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John McCracken – Retrospettiva
La retrospettiva di McCracken al Castello di Rivoli, realizzata con il contributo della Fondazione CRT, è sviluppata in stretta collaborazione con l’artista e presenta circa sessanta lavori storici a partire dalle prime tele degli anni Sessanta, esposte per la prima volta al pubblico.
Comunicato stampa
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Il Castello di Rivoli organizza e propone la prima retrospettiva in un museo europeo dell’artista americano John McCracken (Berkeley, California, 1934. Vive e lavora a Santa Fe, Nuovo Messico).
Tra i maggiori esponenti storici del Minimalismo americano insieme a Donald Judd, Carl Andre, Dan Flavin e altri, John McCracken vede l’arte come mezzo per una esperienza contemplativa spirituale alta e misteriosa, e i suoi lavori come prototipi di un mondo a venire in cui regna assoluta bellezza. Convinto che l’arte, risvegliando la conoscenza e arricchendo le nostre vite, possa dare forma ai misteri della vita e alle leggi insondabili dell’universo, McCracken, attraverso l’unicità della sua visione artistica, rivela la vera complessità di quello che genericamente chiamiamo Minimalismo.
L’artista è divenuto noto per ciò che egli definisce “blocchi, lastre, colonne, assi. Belle forme basilari, forme neutre.” Il punto di partenza per tali “forme neutre” è l’oggetto minimalista o la struttura primaria come il cubo o la tavola. Eseguite in legno compensato e successivamente ricoperte di fibra di vetro e resina di poliestere, declinate in colori vividi, le forme neutre si trasformano in un oggetto che coniuga le tendenze anti-illusionistiche del Minimalismo con i colori dell’industria automobilistica e con l’idea di uno spazio mentale e immateriale. Noto soprattutto per le proprie sculture, McCracken in seguito evolve il proprio lavoro a partire dai dipinti della serie Mandala degli anni Settanta, opere che hanno portato la critica a confrontarsi in modo inedito con la sua produzione artistica.
L’opera di McCracken può essere oggi analizzata in un’ottica nella quale le categorie dell’arte minimale vengono rivisitate per lasciar spazio a nuovi campi concettuali, ad esempio l’incontro con ciò che l’artista chiama “la presenza” e la speculazione teorica sullo spazio. Il lavoro dell’artista americano negli ultimi anni è apparso in molte rassegne collettive non legate alla corrente del Minimalismo ma dedicate bensì ai temi più svariati: dallo psichedelico alla vita extraterrestre o ai rapporti tra arte e design.
La retrospettiva di McCracken al Castello di Rivoli, realizzata con il contributo della Fondazione CRT, è sviluppata in stretta collaborazione con l’artista e presenta circa sessanta lavori storici a partire dalle prime tele degli anni Sessanta, esposte per la prima volta al pubblico, le sculture bicrome della metà degli anni Sessanta come Theta-Two e Mykonos, la prima Plank realizzata dall’artista nel 1966, Red Plank, fino ai dipinti della serie Mandala degli anni Settanta, insieme a lavori più recenti come Wonder e Fair, entrambi del 2010, due sculture realizzate dall’artista appositamente per questa mostra.
Curata da Andrea Bellini, co-direttore del Castello di Rivoli e allestita nel grande spazio della Manica Lunga, la mostra segna l’inizio di una serie di retrospettive che il museo dedicherà a figure chiave dell’arte contemporanea.
Pubblicato per i tipi di SKIRA, il catalogo della rassegna, curato da Andrea Bellini e Marianna Vecellio, include nuovi saggi di Andrea Bellini, Alex Farquharson, direttore del museo Nottingham Contemporary a Nottingham in Inghilterra e Marc-Olivier Wahler, direttore del Palais de Tokyo a Parigi; una nuova intervista realizzata all’artista da Marianna Vecellio e una conversazione su McCracken tra Daniel Baumann e l’artista John Armleder.
Oltre alle immagini dei più importanti lavori creati da McCracken a partire dagli anni Sessanta, il catalogo presenta una selezione di disegni dai taccuini dell’artista e, per la prima volta, una cronologia dettagliata delle mostre.
La pubblicazione include inoltre un’ampia antologia con testi di Brooks Adams, Roger M. Buergel, Dan Cameron, Frances Colpitt, John Coplans, Donna DeSalvo, Lucy R. Lippard, Jane Livingstone, Kynaston McShine, David Pagel, Peter Plagens, Merle Schipper, Barbara Rose, Harold Rosenberg, Angela Vettese, A. M. Wade, Emily Wassermann, Nicolas Wilder, Eva Wittocx, Adachiara Zevi e dell’artista.
Lunedì 21 febbraio 2011, alle ore 18.00, nel Teatro del museo si terrà la conferenza inaugurale della mostra John McCracken dal titolo Phenomenal: Light as a Primary Medium for Art in Los Angeles, circa 1960-1980.
L’incontro, aperto al pubblico, è a cura di Robin Clark, curatrice al Museum of Contemporary Art di San Diego.
Robin Clark è curatrice al Museum of Contemporary Art di San Diego, dove con il Direttore del MCASD Hugh M. Davies sta organizzando la mostra Phenomenal: California Light and Space.
Phenomenal, sarà presentata nell’autunno del 2011 in tutte le tre sedi del MCASD nell’ambito dell’iniziativa regionale Pacific Standard Time: Art in Los Angeles, 1945-1980 promossa dalla Getty Foundation. In occasione della rassegna, Clark sta curando la prima raccolta critica sul tema che sarà co-pubblicata dal MCASD e dalla University of California Press. Clark ha curato Automatic Cities: The Architectural Imaginary in Contemporary Art (2009), nel cui ambito sono stati esposti nuovi lavori di quattordici artisti internazionali. In occasione della mostra è stato pubblicato un catalogo con saggi di Clark e Giuliana Bruno, Professor of Visual and Environmental Studies alla Harvard University. Clark ha inoltre curato le installazioni site-specific di Ann Lislegaard e Sebastian Hungerer & Rainer Kehres per la Pulitzer Foundation for the Arts di St. Louis (2008) ed ha pubblicato un saggio nel catalogo Danskjävlar realizzato per la mostra inaugurale del Kunsthal Charlottenborg di Copenhagen (2008). Prima di trasferirsi al MCASD, Clark è stata curatrice al Saint Louis Art Museum dove ha organizzato, tra le altre, le personali di Tara Donovan, Ellen Gallagher, Isaac Julien, Julie Mehretu, Roxy Paine, Neo Rauch, e Matthew Ritchie. Clark ha conseguito il Dottorato in Storia dell’Arte presso il CUNY Graduate Center, un Master of Arts presso la Boston University e un Bachelor of Arts presso lo Smith College.
Ufficio Stampa Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
T. +39.011.9565209 – 211, F. +39.011.9565231, M. +39.3387865367
E. press@castellodirivoli.org, s.bertalot@castellodirivoli.org
Materiali stampa e immagini sono scaricabili dalla cartella JOHN MCCRACKEN presente sul nostro server ftp http://www.selektaweb.com/cgi-bin/ftp/index.cgi
[user: rivoliftp02, password: rivoli02].
REGIONE PIEMONTE FONDAZIONE CRT CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI TORINO CITTA’ DI TORINO GRUPPO UNICREDIT
Biografia
John McCracken nasce a Berkeley, California, il 9 dicembre 1934. Prima di iscriversi al California College of Arts and Crafts (CCAC) a Oakland, dove studia pittura dal 1957 al 1965, lavora come operatore sonar su una nave dragamine militare.
Nel 1962, l’artista realizza oggetti scultorei creati dall’assemblaggio di rifiuti e detriti e produce al tempo stesso dipinti a olio su tela, come Cathedral, 1962, Look, 1962, e Bandolier, 1962, che combinano l’elemento geometrico astratto con l’immaginario e la narrazione surrealista e che rivelano il suo interesse verso artisti di matrice modernista quali Stuart Davis e Gordon Onslow Ford, quest’ultimo insegnante al College of Arts and Crafts a Oakland.
Nel 1964, partecipa alla sua prima mostra collettiva al Richmond Art Center a Richmond, California, in occasione della quale espone una serie di dipinti e disegni geometrici come Painting 05 del 1963 e Untitled del 1964, che mostrano l’allontanamento dalla narrazione espressionista e anticipano la sintesi formale che affronterà con la riduzione minimalista e la scultura negli anni a venire. Gli elementi grafici dei quadri di questi anni sembrano ridursi e asciugarsi in una serie di segni, frecce, cerchi e croci, accentuati dal contrasto cromatico tra lo sfondo e la traccia in primo piano.
Nel 1964 con l’opera a parete in lacca e legno Slate, avviene il passaggio dalla produzione pittorica a quella scultorea e l’avviarsi, da parte dell’artista, a una vasta produzione di opere in lacca e legno e successivamente in fibra di vetro e compensato, dal forte accento cromatico. Nel giugno del 1965, McCracken tiene la sua prima mostra personale alla Nicholas Wilder Gallery a Los Angeles, dove espone le sculture bicrome in lacca, fibra di vetro e compensato come Le Marquis, 1965, Shogun, 1965 e Theta-One, 1965. Le opere sono blocchi composti da forme basilari e neutre, il colore delle quali diventa materia strutturale.
