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Jim Hake
incitore del Premio del Pubblico per IoEspongo 7ª edizione con l’opera in terracotta Bagnomaria
Comunicato stampa
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Dall’introduzione al catalogo
Lo sviluppo di tecniche che rendono possibile la riproduzione seriale di oggetti ed immagini sortisce, tra gli altri, un interessante effetto liberatorio sullo statuto dell’arte. La riflessione affrontata da Benjamin alla fine degli anni Trenta del secolo scorso illustra convincentemente le ragioni di quella che viene definita una vera e propria emancipazione: l’opera d’arte, infatti, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, verrebbe sollevata dall’onere schiacciante dell’unicità, liberata dall’aura inanellata dal mito della propria irripetibilità, della propria autenticità. Una tale riflessione rappresenta un vero e proprio spartiacque, un punto zero da cui ripartire attraverso la definizione, per l’arte, di un’estetica e di un’etica altre. Su questo retroterra e sui suoi successivi sviluppi, si innesta il percorso di ricerca che ha portato Jim Hake alla realizzazione dei suoi recenti lavori. Il titolo The joy of repetition, che l’artista stesso sceglie per questa selezione di sculture, contiene un indizio prezioso: il riferimento sembra citare in tono ironico e dissonante l’ideale Pop della serialità dell’arte. Se, infatti, il mito della serializzazione dell’immagine, della sua incondizionata resa al processo irreversibile della reificazione, era stato celebrato dalla cultura Pop a partire dagli anni Sessanta, segnando il progressivo declino della soggettività nell’opera d’arte, l’intento del gesto creativo di Hake sembra volerle restituire l’individualità perduta. Così, ad esempio, in lavori come il Bevitore e Amy, attraverso la riproduzione meticolosa di elementi minimi, l’artista ricostruisce la forma d’insieme, come in una sorta di percorso a ritroso lungo il processo di riduzione e frammentazione tecnica dell’immagine per eccellenza: la digitalizzazione. In questo percorso, due ulteriori caratteristiche del processo produttivo, la lunga durata e la valenza ostentatamente artigianale, sembrano suggerire la messa in discussione di un altro elemento ridefinito in termini cruciali dalla Pop Art: il tempo.
Abbandonata la sua caratteristica di spazio di consumo rapidissimo dell’oggetto-merce e, dunque, di usura dell’opera d’arte, la quarta dimensione, nel lavoro di Jim Hake, rientra in gioco con piena legittimità. Il tempo di realizzazione del lavoro, il tempo dell’artista, ma anche il tempo del fruitore, quello necessario a dedicare la sua piena concentrazione all’esperienza percettiva, torna ad essere uno degli strumenti imprescindibili per costruire la relazione comunicativa tra mittente e destinatario del messaggio artistico. E, tra le maglie di questo messaggio, i singoli elementi combinati in composizioni dalla ricerca cromatica raffinata non rappresentano soltanto dei pixel, degli atomi delle sembianze che vanno a formare. I bicchieri nel Bevitore, i cuori in La collezione, i mezzi busti di I dodici, sono essi stessi portatori di significato: sembrano racchiudere un’informazione minima, una sorta di mappatura genetica dell’immagine complessiva. Non dei comuni moduli, ma dei sememi, unità minime di senso che sembrano portare con sé la chiave di un codice che destabilizza l’osservatore suggerendo di cercare in essi il vero significato, lasciando alla composizione intera il ruolo di significante, di forma che trattiene il suo contenuto.
Ma nel gesto artistico ripetuto che caratterizza il lavoro di Jim Hake esiste un’ulteriore implicazione, un più profondo livello di indagine. Il risultato della reiterazione porta con sé la sembianza umana, rappresentata nel suo complesso o riferita metonimicamente. L’individuo suggerito, che sia il prodotto di una composizione di elementi o esso stesso l’elemento di una “squadra” di stelle omologate della New Economy, tradisce un’ambiguità di fondo. Così come lo stesso calco può riprodurre tipi umani che solo apparentemente si distinguono tra loro, restituendo l’idea della superficialità del processo di individuazione nella società contemporanea, elementi morfologicamente identici possono costruire immagini di volti non univoche, soggette all’infinita gamma di sfumature percettive possibili.
L’identità non è dunque una caratteristica ascrittiva e immutabile nell’universo di individui che popolano le rappresentazioni di Jim Hake. Essi esistono in quanto contrattano la propria identità continuamente con l’osservatore, rivelando il processo di individuazione in tutta la sua complessità.
L’azione del ripetere si carica allora di una valenza finale funzionale alla ricezione del messaggio, del suo contenuto; funzionale, infine, alla comunicazione. Ogni azione reiterata diventa per l’opera occasione di approfondimento, di discussione, di approssimazione alla verità. Che è poi l’immagine costruita collettivamente, quella che tiene in sé l’intera gamma delle immagini percepite.
