzionali all’accentuazione di questa violenza. Anche Piano aggredisce l’immagine, è vero, ma è impossibile vedere una discendenza diretta dalle esperienze precedenti, e non solo perché le aggressioni non sono pittoriche in senso stretto, ma anche perché l’artista agisce sul negativo, la matrice perfetta, depositaria delle informazioni che la luce, tramite lo scatto, ha trasferito sulla pellicola, fermando su quella superficie un brandello temporale e situazionale circoscritto. La traccia del reale dunque viene stravolta, sfigurata, arricchita di quel valore aggiunto fondamentale che é la forma degli assoluti della mente, realtà impalpabili eppure presenti, le uniche che la luce non riesce a catturare e fissare sulla pellicola. E poi il corpo, per l’artista, è esso stesso parte di questa complessa realtà cerebrale in continua metamorfosi, i suoi uomini, insomma oramai lo sappiamo, partecipano fisicamente a questo processo, vivono una corporalità mutevole, capace di rarefarsi ma anche di apparire volumetrica e plastica. Ma non è tutto qui, perché ad accentuare la percezione di tutti questi aspetti concorre certamente quell’atmosfera particolare che si vive nei lavori dell’artista, un’atmosfera che si fa senso del tempo e dello spazio, nel suo avviluppare non solo le scene ma anche i personaggi, che respirano e vivono quella luce magica e irreale che li catapulta in una ideale dimensione di indefinitezza. Ad essere fondamentale in questo senso è certamente la messinscena, la costruzione teatrale e la teatralizzazione stessa che l’artista attua nella creazione delle sue opere. Eppure, anche in questo caso, non ci si può confondere con le peculiarità della performance classica, perché i contesti in cui lavora Piano sono privati e quindi vengono meno l’intento dimostrativo e il presupposto fondamentale della partecipazione esterna.La finalità, insomma, è la creazione di ambienti fisici e psicologici in cui l’uomo possa liberare se stesso, una liberazione in cui ad avere un ruolo fondamentale proprio per la connotazione magica e misterica di cui si è detto, è la fotografia concepita non solo come mezzo ma anche come catalizzatore di tensioni che si liberano anche tramite quella pozione di immaginario cinematografico e musica electronica che l’artista ascolta quando procede all’aggressione della pellicola.
Ecco allora che le parole di Man Ray citate in apertura trovano nel lavoro di Ivan Piano tutta una nuova attualità: del resto cos’è questa alchimia di componenti se non un nuovo modo di dipingere con la luce e delle inusuali sostanze chimiche?
Elena Forin
15
aprile 2006
Ivan Piano – Metamorphosis Factory
Dal 15 aprile al 20 maggio 2006
fotografia
Location
SABRINA RAFFAGHELLO ARTE CONTEMPORANEA
Ovada, Via Benedetto Cairoli, 42, (Alessandria)
Ovada, Via Benedetto Cairoli, 42, (Alessandria)
Orario di apertura
mercoledì > sabato dalle 10,00 alle12,00 e dalle 16,30 alle 19,30; lunedì-martedì e domenica su appuntamento
Vernissage
15 Aprile 2006, ore 18
Autore
Curatore