La mostra alla Wilder Gallery mette in evidenza il lavoro di McCracken e gli vale l’inclusione, l’anno successivo, nella collettiva Five Los Angeles Sculptors, curata da John Coplans presso la Art Gallery University of California, Irvine. In occasione della rassegna l’artista espone Yellow Pyramid e Blue Post and Lintel I, opere del 1965, che esprimono la relazione con il linguaggio e lo spazio architettonico. Il lavoro di McCracken viene letto – nell’ambito della scuola californiana - accanto a quello di artisti come Larry Bell, Kenneth Price, Tony DeLap e David Gray i quali, nonostante non condividano un approccio programmatico comune, si distinguono per una manualità ricercata e la scelta dell’uso di materiali moderni; aspetti che conferiranno loro l’appellativo di Finish Fetish.
La bicromia è territorio di passaggio e l’artista avvia, a partire dal 1966, la realizzazione di opere monocrome che riducono il loro impatto nella forza della loro specificità oggettuale. Il punto di partenza per tali “forme neutre” è l’oggetto minimalista o la struttura primaria come il cubo o il parallelepipedo. Eseguite in legno compensato e successivamente ricoperte di fibra di vetro e resina di poliestere declinati in colori vividi, le forme neutre si trasformano in un oggetto che coniuga le tendenze anti-illusioniste dell’arte minimale con i colori dell’industria automobilistica e con l’idea di uno spazio mentale e immateriale.
Il 1966 è l’anno della consacrazione minimalista di McCracken, con la partecipazione dell’artista a mostre di rilievo come Primary Structures, tenutasi al Jewish Museum di New York. In questa occasione il curatore, Kynaston McShine, pubblica un’analisi dettagliata del lavoro di McCracken nel contesto del Minimalismo e della Land Art. Nello stesso anno, si tiene alla Robert Elkon Gallery la prima mostra personale dell’artista a New York, in occasione della quale vengono esposti i Block (Blocchi) e le Slabs (Lastre), oggetti
geometrici monocromi come l’opera Violet Block in Two Parts e Brown Block in Three Parts, entrambe del 1966.
La riduzione spinge l’artista a sperimentare materiali e forme semplici e a individuare nella Plank (Asse), tavola di compensato o legno appoggiata alla parete, il territorio di coesistenza tra la presenza individuale e definita del corpo scultoreo e lo spazio reale circostante. Nel 1967, McCracken presenta una serie delle sue Planks alla Robert Elkon Gallery a New York e, successivamente, alla Nicholas Wilder Gallery di Los Angeles. In questi anni il lavoro dell’artista è proposto in grandi retrospettive di arte americana: American Sculpture of the Sixties al Los Angeles County Museum; A New Aesthetic alla Washington Gallery of Modern Art e The Art of The Real: USA 1948-1968 al MoMA di New York.
Se fino ad allora l’artista risiede a Venice, in California, a partire dal 1968 si trasferisce a New York dove rimarrà per lunghi periodi fino al 1972, grazie anche all’attività di insegnamento condotta sia presso la School of Visual Art (1968-69) sia presso l’Hunter College (1971-72), entrambe scuole newyorchesi.
Il 1969 si apre con la prima mostra personale dell’artista in un museo, presso la Art Gallery of Ontario, Canada. A questa segue la rassegna personale che gli viene dedicata dalla galleria parigina di Ileana Sonnabend.
In quel periodo McCracken si concentra sulla forma dell’asse e sulle sue variazioni: approfondisce la Plank come oggetto seriale, antropomorfizzato, sorta di autoritratto, finestra o sistema di comunicazione con l’alterità, fino a renderla forma simbolica e passaggio verso i Monoliths (Monoliti) degli anni Ottanta.
Negli anni Settanta l’artista vede affievolirsi il confronto critico internazionale; le mostre si riducono sensibilmente e si apre un periodo di isolamento creativo, di ricerca privata, scandita anche da un ritorno alla pittura. McCracken insegna presso la University of Nevada di Reno (1972-73) e successivamente presso quella di Las Vegas (1973-75) ed espone in quegli anni, pur mantenendo un costante rapporto con la galleria newyorchese di Robert Elkon, prevalentemente negli spazi espositivi dei campus universitari. Nel frattempo la sua ricerca sembra abbandonare la spinta riduzionista per abbracciare l’universo espressivo e meno neutro del linguaggio pittorico. Realizza prima una serie di Mandala, oli su tela raffiguranti cerchi concentrici, e quindi una serie di quadri con motivi astratti quali Abritaine, Ophirin entrambi del 1972. In questi, McCracken esprime la relazione con nuovi oggetti d’indagine come l’infinto e la psichedelia, i linguaggi dei Nativi d’America, l’energia, la spiritualità e la dimensione interiore. L’artista, pur risiedendo in Nevada, spinto da impegni professionali verso la fine degli anni Settanta si reca in California dove avvia, a partire dal 1978, la collaborazione con diverse gallerie anticipando di fatto il proprio rientro definitivo in California negli anni Ottanta.
Anche la produzione scultorea è il prodotto di un’osmosi con la pittura: sebbene l’artista produca una serie di sculture monocrome orizzontali a parete, le Planks si colorano di motivi decorativi che spostano l’attenzione dall’idea dell’opera alla sua superficie.
Il 1986 è l’anno del rilancio dell’artista presente in due importanti mostre: la Biennale di Venezia e la mostra personale Heroic Stance: The Sculpture of John McCracken 1965-1986, progetto itinerante organizzato dal P.S.1 e curato da Edward Leffingwell.
La fine degli anni Ottanta vede l’artista concentrarsi sulla produzione di una nuova serie di opere scultoree in fibra di vetro e compensato e in acciaio inossidabile: i Monoliths.
La nuova serie di opere e le due mostre del 1986 riportano attenzione sull’attività dell’artista a cui vengono dedicate alcune importanti rassegne: nel 1989, McCracken partecipa alla mostra Geometric Abstraction and Minimalism in America al Solomon R. Guggenheim Museum di New York e una selezione di nuove sculture sono installate alla
Galerie Konrad Fischer a Düsseldorf.
Nel 1991, le sue opere vengono incluse nella mostra Finish Fetish: L.A.’s Cool School alla University of Southern California, dove la curatrice Francis Colpitt evidenzia le attività del gruppo di Los Angeles. L’anno successivo, McCracken ha una mostra personale presso la Sonnabend Gallery a New York e, nel 1993, alla L.A. Louver Gallery di Los Angeles. Nel 1994, le nuove sculture dell’artista sono presentate in due mostre personali alla galleria L.A Louver a Venice in California e alla Galerie Art & Public a Ginevra, e l’anno successivo alla Hochschule für Angewandte Kunst a Vienna.
Nel 1995 una selezione di nuove sculture è presentata in Painting Outside Painting: 44th Biennial Exhibition of American Painting alla Corcoran Gallery of Art a Washington, D.C.
Nel 1997, la Lisson Gallery di Londra apre una grande mostra personale di lavori dal 1965 al 1990, e David Zwirner di New York inaugura John McCracken: Sculture, progetto analogo che raccoglie opere storiche dell’artista. Lo stesso anno le opere dell’artista sono esposte nell’ambito di Sunshine e Noir: Art in L.A. 1960-1997, mostra itinerante organizzata dal Louisiana Museum of Modern Art a Humlebaek, Danimarca e presentata anche al Castello di Rivoli nel 1998. McCracken partecipa inoltre a View from Abroad: European Perspectives on American Art; 3 American Realities, curata da Adam D. Weinberg e Nicholas Serota al Whitney Museum of American Art.
Nel 1998, la galleria Studio La Città di Verona presenta al pubblico italiano opere recenti di McCracken nell’ambito della sua prima ampia personale nel nostro Paese, seguita dalla rassegna presso la galleria A Arte Studio Invernizzi a Milano, dove l’artista espone opere degli anni Novanta.
Nel 1999, i primi lavori realizzati da McCracken sono inclusi in diverse mostre collettive come The Museum: Highlights from the Collection; an Archive of the Pasadena Art Museum; Radical Part: Contemporary Art & Music in Pasadena, 1960-1974, al Norton Simon Museum of Art, Pasadena, e in The American Century: Art and Culture Part II: 1950-2000 al Whitney Museum of American Art. Si tengono inoltre mostre personali alla James Kelly Contemporary, Santa Fe e alla galleria Hauser & Wirth di Zurigo.
Negli anni seguenti vengono realizzate mostre che includono sia la produzione storica dell’artista sia i nuovi lavori: Made in California: Art, Image, and Identity, 1900-2000, Los Angeles County Museum of Art nel 2000, Les anneées 70: l’art en cause, CAPC Musée d’art contemporain de Bordeaux nel 2002, Primary Matters: The Minimalist Sensibility, 1959 to Present, San Francisco Museum of Modern Art, nel 2003.
A partire dal 2004 il lavoro di McCracken è presentato in una serie di mostre internazionali come Singular Forms (Sometimes Repeated): Art From 1951 to the Present, Solomon R. Guggenheim Museum, New York e A Minimal Future? Art as Object 1958-1968, Museum of Contemporary Art, Los Angeles and in Beyond Geometry. Experiments in Form, 1940s-1970s, Los Angeles County Museum of Art Los Angeles; in una mostra personale allo S.M.A.K. di Gand e in Los Angeles, 1955-1985. Naissance d’une capitale artistique, presso il Centre Georges Pompidou a Parigi.
Nel 2007 una selezione di opere è inclusa in documenta 12, Kassel curata da Roger Buergel e Ruth Noack. L’anno seguente, il lavoro dell’artista viene esposto nella mostra John McCracken, alla Inverleith House, Royal Botanic Garden a Edimburgo.
