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Jacobo Kalifa
Sceglie, Jacobo Kalifa, i colori delle terre, i segni magici dei viaggiatori senza meta, ma che sanno rivedere e riconoscere una potenza espressiva nella loro volontà di fermare il tempo, ed è in questa emozione che Jacobo coglie quelle possibili dimensioni e le porta fuori, per farle rivivere.
Comunicato stampa
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Allungando i pochi passi, con lo sguardo svaniscono gravosi i segni e nell’antro eterno emergono in terrestri tratti, in una melodia blu e tintinni di cetra, lasciando come ignota la scena le pitture di Jacobo Kalifa e dove il sapore errante di un colore dolce e naturale si rarefà in sequenza pittorica.
Una pittura atteggiata, ma al quanto disinvolta e di trasparenza spirituale e dove può forse sembrare quasi un paradosso, nascondendo invece uno stato libero, un ozìum pensante che non si tormenta da qualche profonda contraddizione dove può celarsi un doppio, ma si concentra sul volo, anzi, il sorvolo di quel motivo straordinario che talvolta si riempie di ossessioni del ricordo e del culto degli antenati. Vagheggiano in queste pitture le antiche virtus, la maniera di un tempo privo di valori dove i preziosi segni si riconoscevano al sereno e più dolce colore naturale.
Jacobo Kalifa e un giovane artista messicano, un probabile orientale trasferito in centro america, perché dalla sua pittura non si lascia nascondere quella sua radice mediterranea, anzi riemerge come una scatola magica, come un sibilo che sfiora le corde di una qualche concordanza con il seme e la terra e dove il culto e il mito trascinano il verso nell’ombra blu di modeste astronomie.
I racconti pittorici di Jacobo creano una sostanza struggente, involontaria quasi al di là del tempo, o meglio, in quel tempo ritenuto magico dove l’orlo del sipario radeva il limite del mistero e lasciava danzare su le piazze magie e burlesche caricature di tempi nascosti e di vicende immemorabili. Il tempo di mezzo, quel passaggio senza limiti che dava al tempo un verso incomprensibile, ma dal ciglio lasciava intravedere il fondo della strada, dove inflessibile l’eroe aveva nel cuore una commozione impetuosa. Pitture oscure, quasi dei talismani immersi nel blu e che dal profondo riemergono in trasparenza, carichi di quei lustri e colori e gioielli arcaici che ci illudono nella sentenza del silenzio. Una pittura inconcitata, trascurante di narrazioni ma immediatamente mitica, iconografica, espressa con quel vigore madreperlato che resina la base fino a renderla meditativa, quasi a traslocare da una sostanza all’altra la materia fino a quando non si esalta in comprensione d’immagine e, a quel punto ecco uscire ogni possibile rimembranza evocativa. Le figure, le cose, i magici animali in parte si addobbano di sguardi e di luccichii e, ovunque tranne che nella facile compattezza della trama cromatica che deforma la linea, si sfidano la forma alla velata disputa tra sostanza e evanescenza; auree prive di vento e divini ornamenti senza storia che splendono nel finale della comprensione come una progressione d’effetti e di affetti, in una scena che si investe e si conchiude in un suono lento, con il canto medesimo di cetre e sirene pronte a intonarlo.
Le descrizioni dei quadri di Jacobo Kalifa sono preparate dalla sua poesia, dalla giovane esperienza che lo rende trasversale, rappresentando un’arte diversa, forse fuori dalle correnti, ma sicuramente nell’occhio dell’eroe fanciullo, in contrasto con la sua età e i giochi del bisogno e dell’anima di una fiesta ai confini della terra, ma al centro di un mazzo di sogni.
Una pittura atteggiata, ma al quanto disinvolta e di trasparenza spirituale e dove può forse sembrare quasi un paradosso, nascondendo invece uno stato libero, un ozìum pensante che non si tormenta da qualche profonda contraddizione dove può celarsi un doppio, ma si concentra sul volo, anzi, il sorvolo di quel motivo straordinario che talvolta si riempie di ossessioni del ricordo e del culto degli antenati. Vagheggiano in queste pitture le antiche virtus, la maniera di un tempo privo di valori dove i preziosi segni si riconoscevano al sereno e più dolce colore naturale.
Jacobo Kalifa e un giovane artista messicano, un probabile orientale trasferito in centro america, perché dalla sua pittura non si lascia nascondere quella sua radice mediterranea, anzi riemerge come una scatola magica, come un sibilo che sfiora le corde di una qualche concordanza con il seme e la terra e dove il culto e il mito trascinano il verso nell’ombra blu di modeste astronomie.
I racconti pittorici di Jacobo creano una sostanza struggente, involontaria quasi al di là del tempo, o meglio, in quel tempo ritenuto magico dove l’orlo del sipario radeva il limite del mistero e lasciava danzare su le piazze magie e burlesche caricature di tempi nascosti e di vicende immemorabili. Il tempo di mezzo, quel passaggio senza limiti che dava al tempo un verso incomprensibile, ma dal ciglio lasciava intravedere il fondo della strada, dove inflessibile l’eroe aveva nel cuore una commozione impetuosa. Pitture oscure, quasi dei talismani immersi nel blu e che dal profondo riemergono in trasparenza, carichi di quei lustri e colori e gioielli arcaici che ci illudono nella sentenza del silenzio. Una pittura inconcitata, trascurante di narrazioni ma immediatamente mitica, iconografica, espressa con quel vigore madreperlato che resina la base fino a renderla meditativa, quasi a traslocare da una sostanza all’altra la materia fino a quando non si esalta in comprensione d’immagine e, a quel punto ecco uscire ogni possibile rimembranza evocativa. Le figure, le cose, i magici animali in parte si addobbano di sguardi e di luccichii e, ovunque tranne che nella facile compattezza della trama cromatica che deforma la linea, si sfidano la forma alla velata disputa tra sostanza e evanescenza; auree prive di vento e divini ornamenti senza storia che splendono nel finale della comprensione come una progressione d’effetti e di affetti, in una scena che si investe e si conchiude in un suono lento, con il canto medesimo di cetre e sirene pronte a intonarlo.
Le descrizioni dei quadri di Jacobo Kalifa sono preparate dalla sua poesia, dalla giovane esperienza che lo rende trasversale, rappresentando un’arte diversa, forse fuori dalle correnti, ma sicuramente nell’occhio dell’eroe fanciullo, in contrasto con la sua età e i giochi del bisogno e dell’anima di una fiesta ai confini della terra, ma al centro di un mazzo di sogni.
19
marzo 2011
Jacobo Kalifa
Dal 19 al 28 marzo 2011
arte contemporanea
Location
GALLERIA TANNAZ
Firenze, Via Dell'oche, 9-11r, (Firenze)
Firenze, Via Dell'oche, 9-11r, (Firenze)
Orario di apertura
da lunedì a sabato ore 16-20
Vernissage
19 Marzo 2011, ore 18.00
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