Diletta Benedetto
Lo sviluppo di tecniche che rendono possibile la riproduzione seriale di oggetti ed immagini sortisce, tra gli altri, un interessante effetto liberatorio sullo statuto dell’arte. La riflessione affrontata da Benjamin alla fine degli anni Trenta del secolo scorso illustra convincentemente le ragioni di quella che viene definita una vera e propria emancipazione: l’opera d’arte, infatti, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, verrebbe sollevata dall’onere schiacciante dell’unicità, liberata dall’aura inanellata dal mito della propria irripetibilità, della propria autenticità. Una tale riflessione rappresenta un vero e proprio spartiacque, un punto zero da cui ripartire attraverso la definizione, per l’arte, di un’estetica e di un’etica altre. Su questo retroterra e sui suoi successivi sviluppi, si innesta il percorso di ricerca che ha portato Jim Hake alla realizzazione dei suoi recenti lavori. Il titolo The joy of repetition, che l’artista stesso sceglie per questa selezione di sculture, contiene un indizio prezioso: il riferimento sembra citare in tono ironico e dissonante l’ideale Pop della serialità dell’arte. Se, infatti, il mito della serializzazione dell’immagine, della sua incondizionata resa al processo irreversibile della reificazione, era stato celebrato dalla cultura Pop a partire dagli anni Sessanta, segnando il progressivo declino della soggettività nell’opera d’arte, l’intento del gesto creativo di Hake sembra volerle restituire l’individualità perduta. Così, ad esempio, in lavori come il Bevitore e Amy, attraverso la riproduzione meticolosa di elementi minimi, l’artista ricostruisce la forma d’insieme, come in una sorta di percorso a ritroso lungo il processo di riduzione e frammentazione tecnica dell’immagine per eccellenza: la digitalizzazione. In questo percorso, due ulteriori caratteristiche del processo produttivo, la lunga durata e la valenza ostentatamente artigianale, sembrano suggerire la messa in discussione di un altro elemento ridefinito in termini cruciali dalla Pop Art: il tempo.
Abbandonata la sua caratteristica di spazio di consumo rapidissimo dell’oggetto-merce e, dunque, di usura dell’opera d’arte, la quarta dimensione, nel lavoro di Jim Hake, rientra in gioco con piena legittimità. Il tempo di realizzazione del lavoro, il tempo dell’artista, ma anche il tempo del fruitore, quello necessario a dedicare la sua piena concentrazione all’esperienza percettiva, torna ad essere uno degli strumenti imprescindibili per costruire la relazione comunicativa tra mittente e destinatario del messaggio artistico. E, tra le maglie di questo messaggio, i singoli elementi combinati in composizioni dalla ricerca cromatica raffinata non rappresentano soltanto dei pixel, degli atomi delle sembianze che vanno a formare. I bicchieri nel Bevitore, i cuori in La collezione, i mezzi busti di I dodici, sono essi stessi portatori di significato: sembrano racchiudere un’informazione minima, una sorta di mappatura genetica dell’immagine complessiva. Non dei comuni moduli, ma dei sememi, unità minime di senso che sembrano portare con sé la chiave di un codice che destabilizza l’osservatore suggerendo di cercare in essi il vero significato, lasciando alla composizione intera il ruolo di significante, di forma che trattiene il suo contenuto.
Ma nel gesto artistico ripetuto che caratterizza il lavoro di Jim Hake esiste un’ulteriore implicazione, un più profondo livello di indagine. Il risultato della reiterazione porta con sé la sembianza umana, rappresentata nel suo complesso o riferita metonimicamente. L’individuo suggerito, che sia il prodotto di una composizione di elementi o esso stesso l’elemento di una “squadra” di stelle omologate della New Economy, tradisce un’ambiguità di fondo. Così come lo stesso calco può riprodurre tipi umani che solo apparentemente si distinguono tra loro, restituendo l’idea della superficialità del processo di individuazione nella società contemporanea, elementi morfologicamente identici possono costruire immagini di volti non univoche, soggette all’infinita gamma di sfumature percettive possibili.
L’identità non è dunque una caratteristica ascrittiva e immutabile nell’universo di individui che popolano le rappresentazioni di Jim Hake. Essi esistono in quanto contrattano la propria identità continuamente con l’osservatore, rivelando il processo di individuazione in tutta la sua complessità.
L’azione del ripetere si carica allora di una valenza finale funzionale alla ricezione del messaggio, del suo contenuto; funzionale, infine, alla comunicazione. Ogni azione reiterata diventa per l’opera occasione di approfondimento, di discussione, di approssimazione alla verità. Che è poi l’immagine costruita collettivamente, quella che tiene in sé l’intera gamma delle immagini percepite.
Diletta Benedetto
29
maggio 2007
Jim Hake
Dal 29 maggio al 14 giugno 2007
arte contemporanea
Location
SPAZIO AZIMUT
Torino, Piazza Palazzo Di Cittá, 8, (Torino)
Torino, Piazza Palazzo Di Cittá, 8, (Torino)
Orario di apertura
dal lunedì al sabato dalle 14 alle 18.30 o su prenotazione
Vernissage
29 Maggio 2007, ore 18.30
Autore