Nel 2010 David Zwirner gli dedica una mostra personale incentrata sui lavori in bronzo e acciaio.
La mostra
La rassegna, appositamente concepita per i grandi spazi della Manica Lunga del Castello di Rivoli, copre l’intero arco della produzione artistica di John McCracken, leggendario esponente del minimalismo West Coast.
La mostra segue tendenzialmente un percorso cronologico attraverso un allestimento ideato personalmente dall’artista e dal curatore. Attraverso il percorso allestito nel singolare ambiente castellamontiano del museo, vengono scanditi i passaggi e le diverse fasi della ricerca dell’artista, sottolineandone in tal modo le differenze, come anche la straordinaria coerenza.
La mostra si apre con una prima sezione dedicata ai lavori pittorici, mentre una seconda parte è dedicata alle opere bidimensionali derivate dai lavori precedenti, ossia le prime sculture e i primi oggetti dell’artista, alcuni dei quali richiamano elementi architettonici arcaici o egizi. Seguono un’ importante serie delle celebri Planks e un’intera sezione dedicata ai Mandala. La rassegna si conclude quindi con le opere degli ultimi anni che includono, tra le altre, sculture a parete e alcuni monoliti.
Il percorso espositivo si apre e si chiude virtualmente con due imponenti ed emblematiche opere inedite in acciaio specchiante, Wonder e Fair entrambe del 2010, realizzate appositamente per la retrospettiva al Castello di Rivoli.
Opere in mostra
Cathedral (Cattedrale), 1962, olio su tela, 61 x 91,4 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Look (Sguardo), 1962, olio su tela, 36,1 x 37,3 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Bandolier (Bandoliera), 1962, olio su tela, 62,2 x 67,8 cm, Collezione privata, courtesy l’artista
Painting 03 (Quadro 03), 1963, olio su tela, 44 x 46,4 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Painting 05 (Quadro 05), 1963, acrilico su tela, 55,9 x 55,9 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Theta-Two (Teta due), 1965, lacca, fibra di vetro, legno, 53,3 x 55,9 x 19 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Mykonos, 1965, lacca, fibra di vetro, compensato, 38,1 x 41,9 x 17,8 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione Betty Asher, courtesy l’artista
Blue Post and Lintel I (Pilastro e architrave blu I), 1965, lacca, fibra di vetro, compensato, 259 x 81,28 x 43,18 cm, Norton Simon Museum of Art, Pasadena, donazione Frederick R. Weisman e Signora Weisman, courtesy l’artista
Untitled (Blue Block) (Senza titolo-blocco blu), 1966, lacca, fibra di vetro, compensato, 27,9 x 31 x 18 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Red Block) (Senza titolo-blocco rosso), 1966, lacca, fibra di vetro, compensato, 20,3 x 27,9 x 25,4 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Green Block) (Senza titolo-blocco verde), 1966, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 31,1 x 18,4 x 27,9 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Brown Block in Three Parts (Blocco marrone in tre parti), 1966, lacca, legno, 3 elementi, dimensioni totali, 88,9 x 95,25 x 35,56 cm, Collezione Mireille Mosler, Long Island City, courtesy l’artista
Red Plank (Asse rossa), 1966, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 243,8 x 29,2 x 2,5 cm, Collezione Frank e Berta Gehry, courtesy l’artista
Think Pink (Pensiero positivo), 1967, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 266,7 x 46,4 x 8 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York e Hauser & Wirth, Londra e Zurigo
Yellow Plank (Asse gialla), 1968, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 238,8 x 36,2 x 3,2 cm, Berlant Family Collection, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Untitled (Senza titolo), 1970, resina di poliestere, compensato, 129,7 x 129,7 x 6,5 cm, courtesy Friedrich Christian Flick Collection im Hamburger Bahnhof
Kapai, 1970, acrilico su tela, 40,6 x 40,6 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Red) (Senza titolo-rosso), 1971, acrilico su tela, dimensioni, Collezione privata, courtesy Franklin Parrasch Gallery, New York
Untitled (Black) (Senza titolo-nero), 1971, acrilico su tela, dimensioni, Collezione privata, courtesy Franklin Parrasch Gallery, New York
Untitled (Blue) (Senza titolo-blu), 1971, acrilico su tela, dimensioni, Collezione privata, courtesy Franklin Parrasch Gallery, New York
Red Cube (Cubo rosso), 1971, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 40,6 x 40,6 x 40,6 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione Avco Financial Services, Newport Beach, California
Tantric (Tantrico), 1971, acrilico su tela, 40,6 x 40,6 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Senza titolo), 1971, acrilico su tela, 61 x 61 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Ophirin, 1972, olio su tela, 76,1 x 76,1 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Abritaine, 1972, olio su tela, 76,1 x 76,1 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala I, 1972, [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala II, 1972, [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala VII, 1972 [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala VIII, 1972 [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Red Pyramid (Piramide rossa), 1974, resina di poliestere, legno, 25,4 x 40,6 x 40,6 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione Mr. e Mrs. M. A Gribin
Untitled (Senza titolo), 1974, lacca, legno, 243,8 x 48,3 x 5,7 cm, Collezione Museum of Contemporary Art San Diego, donazione promessa da Ruth Gribin Non-Exempt Q Tip Marital Trust
Black Resin Painting 1 (Quadro resina nera I), 1974, resina di poliestere, legno, 81,9 x 122,6 x 5,4 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione di Mr. e Mrs. M.A. Gribin, California
Untitled (Senza titolo), 1974, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 237,5 x 45,2 x 5,1 cm, Collezione Privata, Germania, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Untitled #3 (Senza titolo n. 3), 1974, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 82,5 x 122,5 cm, Collezione Privata, Germania, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Pyramid (Piramide), 1976, acrilico, legno, 30,5 x 40,6 x 40,6 cm, Collezione Museum of Contemporary Art San Diego, donazione John Norton
Untitled (Senza titolo), 1983, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 274,3 x 6,4 x 5,8 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Untitled #V (Senza titolo n. V), 1985, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 294,7 x 63,5 cm, Collezione Vanmoerkerke, Belgio
Irydi, 1987, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 79 x 305 x 10 cm, Heinz Peter Hager, Bolzano, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Alpha I (Alfa I), 1988, acciaio inossidabile, 38 x 24 x 35 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Mandrake, 1989, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 244 x 58,5 x 50,5 cm, Collezione Dr. Klaus Lafrenz, Wesenburg Museum für Moderne Kunst, Bremen
Minnesota, 1989, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 244 x 69 x 43 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Thor, 1990, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 228 x 81 x 50 cm, Vanmoerkerke Collection, Belgio
Rama, 1990, pittura, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 12 x 244 x 13 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Ra, 1991, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 53,98 x 584,2 x 35,56 cm, L.A. Louver
Spaceway, 1991, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 19,1 x 269,2 x 34,3 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Alaska, 1991, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 40 x 128,5 x 23 cm, Collezione Musée de Grenoble, Grenoble
Guardian (Guardiano), 1995, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 114,8 x 121,9 x 40,16 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
On Stream (Energia), 1998, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 129 x 33,5 x 18,5 cm, courtesy Studio la Città, Verona
On High (Euforia), 1998, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 49,5 x 150,5 x 30 cm, courtesy Studio la Città, Verona
On the Go (In moto), 1998, resina poliestere, fibra di vetro, compensato, 93 x 127,5 x 28 cm, courtesy Studio la Città, Verona
On the Beam (Sul raggio di luce), 1998, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 45 x 77, 5 x 22,5 cm, courtesy Studio la Città, Verona
Burst (Scoppio), 2000, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 11,5 x 122 x 14 cm, Collezione Privata, Germania, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Aqua (Acqua), 2002, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 234 x 36 x 109,5 cm, Collezione Vanmoerkerke, Belgio
Cosmos (Cosmo), 2008, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 8 elementi, dimensioni totali 243,8 x 315 x 34,3 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Opere inedite appositamente realizzate per la mostra
Wonder, 2010, acciaio, 294,6 x 45,7 x 35,6 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Fair, 2010, acciaio, 294,6 x 43,2 x 36,8 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Dai testi in catalogo
UN MASSIMALISTA DEL MINIMALISMO
Andrea Bellini
Il termine “minimalismo”, mai definito con precisione, fa genericamente riferimento a un movimento artistico apparso a New York e Los Angeles durante gli anni Sessanta. I suoi maggiori rappresentanti, come Carl Andre, Dan Flavin, Donald Judd, Sol LeWitt, Robert Morris, John McCracken e Larry Bell, praticano principalmente la scultura, realizzando forme geometriche singole, oppure in serie, secondo una logica modulare. Prodotte spesso in ambito industriale, grazie all’ausilio di nuove tecnologie e di una manodopera specializzata, le opere minimaliste non recano traccia alcuna di emozione e intuizione, aspetto invece centrale nel contesto della scultura e della pittura espressionista astratta degli anni Quaranta e Cinquanta. L’opera minimalista, realizzata di preferenza con materiali industriali, rinvia alla sua presenza letterale, è un oggetto geometricamente definito, caratterizzato dal rigore esecutivo, dall’assenza di decorazione e di qualsiasi riferimento allegorico. Nonostante questi generici presupposti, sottolineati già nel 1965 dal filosofo americano Richard Wollheim, che coniò il termine “minimalismo”, gli artisti minimalisti non hanno mai redatto un vero e proprio “manifesto” sul modello delle avanguardie storiche. Al contrario essi hanno sempre rifiutato l’idea di un movimento coerente, considerando le proprie pratiche non solo molto diverse, ma spesso tra loro contraddittorie.
Il caso di McCracken in questo senso è emblematico: il suo lavoro esprime un carattere fondamentalmente scismatico ed eterodosso, rispetto a quelli che sono genericamente considerati gli assunti di base di questa corrente artistica. Quando l’artista, a partire dal 1964, ha cominciato a esporre i suoi lavori, la critica ha incoraggiato una certa lettura della sua opera, senza indagare in profondità le ragioni interne e il significato originale della sua ricerca. Si trattava insomma, per promuovere il nuovo movimento, di mettere in evidenza gli elementi comuni piuttosto che le differenze tra i diversi artisti. Questo atteggiamento ha contribuito da un lato al rapido successo mediatico del gruppo, dall’altro all’uscita di scena, altrettanto rapida, di quelle personalità percepite subito come irregolari e, in qualche modo, bizzarre. Dopo aver partecipato, tra il 1965 e il 1971, alle mostre più importanti dedicate al movimento, McCracken entra gradualmente in un limbo di dimenticanza per circa un quindicennio.
Negli ultimi anni l’attenzione per il suo lavoro nasce da una nuova percezione del significato della sua ricerca, e in generale dell’arte californiana. Le ragioni per le quali il Finish Fetish1 è tornato oggi al centro dell’interesse della critica sono diverse. Già a partire dalla metà degli anni Ottanta2 si è cominciato a vederlo come una pratica minimalista meno ideologizzata e quindi più aperta e visionaria rispetto a quello della East Coast. Una nuova generazione di critici e di curatori, sia americani sia europei, ha iniziato a guardare con curiosità al suo stretto legame con la cultura e con la luce della California del sud, con gli anni Sessanta, la street culture, la fantascienza e le nuove tecnologie. I lavori di McCracken in particolare, appaiono sempre più spesso in mostre che esulano dal contesto dell’arte minimalista. L’artista americano ha recentemente partecipato con diverse sculture, dipinti e disegni a documenta 12 a Kassel (2007), e a molte altre esposizioni dedicate ai temi più diversi, come la psichedelia, gli Ufo o il design. […]
Il suo lavoro, come si vuole dimostrare con questa retrospettiva e con il presente catalogo, esprime una complessità debordante rispetto alla nostra comune nozione di “oggetto minimale”; per questa ragione si presta a essere inserito in contesti espositivi molto
diversi. Lo scopo, tuttavia, non è quello di offrire una lettura “alternativa”, non minimalista, della sua arte: McCracken rimane indubbiamente uno dei maggiori esponenti storici del movimento americano, insieme a Judd, Andre, Flavin, Anne Truitt, Morris, Bell e altri. Semmai è necessario, al fine di una sua corretta comprensione, allargare il nostro orizzonte teorico del Minimalismo, cogliendone – accanto al suo preteso empirismo radicale – quello che potremmo definire il suo lato più misterioso ed enigmatico.
Quando, intorno ai primi anni Sessanta, McCracken vede per la prima volta sulle riviste d’arte le opere di Judd e Andre ne rimane subito impressionato. Il lavoro degli artisti newyorchesi incontra la sua sensibilità e i suoi interessi: in quel momento, infatti, l’artista californiano pratica una pittura astratta caratterizzata da una forte tendenza alla sintesi formale. Se la direzione di ricerca in qualche modo coincide, i motivi che la muovono sono, in realtà, molto diversi. Flavin, LeWitt, Andre, Morris e soprattutto Judd che esordisce come critico d’arte, hanno ricevuto una formazione accademica, studiano filosofia ed estetica: vogliono prendere posizione rispetto alla storia dell’arte e hanno gli strumenti per farlo. Tra il 1959 e il 1968 pubblicano una serie di articoli su riviste come “Arts Magazine” e “Artforum”, attraverso i quali teorizzano attorno al proprio lavoro con un senso di impegno civile e intellettuale: conducono una battaglia di idee nei confronti della generazione precedente, nei confronti dell’arte gestuale degli espressionisti astratti, promuovendo un’arte impersonale e neutrale.
Lo stesso McCracken scrive molto3, ma solo sui suoi taccuini di disegni: si tratta di una sorta di scrittura privata, di diario intimo sotto forma di piccoli aforismi e di brevi testi relativi alla propria ricerca. L’artista non è un teorico e non pensa alla propria opera in contrapposizione a quella della generazione precedente: al contrario il suo lavoro è imbevuto di una sensibilità Pop e di una cultura pittorica astratta, che non tarderà a rivelare anche una componente gestuale4. Il Minimalismo per McCracken non è una patria da difendere ma un territorio da percorrere e contaminare senza inibizioni: egli guarda, ad esempio, alla cultura di strada californiana; tratta le superfici delle proprie sculture con resine colorate come molti giovani allora trattavano, personalizzandole, le carrozzerie delle proprie automobili; cerca nella forma e nel colore un’idea di bellezza e di sensualità, e quindi di trascendenza e di assoluto. Egli non considera le proprie sculture come oggetti inespressivi, freddi e oggettivi, ma come entità vive e autonome, come veri e propri “esseri”. L’artista ha lavorato tutta la vita alla produzione di sculture geometriche astratte, come gli altri minimalisti, rivendicandone il carattere fondamentalmente antropomorfo e quindi anche una dimensione soggettiva, intesa come forma di alterità assoluta. In fondo l’eresia di McCracken è proprio questa: egli condivide l’idea degli espressionisti astratti secondo la quale l’astrazione trascende il mondo materiale. I suoi lavori hanno quindi sempre un contenuto allusivo e metafisico, e rimandano ad altro, a una idea di bellezza, di energia, di perfezione e di rivelazione. Tutto il lavoro dell’artista è legato a questo problema della percezione e dell’incontro di due mondi paralleli, quello fisico e quello mentale, quello visibile e quello invisibile. McCracken è convinto che la nostra realtà sia più ricca di quello che crediamo e che possiamo vedere a occhio nudo, e l’arte – a suo avviso – può dare forma a questa parte nascosta della materia e dell’universo; può quindi cambiare il mondo, risvegliare le coscienze e arricchire la nostra vita. Per McCracken, l’arte è innanzitutto una questione di emancipazione, estetica e spirituale: in questo senso egli vede i suoi lavori come dei prototipi per un mondo che verrà, un mondo che sarà dominato dal puro pensiero e da una forma di bellezza assoluta. Insomma se Morris, Andre e Judd il Minimalismo lo pensano e lo teorizzano, McCracken al contrario lo visualizza, lo sogna. I primi affermavano che non esiste altra
verità che dentro il rapporto con i fenomeni empirici, mentre per il secondo la verità è nell’invisibile e nel trascendente. Rispetto al senso dell’ironia e al distacco intellettuale di Andre o Judd, in McCracken persiste fondamentalmente un progetto di modernità: l’artista immagina una sorta di riconciliazione dell’uomo con la tecnologia, nella prospettiva della costruzione di un mondo migliore. McCracken è uno degli ultimi grandi idealisti del mondo dell’arte5, un artista che vede nell’opera il mezzo per una esperienza contemplativa alta e misteriosa, in grado di creare una connessione diretta con i misteri della vita e le leggi insondabili dell’Universo.
La dimensione onirica, visionaria, legata alla convinzione dell’esistenza di una vita extraterrestre, rappresentano una parte importante, autenticamente sentita e vissuta, della vita dell’artista e della sua produzione artistica. Molte foto, che pubblichiamo anche in questo catalogo, ritraggono McCracken davanti a ipotetici luoghi di avvistamenti o di atterraggio di Ufo. In diverse occasioni l’artista ha dichiarato di aver viaggiato nel tempo e nello spazio, di essere capace di volare sopra il proprio corpo e di aver avuto incontri ravvicinati con gli alieni. Si tratta di una personalità riservata e cordiale, metodica e profondamente coerente, un artista che si pone nel mondo con singolarità, con una attitudine calma e con una tendenza a viaggiare costantemente tra conscio e inconscio, tra sonno e veglia, tra questo luogo che vediamo tutti e un’altra dimensione che vede solo lui. Nel mezzo, tra i due mondi, rimangono le sue opere, realizzate tutte a mano con grande meticolosità fino a ottenere delle superfici sensuali e vive, seriali e uniche al tempo stesso. Gli infiniti passaggi di lucidatura delle vernici sintetiche sparse sulle forme realizzate in legno, producono oggetti caldi e sensuali, pronti a riflettere la luce e a cambiare grazie a essa, un aspetto fondamentale questo di molta arte della California del sud. Inoltre se nel caso di molti altri artisti minimalisti il metodo di costruzione è dichiarato e ai materiali si chiede di rappresentare semplicemente se stessi, nel caso di McCracken le vernici sintetiche dissimulano il materiale costruttivo e il procedimento di realizzazione dell’opera: ci troviamo di fronte a oggetti di cui ignoriamo la natura, la costituzione, la composizione. Così ai colori, ai bianchi e ai neri utilizzati da molti minimalisti East Coast, con l’intento di eliminare dall’opera qualsiasi aspetto vagamente sentimentale e allusivo, McCracken oppone un ampio ventaglio cromatico: dal rosa al viola, dal marrone al rosso, dal lavanda al blu, dall’azzurro al giallo. Il colore diventa il materiale stesso, è una materia cangiante che vibra e si trasforma in relazione alla luce. L’opera cambia quindi di stato, non è più scultura o pittura ma tutte e due le cose insieme: è un coacervo di energia che entra in relazione con quella propria dell’osservatore. Pur all’interno di una grande variabilità di forme, l’artista cerca di individuare sempre per le sue opere delle dimensioni che possano avere un rapporto preciso con il corpo umano. Il pubblico è tenuto a instaurare con le opere una relazione fisica, costruita su un equilibrio di forze tra corpi, tra enti, tra soggetti. Se serve, a differenza di tutti gli altri minimalisti, McCracken torna a utilizzare perfino il classico piedistallo, del quale calcola con precisione l’altezza, per far in modo che chi osserva i lavori di piccole dimensioni sia obbligato a inclinarsi, a sporgersi verso di loro, e quindi a entrare in contatto con l’energia, con l’aura come dice egli stesso, che queste forme emanano nello spazio.
La retrospettiva
Questa di McCracken rappresenta la terza ampia mostra monografica dedicata dal Castello di Rivoli ai maggiori esponenti del Minimalismo, dopo quelle di Andre e Judd curate da Rudi Fuchs nella seconda metà degli anni Ottanta. La presente retrospettiva include un’ampia selezione di opere che ripercorrono l’intero percorso creativo di McCracken, dai primissimi quadri del 1962 e 1963, mai esposti prima di questa occasione,
alle sculture, come Mykonos (1965), per le quali utilizza per la prima volta un rivestimento in fibra di vetro su strutture in legno, fino ad alcuni celebri Mandala pittorici dei primi anni Settanta.
Come già sottolineato da Dan Cameron, uno degli aspetti più interessanti del lavoro di McCracken è proprio l’ibridazione perfetta di pittura e scultura: superficie, colore, forma e luce convergono in un singolo oggetto che è al tempo stesso pittorico e scultoreo. Emblematiche al riguardo sono le sue celebri Plank (Asse), delle semplici assi, alte e allungate, che l’artista poggia a terra e contro il muro, di cui presentiamo in questa occasione un’interessante serie. Realizzati per la prima volta nel 1966 e presentati l’anno successivo presso la Robert Elkon Gallery di New York, questi lavori testimoniano la volontà dell’artista di giungere a una forma estrema di semplificazione formale: l’opera, pur essendo priva di un senso della profondità, occupa uno spazio tridimensionale, ponendosi al tempo stesso come oggetto e come luogo di esplorazione pittorica. Le assi possono, infatti, essere monocrome, come le prime Red Plank (Asse rossa), 1966 e Think Pink (Pensiero positivo), 1967, ma anche essere trattate come delle vere e proprie tele, con composizioni astratte e policrome.
Presentiamo inoltre in questa occasione una serie di lavori esposti raramente, soprattutto in Europa, come le Piramidi (Pyramids) e Blue Post and Lintel I (Pilastro e architrave blu I), 1965, sculture ispirate all’architettura antica, in particolare quella egizia, un’architettura capace di raggiungere, secondo McCracken, un alto livello di alterità e trascendenza6. L’interesse per queste forme elementari deriva direttamente dalla confidenza dell’artista nel loro carattere immutabile e universale, e quindi nella loro efficacia formale e spirituale. McCracken insegue attraverso queste forme esemplari il fantasma delle origini, e quindi il sogno di un passato remoto capace di sopravvivere nel futuro più lontano. Seguendo questa direzione di ricerca l’artista arriva già nel 1967 al primo monolite, forma di alterità ed enigmaticità assoluta desunta direttamente dall’immaginario preistorico, di cui presentiamo alcuni straordinari esempi come Minnesota (1989). La mostra comprende poi un’ampia serie di sculture realizzate negli ultimi trent’anni, alcune delle quali molto recenti come Cosmos (Cosmo), 2008, attraverso le quali si mette in evidenza il livello di ossessione, di grande coerenza e straordinaria circolarità del lavoro di McCracken. […]
Note:
1) Il Minimalismo californiano è stato definito storicamente “finish fetish art” o anche “light and space art”.
2) D. Cameron, High-Tech Redux, in “Flash Art International”, New York, estate 1988, pp. 102-108.
3) Si tratta di testi che pubblica già alla fine degli anni Sessanta ma solo sui propri cataloghi.
4) A partire dal 1973 McCracken comincia a dipingere con la tecnica dell’olio su tela, e tende a comporre mosaici astratti e multicolore realizzati grazie a piccoli colpi di pennello.
5) John McCracken, Sculptures, Art & Public, Ginevra, 1994, p. 6.
6) T. Kellein, Interview with John McCracken, in McCracken, Kunsthalle Basel, Basilea, 1995, pp. 22-38.
PERFETTAMENTE ESEGUITI
Alex Farquharson
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John McCracken è ora più visibile che mai, persino più che ai tempi del massimo fulgore del Minimalismo negli anni Sessanta. […] Perché mai McCracken, artista nato a Berkeley nel 1934 e residente attualmente a Santa Fe nel New Mexico, il quale parla dell’alto scopo dell’arte in termini elegiaci se non addirittura cosmici, occupa questa posizione simbolica ai giorni nostri? Cosa stimolano la sua opera e le sue parole per avere ancora tanta parte nell’accoglienza riservata oggi al Minimalismo, un movimento le cui posizioni critiche
prevalenti erano risolutamente materialiste e irriducibilmente terrene? […] Di primo acchito McCracken è un buon minimalista. Di tutte le opere connesse con il cosiddetto “L.A. Look” – che abbraccia il Minimalismo Pop di Ed Ruscha, Billy Al Bengston e Joe Goode, la scultura minimalista Finish Fetish di Craig Kauffman, Peter Alexander e DeWain Valentine e gli ‘interventi sullo Spazio e sulla Luce’ di Robert Irwin, Doug Wheeler e James Turrell – le sculture di McCracken, probabilmente insieme a quelle di Larry Bell, sembrano conformarsi maggiormente agli “oggetti specifici” (Donald Judd, 1965) e alle “strutture primarie” (Kynaston McShine, 1966) dei più noti esponenti newyorchesi della “Minimal Art” (Richard Wollheim, 1965) o, come è ora universalmente conosciuto, del Minimalismo. […] Le opere di McCracken si conformano ai principi minimalisti nella misura in cui sono unici e semplici poliedri che instaurano un rapporto diretto con gli spazi e gli spettatori. Soprattutto le Plank, che collegano lo spazio della scultura (il pavimento) con quello della pittura (la parete), essendo tridimensionali e al contempo costituite da vernice su un supporto nascosto, “non sono né pittura né scultura”, come diceva Judd degli “oggetti specifici” o altrimenti sono pittura e scultura insieme. Probabilmente McCracken le definisce sculture per comodità e perché occasionalmente realizzava anche serie di quadri. L’origine delle sue sculture, attraverso una serie di rilievi, era riconducibile ai semplici, unitari “dipinti simbolici: X, croci, cerchi e frecce” che realizzava nei primi anni Sessanta. […] Nella scultura di McCracken, il colore effettivamente è complementare: ci sono sempre, nascosti sotto molteplici strati di vernice da automobili, resina e colore, un blocco geometrico o un’asse di legno. Ma l’effetto che fa non è questo. Si ha piuttosto l’impressione di vedere un colore tridimensionale: colore che si è in qualche modo materializzato. Le superfici sono così perfette e lisce che fugano qualsiasi sospetto che ci sia una struttura sottostante. Sebbene si sia a conoscenza del fatto che gli oggetti sono solidi, la lucentezza delle superfici dona loro una qualità liquescente come se potessero dissolversi in una pozza di pittura qualora la temperatura salisse. McCracken tratta il colore come se fosse materiale, dal momento che è tutto quello che riusciamo a vedere. La ragione è che il colore è di per sé più astratto di qualunque altro materiale ravvisabile. La perfezione delle superfici lucidate nega al colore la sua materialità in quanto pittura: non presenta grana né patina e non rivela tracce di come sia stato applicato. “Il colore è il ‘materiale’ più importante che uso. Trattandosi in realtà di una qualità e non di un materiale – a parte il fatto che è emotivamente evocativo – il colore è fin dal principio una caratteristica astratta”12. Le sue sculture sembrano fatte di colore invece di essere dei materiali verniciati con il colore. Si sono materializzate in quanto occupano uno spazio reale e tuttavia appaiono prive di identità materiale. Pertanto mentre le forme semplici delle “cose uniche” di McCracken rivendicano la loro fisicità in un senso – ossia in rapporto con gli spazi in cui vengono viste e con gli spettatori che girano loro intorno – i valori dei loro colori e superfici in realtà “sovvertono la fisicità”, come Morris sosteneva che il colore fa con la scultura. Ma nel sovvertire la fisicità, le opere di McCracken asseriscono molto altro ancora. Sebbene la loro geometria sia austera, il colore e le superfici delle sculture suscitano la sensazione di una pienezza esperienziale che è assente dalle opere di molti suoi omologhi di New York, anche di coloro che usavano il colore […]. Mentre Judd e gli altri intitolavano abitualmente le proprie opere Untitled (Senza titolo), McCracken per i titoli delle opere si ispirava alle fonti più disparate, come l’astronomia, l’astrologia, i personaggi di Shakespeare, le divinità dell’Antico Egitto e induiste, minerali preziosi, forze della natura e espressioni onomatopeiche che indicano movimento (ad esempio “whoosh” ecc.). Questa comprensività poteva includere anche cose effimere e quotidiane: diverse sculture a partire dal 1967 prendono il titolo dagli articoli delle riviste di moda, Think Pink
(Pensiero positivo), Live it up in Lilac (Emozionare in lilla), Case for Fakery in Beauty (A favore della manipolazione della bellezza) e persino The Absolutely Naked Fragrance (La fragranza assolutamente nuda) tutte del 1967, riferimenti a un insieme di associazioni estetiche femminili, commerciali e cosmetiche, in contrasto con il mondo sobrio e maschile di molta arte minimalista, i cui corrispondenti industriali erano i depositi di legname all’aperto, le autofficine e le catene di montaggio. “Semplicemente magnifico” è la frase che McCracken usava talvolta.14
Allora McCracken, come gran parte dell’entourage artistico di Los Angeles, viveva a Venice, piccola comunità bohémienne sulle spiagge a sud di Santa Monica. A stretto contatto con artisti, scrittori e musicisti, vivevano giovani surfisti e appassionati di custom car che condividevano con gli artisti Finish Fetish il culto per i nuovi materiali, i colori sensuosi, le forme aerodinamiche e le superfici perfette. Le tecniche e le finiture di McCracken hanno delle analogie sia con la produzione delle tavole da surf sia con la personalizzazione delle auto: numerosi strati di lacca, impiego della resina e laboriosi interventi di sabbiatura e lucidatura. E per alcuni versi, come accadeva spesso allora nell’arte di Los Angeles in quegli anni, ottenevano il medesimo risultato sensuale: superfici così brillanti e levigate da creare complessi e coreografi ci giochi di luce man mano che l’angolo di visuale cambiava rispetto all’oggetto, moltiplicando gli effetti fenomenologici del Minimalismo unicamente attraverso le qualità della superficie; effetti non dissimili dalle immagini create dal gioco dell’intensa e tersa luce californiana sulla superficie delle onde dell’oceano o sulla lucente carrozzeria delle automobili in movimento. […] Tuttavia malgrado la stesura manuale del colore e le concessioni dell’opera di McCracken, le sue sculture appaiono ancora più lontane da una quotidianità contestualizzata nel tempo e nello spazio rispetto alle opere astratte della maggioranza degli artisti appartenenti al movimento Finish Fetish. […] Le recenti opere di acciaio e bronzo lucidati che fungono da specchi tridimensionali, portano gli effetti smaterializzanti e della dislocazione della scultura alla sua logica estrema. Delle sculture verniciate McCracken faceva osservare che “Le immagini riflesse sulla superficie diventano parte integrante delle sculture e tendono a smaterializzarle… Talvolta alcune sculture sembrano quasi sparire e diventare allusioni, pertanto più che descrivere queste cose come oggetti, sarebbe meglio descriverle come complessi di energie”. […] Nonostante la nostra esperienza delle opere d’arte avvenga nel presente, McCracken si propone di fare delle opere che giungano nel presente dal futuro. Il suo scopo è di fare oggetti che abbiano il loro “essere primario”, un’amplificazione piuttosto che una confutazione del senso della presenza che la scultura minimalista molto spesso riesce tangibilmente a ottenere. Le sculture di McCracken appaiono perfettamente eseguite. La perfezione delle loro superfici cancella ogni traccia del fatto che siano state realizzate dalla mano di un artista. Sembra che le sculture si siano auto-materializzate, che siano prive di autore. In quanto puro colore tridimensionale appaiono immateriali o costituite da qualcosa che non si può trovare nel mondo. Questi oggetti enigmatici che si trovano in mezzo a noi eppure sono totalmente autonomi, acquistano una quasi-soggettività. “In un certo senso sono come degli alieni”, esseri a sé stanti 25.
L’arte di McCracken aiuta a capire il mistero e l’alterità impliciti nel Minimalismo in generale, non come qualcosa che nega o contraddice il suo materialismo radicale, ma come qualcosa che estende le coordinate spazio-temporali che quest’arte occupa più e più volte, forse all’infinito.
Note:
12) J. McCracken, Artist’s statement [1999], in Minimalism, cit., p. 291.
14) “In quel periodo sfogliavo le riviste di moda femminili perché effettivamente vi trovavo anche degli articoli di arte come quello di John Coplans intitolato Art Bloom, pubblicato su ‘Vogue’. (Citava tra le atre alcune mie opere)… Avevo l’impressione che fossero anch’esse quasi delle riviste d’arte. Ho preso da loro qualche idea per i colori e i titoli”.
25) Interview / John McCracken and Matthew Higgs, in Early Sculpture. John McCracken, cit., p. 10.
IL LINGUAGGIO DEGLI EXTRATERRESTRI AL SERVIZIO DELLA MINIMAL ART
(O COME AVERE PERFETTA PADRONANZA DI UNA LINGUA PARLANDONE UN’ALTRA)
Marc-Olivier Wahler
Quando si descrive l’opera di John McCracken, il ricorso al termine Minimalismo è sistematico. Non c’è articolo o saggio che non affronti immediatamente il lavoro dell’artista californiano dal punta di vista del Minimalismo. In genere gli artisti non amano essere catalogati, tanto più che il Minimalismo è una corrente che raggruppa tendenze così diverse da rendere quasi impossibile una qualsiasi definizione oggettiva. Ma diversamente dai suoi colleghi qui è l’artista stesso ad accettare l’“etichetta”: “(…) Essa […] definisce sommariamente un certo tipo d’arte e fornisce un orientamento alle persone che si avvicinano all’opera. (…) Il termine minimalismo non mi dispiace perché la maggior parte del lavoro consisteva nel minimizzare, ridurre, condensare”1. In effetti, è allettante affrontare un lavoro di questo tipo con lo sguardo dello storico dell’arte e rilevare con quale facilità le opere di McCracken incoraggino a un’analisi basata sugli elementi linguistici specifici del Minimalismo (“forme elementari”, “assenza d’espressione”, “superfici neutre”, “materiali industriali”, “ripetizione”, e ricorrendo addirittura alle teorie della Gestalt).
MODELLI
Le opere di McCracken potrebbero perfino essere considerate modelli esemplari dell’arte minimalista. Prendiamo ad esempio la famosa serie Planks (Assi), tavole di legno rettangolari, alte e sottili, rivestite in resina di poliestere, sabbiate e accuratamente levigate così da ottenere una superficie perfettamente piana, priva di qualsiasi asperità che possa catturare lo sguardo. L’installazione di queste forme elementari è la più semplice immaginabile: appoggiate alla parete. Molti scritti sono stati dedicati all’analisi di questa serie, in particolare al modo in cui le Planks prendevano possesso del suolo e diventavano, al tempo stesso, parte integrante del muro, mettendo così in evidenza la permeabilità di categorie quali pittura e scultura. “Troppo sottili per rimanere saldamente verticali, questi raffinati e lucidissimi oggetti richiedono come supporto il muro. In un certo senso è un espediente ricollegabile ai tentativi di altri artisti alla fine degli anni Sessanta, quali Donald Judd e Frank Stella, di rendere il muro e lo spazio circostante il lavoro parte integrante dell’opera”2. […] Di fronte a una Plank, non c’è più modo di ricorrere alla tradizionale logica selettiva (pittura O scultura, opera d’arte O oggetto ordinario ecc.), bisogna adottare una logica addizionale (è una pittura E una scultura, un’opera d’arte E un oggetto ordinario ecc.).
PARLARE DI UN’OPERA CON UN LINGUAGGIO PRECOSTITUITO
Potremmo continuare così a snocciolare gli argomenti che dimostrano l’importanza del lavoro di McCracken all’interno dell’arte minimalista e la pertinenza dei suoi propositi formali. […] Come parlare allora d’arte con il linguaggio sviluppato da chi è autorizzato a parlarne, e come parlare di conseguenza di un’opera con il linguaggio sviluppato da chi è
autorizzato a parlare di opere? […] Nel nostro caso, piuttosto che interrogarci sugli elementi che possono costituire un’analisi appropriata di un’opera, suggerisco di cominciare da un altro quesito, a mio avviso più pertinente: “come parlare dell’opera?”, evitando il ricorso al linguaggio prestabilito dagli utenti del mondo dell’arte. Allo scopo, suggerisco di seguire il consiglio dato da Umberto Eco a un suo assistente preoccupato di dover insegnare a studenti del primo anno una disciplina difficile come la semiologia. “Parli loro di tutto tranne che di semiologia – suggerì il maestro – e loro comprenderanno la semiologia”. È immaginabile un simile approccio per parlare di un artista e del suo lavoro, o addirittura dell’arte contemporanea nella sua globalità? Parlare di tutto tranne che d’arte contemporanea induce davvero a parlare diversamente dell’arte contemporanea? Per provare questa ipotesi, bisogna uscire dal mondo dell’arte e puntare a sistemi di pensiero, racconti, modi di vedere che impongano una qualche interpretazione del mondo, e spostino a un momento successivo lo schema di lettura indotto da queste interpretazioni nel mondo dell’arte, così da vedere in che modo è possibile stabilire nuove soluzioni linguistiche.
IL CONTRIBUTO DEGLI EXTRATERRESTRI
Il modo in cui McCracken si esprime sul suo lavoro è a questo proposito illuminante: se si guarda ai suoi lavori con l’occhio dello storico dell’arte, abbiamo visto che è facile considerarli modelli perfettamente integrati in quello che il mondo dell’arte ha definito “minimalismo”.
Ma i propositi dell’artista sono sconcertanti. Da un lato, descrive i suoi lavori secondo i parametri dell’arte minimalista e i suoi criteri d’analisi, dall’altro assume una posizione che lo allontana anni luce dal mondo dell’arte e dal suo linguaggio precostituito: “Voglio che le mie sculture sembrino essere state portate da un’altra dimensione”7. In un’altra intervista, riprende quest’idea: “Cerco davvero di fare le cose in modo che sembrino giungere da qualche altro luogo, da un Ufo o un ambiente avveniristico o un’altra dimensione. Che le cose esistano contemporaneamente in più di una dimensione per me non è una semplice suggestione, attiene al mondo umano. Penso che gli umani esistano contemporaneamente in più dimensioni”8. […] “Mi sono convinto che intorno a noi ci siano davvero Ufo e alieni. Gli alieni sono sfuggenti e difficili da definire a causa della loro diversa dimensionalità; il loro mezzo di spostamento è il tempo, per quanto possa sembrare assurdo. Penso che ci siano effettivamente migliaia di extraterrestri – e altre entità che non chiamereste extraterrestri – che volano e s’aggirano tra noi, guardandoci, studiandoci. Se per certi versi potrebbero pensare che siamo fantastici, perfino eccezionali, credo si chiedano anche come possiamo essere così ottusi, perché non li vediamo più di tanto. È davvero sorprendente che non ci accorgiamo di quello che sta succedendo. Penso però che siamo stati “programmati” così volutamente. Credo ci sia una ragione se abbiamo dimenticato da dove proveniamo: ci permette di concentrarci sulle cose qui. Ma ora, credo, ci sono buoni motivi per ricordare le nostre origini, così da poter aggiungere questo ricordo a quello che abbiamo imparato stando qui e raggiungere la prospettiva di cui abbiamo assolutamente bisogno. A quel punto, sarà davvero possibile affrontare il miglioramento della nostra condizione. Tutto ciò costituisce un’idea molto stimolante che ritengo possa influire in maniera significativa sullo sviluppo dell’umanità”.9
ONTOLOGIA E FANTASCIENZA
È interessante constatare come la convinzione dell’artista che gli extraterrestri esistano, che siano “tra noi” e che possano aiutarci nel nostro sviluppo personale e collettivo, lo
inducano a riflettere, per esempio, su una problematica ricorrente nell’arte del Ventesimo secolo: come rendere conto della quarta dimensione quale è il tempo, così come di altre dimensioni che la fisica, ad esempio, ha messo da tempo in evidenza? Parlare, come fa McCracken, di un oggetto che può esistere e configurarsi simultaneamente in più dimensioni trova eco nella domanda che ha obnubilato il mondo dell’arte per oltre un secolo: perché a un certo punto un oggetto ordinario si trasforma in oggetto estetico? Come può una sedia, oggetto funzionale e comune, essere a un tratto ritenuto qualcos’altro (un’opera d’arte)? Come si può parlare di un oggetto che trascende la sua definizione consueta e si realizza in una nuova dimensione? […] Eppure, appena si esce dal campo dell’arte e si adotta un altro linguaggio, chiunque è in grado di capire. E il modo in cui McCracken si esprime sugli extraterrestri – per quanto in prima istanza possa apparire bizzarro – concorre a una migliore comprensione delle scommesse poste dall’arte contemporanea e, dunque, dal proprio lavoro. […]
MULTIVERSO
[…] La fisica quantistica, per esempio, ha dimostrato che a livello quantico esiste un numero infinito di universi paralleli. Non serve più sapere se un universo è più reale di un altro, dal momento che tutti concorrono alla definizione di un’unica e identica realtà. Allo stesso modo, non serve più sapere quale linguaggio (quello del mondo dell’arte o quello degli extraterrestri) è più appropriato per affrontare le opere di McCracken, poiché entrambi – simultaneamente – concorrono a una migliore comprensione delle scommesse poste dall’artista. […] Ma è sconcertante osservare come gli strumenti d’analisi messi a disposizione dal mondo dell’arte non sempre permettano di decodificare le scommesse che alcuni artisti continuano a formulare, rimettendole costantemente in discussione.
Il modo in cui McCracken si esprime sul suo lavoro è salutare. Autorizza a uno sguardo che si basa su un certo tipo d’interpretazione, ancorato alla storia dell’arte e indotto da un linguaggio precostituito, ma al tempo stesso rimette in questione questo linguaggio con una domanda che può sorprendere: gli extraterrestri possono aiutarci a comprendere l’arte contemporanea? Il fatto è ben noto: per padroneggiare una lingua e apprezzarne le sottigliezze, niente di meglio che parlarne altre; per padroneggiare un argomento, niente di meglio che cercare in altri domini della conoscenza schemi interpretativi che permettano di sviluppare un vocabolario personale epurato dalle scorie di un linguaggio precostituito. […]
Note:
1) F. Colpitt, Between Two Worlds, in “Art in America”, vol. 85, n. 10, New York, aprile 1998, pp. 86-93.
2) M. Wortz, Spiritual Dimensions in the Art of John McCraken, in McCracken Heroic Stance. The Sculpture of John McCracken 1965-1986, catalogo della mostra, Newport Harbor Art Museum, Newport Beach; P.S.1 Contemporary Art Center, New York, 1987, p. 22.
7) M. Wortz, Spiritual Dimensions in the Art of John McCracken, cit., p. 26.
8) D. Blair, Otherworldly, in “Purple Prose”, n. 13, inverno 1998.
9) Ibid.
“COME SI FA AD ARRIVARE FINO IN FONDO? SI TIENE DURO”
UNA CONVERSAZIONE CON JOHN MCCRACKEN SULLA VICINANZA, L’ORIZZONTE E LA SEDUZIONE
A cura di Marianna Vecellio
MARIANNA VECELLIO: Da dove vogliamo cominciare? So che non le piace parlare del
passato.
JOHN MCCRACKEN: Di solito no, ma a volte ne parlo. Più che altro perché il passato incide sul presente e anche sul futuro. Dal momento che in un certo senso il tempo è un continuum e non esiste un vero passato e nemmeno un vero futuro, non mi dispiace parlare del passato.
MV: Come ha scoperto di voler diventare un artista?
JMC: È una domanda piuttosto complessa. Prima di capire che avrei voluto fare l’artista, ho passato un certo periodo in Marina, ero imbarcato su una nave della Marina Militare.
MV: Faceva l’operatore sonar.
JMC: Ero in fondo alla nave in una postazione sonar e mi sono chiesto cosa intendessi veramente fare, tutto qui. Fino ad allora avevo fatto un po’ di tutto e decisi che sarei diventato un artista e che avrei cominciato a studiare arte. Ho deciso di farlo e basta. Non sapevo cos’altro fare. Non sapevo cosa mi aspettasse e cosa fosse un artista fintanto che non mi sono iscritto al California College of Arts and Crafts (CCAC) e allora ho iniziato a capire cosa volesse dire fare l’artista; l’idea che mi ero fatto delle arti applicate era un po’ commerciale.
[…]
MV: John Coplans fu uno dei fondatori di “Artforum” nel 1962 a San Francisco e poi si trasferì a New York. Lei al contrario, nonostante avesse detto spesso di sentirsi più vicino al Minimalismo che al Finish Fetish, è rimasto in California invece di trasferirsi a New York.
JMC: Almeno per un po’. Per me non esiste alcuna netta distinzione tra Minimalismo e Finish Fetish – quest’ultima è una definizione curiosa, una frase curiosa. Non erano le terminologie artistiche a interessarmi. Ciò che volevo era ridurre quello che stavo facendo, ridurlo al minimo, all’essenziale e fu così che finii per pensare alle Planks (Assi). Prima di allora facevo lastre, blocchi geometrici e così via e d’un tratto mi sono ritrovato a pensare e realizzare dei pezzi di compensato appoggiati al muro. E mi sono detto: “Oddio, credo che ci siamo!” Ero finito nella trappola riduttiva minimalista: quella di rendere le opere il più semplice possibile e farle come si deve, far sì che si reggessero o che stessero al mondo, che conversassero con quelle di altri artisti e fossero capaci di vivere. Le volevo più semplici possibile ma anche splendide e in un certo senso seducenti…
MV: Vorrei per un attimo approfondire il concetto di “seducente” e di bellezza. Ritiene che possa essere questo che distingue le sue opere da quelle del Minimalismo ortodosso? Il Minimalismo sembra esprimere la riduzione della forma attraverso un linguaggio e un approccio più impersonali. Questo genere di sensibilità, l’approccio più percettivo, il processo intuitivo e la finitura, erano forse ciò che rifiutavano Donald Judd e gli altri minimalisti con quegli “oggetti specifici” termine con cui i minimalisti o più precisamente Judd aveva definito le sue opere?
JMC: Direi che per le loro opere fosse appropriato il termine “noioso”, non che fossero di fatto noiose, ma magari meno emozionanti delle mie. Le loro erano forse più intellettuali, basate su idee più intellettuali, ma non è detto…
[…]
MV: L’elemento sempre presente nel suo processo creativo è il taccuino nel quale ogni giorno ha annotato appunti, disegni e pensieri sul suo lavoro. Neville Wakefield, in una recente intervista, diceva che i suoi disegni sono dei codici alla stregua della Stele di Rosetta. Vorrei proporle un’altra analogia con i pittogrammi preistorici, come quelli scoperti sulle rocce nei pressi del suo studio a Santa Fe nel New Mexico.
JMC: L’analogia è giusta. Mi chiedo se non ho preso così tanti appunti per mantenere un
ricordo visivo concreto di quello che mi passava per la mente. Un po’ per non dimenticare ma anche per poter ritornare indietro e riguardare e decidere come realizzare un’opera, per capire se volevo fare una certa cosa o qualcos’altro, chissà. Ma quando disegni le cose le rendi reali, attribuisci loro delle realtà che altrimenti non potrebbero avere, che potresti dimenticare e non ritrovare mai più. L’ho fatto per questo e anche perché adoro farlo; è piuttosto divertente. Materializzare le cose sulla carta e mostrare come saranno.
MV: Nei suoi appunti cita tra altri Josef Albers che negli anni Trenta e Quaranta insegnava al Black Mountain College e che con il suo uso e le sue teorie sul colore ha influenzato le riflessioni sulla dimensione cromatica all’interno del processo artistico negli anni a venire. Cosa significa per lei il colore?
JMC: Avevo capito che tra le cose che mi interessavano vi erano la luminosità e l’energia del colore. Ho sempre cercato di fare attenzione a che il colore non distraesse dalla forma ma che anzi la mettesse in evidenza o ne facesse parte integrante. In scultura può accadere che il colore dia l’impressione di essere un’aggiunta e non era questo che volevo, volevo che colore e scultura fossero un tutt’uno e ci sono riuscito.
[…]
MV: Vorrei riprendere l’idea di cui lei ha parlato in varie occasioni ossia del fatto che le Planks mettono insieme due mondi distinti: lei ha affermato che le Planks condividono lo stesso spazio fisico che occupa lo spettatore – il mondo reale, psicologico e vivente – e, per il fatto che toccano il muro, convivono anche con lo spazio visivo, su cui proiettiamo l’immaginazione, lo spazio pensato.
JMC: La Plank unisce il pavimento e la parete; ha degli angoli. Il rapporto tra l’angolo e il resto della stanza diventa un po’ strano, leggermente disturbante. È per questo che in genere le cose sono per lo più un tutt’uno con l’architettura. L’angolo può aiutare a distinguere l’opera dall’ambiente circostante e dal resto della stanza.
MV: Il concetto di “diagonalità” espresso nella forma della Plank che si appoggia “con un’angolazione”, riporta la sua opera nel dibattito modernista che negli anni Sessanta portava gli artisti a confrontarsi con espressioni radicali come, per esempio, la “morbidezza”, nel caso di Robert Morris ed Eva Hesse.
JMC: La diagonalità mi disorientava: mi ci sono voluti anni per capire l’angolo. Forse sarei riuscito a capire le Planks o forse no. Era tanto disorientante che non riuscivo nemmeno a capirlo bene. L’ho fatto e basta.
[…]
MV: Il rapporto tra i titoli e le forme delle opere esprime un ulteriore processo riduttivo.
JMC: Sì, il titolo è la semplice descrizione dell’opera stessa. Questo è un arco e questa al centro è la chiave di volta e questi sono il pilastro e l’architrave.
[…]
MV: Alcune delle Planks multicolori presentano sulla superficie degli interventi di gocciolamento; altre presentano motivi più geometrici. La serie Mandala esprime anche un rapporto con l’arte popolare l’arte dei nativi americani. Gli indiani Navaho creavano i Mandala per le loro proprietà terapeutiche e gli interventi con la sabbia nei dipinti di Pollock pare si riferissero proprio a questo. Qual è il suo rapporto con l’arte dei nativi americani?
JMC: I Mandala hanno a che fare con i “centri magnetici” e quel genere di cose. L’arte dei nativi americani, i motivi, la riduzione, per me non sono distinte una dall’altra, sebbene le sculture abbiano finito per risultare comunque più pure. Direi che la pittura venne messa da parte e che si sviluppò anche come opera d’arte a sé stante.
[…]
MV: Negli anni Novanta lei ha prodotto una serie di opere che richiamano alcune forme
organiche, come i cristalli, ad esempio.
JMC: Credo che i cristalli possiedano determinate proprietà attive, tra le quali potremmo forse annoverare l’intelligenza e come conseguenza di ciò ho creato alcune opere. I cristalli si sono rivelati magici nel senso che mostrano certe proprietà.
MV: Il cristallo mi ricorda il poliedro rappresentato nella famosa opera Melancholia di Albrecht Dürer. L’artista si riferisce simbolicamente all’enigma che l’uomo, con la sua conoscenza e la sua intelligenza “desidera” risolvere. La parola poliedro significa “molte facce”; anche la conoscenza ha molte facce. È la rappresentazione dell’enigma supremo la cui conoscenza non è mai compiuta.
JMC: Giusto. Credo che il mistero sia sempre presente.
Tra i maggiori esponenti storici del Minimalismo americano insieme a Donald Judd, Carl Andre, Dan Flavin e altri, John McCracken vede l’arte come mezzo per una esperienza contemplativa spirituale alta e misteriosa, e i suoi lavori come prototipi di un mondo a venire in cui regna assoluta bellezza. Convinto che l’arte, risvegliando la conoscenza e arricchendo le nostre vite, possa dare forma ai misteri della vita e alle leggi insondabili dell’universo, McCracken, attraverso l’unicità della sua visione artistica, rivela la vera complessità di quello che genericamente chiamiamo Minimalismo.
L’artista è divenuto noto per ciò che egli definisce “blocchi, lastre, colonne, assi. Belle forme basilari, forme neutre.” Il punto di partenza per tali “forme neutre” è l’oggetto minimalista o la struttura primaria come il cubo o la tavola. Eseguite in legno compensato e successivamente ricoperte di fibra di vetro e resina di poliestere, declinate in colori vividi, le forme neutre si trasformano in un oggetto che coniuga le tendenze anti-illusionistiche del Minimalismo con i colori dell’industria automobilistica e con l’idea di uno spazio mentale e immateriale. Noto soprattutto per le proprie sculture, McCracken in seguito evolve il proprio lavoro a partire dai dipinti della serie Mandala degli anni Settanta, opere che hanno portato la critica a confrontarsi in modo inedito con la sua produzione artistica.
L’opera di McCracken può essere oggi analizzata in un’ottica nella quale le categorie dell’arte minimale vengono rivisitate per lasciar spazio a nuovi campi concettuali, ad esempio l’incontro con ciò che l’artista chiama “la presenza” e la speculazione teorica sullo spazio. Il lavoro dell’artista americano negli ultimi anni è apparso in molte rassegne collettive non legate alla corrente del Minimalismo ma dedicate bensì ai temi più svariati: dallo psichedelico alla vita extraterrestre o ai rapporti tra arte e design.
La retrospettiva di McCracken al Castello di Rivoli, realizzata con il contributo della Fondazione CRT, è sviluppata in stretta collaborazione con l’artista e presenta circa sessanta lavori storici a partire dalle prime tele degli anni Sessanta, esposte per la prima volta al pubblico, le sculture bicrome della metà degli anni Sessanta come Theta-Two e Mykonos, la prima Plank realizzata dall’artista nel 1966, Red Plank, fino ai dipinti della serie Mandala degli anni Settanta, insieme a lavori più recenti come Wonder e Fair, entrambi del 2010, due sculture realizzate dall’artista appositamente per questa mostra.
Curata da Andrea Bellini, co-direttore del Castello di Rivoli e allestita nel grande spazio della Manica Lunga, la mostra segna l’inizio di una serie di retrospettive che il museo dedicherà a figure chiave dell’arte contemporanea.
Pubblicato per i tipi di SKIRA, il catalogo della rassegna, curato da Andrea Bellini e Marianna Vecellio, include nuovi saggi di Andrea Bellini, Alex Farquharson, direttore del museo Nottingham Contemporary a Nottingham in Inghilterra e Marc-Olivier Wahler, direttore del Palais de Tokyo a Parigi; una nuova intervista realizzata all’artista da Marianna Vecellio e una conversazione su McCracken tra Daniel Baumann e l’artista John Armleder.
Oltre alle immagini dei più importanti lavori creati da McCracken a partire dagli anni Sessanta, il catalogo presenta una selezione di disegni dai taccuini dell’artista e, per la prima volta, una cronologia dettagliata delle mostre.
La pubblicazione include inoltre un’ampia antologia con testi di Brooks Adams, Roger M. Buergel, Dan Cameron, Frances Colpitt, John Coplans, Donna DeSalvo, Lucy R. Lippard, Jane Livingstone, Kynaston McShine, David Pagel, Peter Plagens, Merle Schipper, Barbara Rose, Harold Rosenberg, Angela Vettese, A. M. Wade, Emily Wassermann, Nicolas Wilder, Eva Wittocx, Adachiara Zevi e dell’artista.
Lunedì 21 febbraio 2011, alle ore 18.00, nel Teatro del museo si terrà la conferenza inaugurale della mostra John McCracken dal titolo Phenomenal: Light as a Primary Medium for Art in Los Angeles, circa 1960-1980.
L’incontro, aperto al pubblico, è a cura di Robin Clark, curatrice al Museum of Contemporary Art di San Diego.
Robin Clark è curatrice al Museum of Contemporary Art di San Diego, dove con il Direttore del MCASD Hugh M. Davies sta organizzando la mostra Phenomenal: California Light and Space.
Phenomenal, sarà presentata nell’autunno del 2011 in tutte le tre sedi del MCASD nell’ambito dell’iniziativa regionale Pacific Standard Time: Art in Los Angeles, 1945-1980 promossa dalla Getty Foundation. In occasione della rassegna, Clark sta curando la prima raccolta critica sul tema che sarà co-pubblicata dal MCASD e dalla University of California Press. Clark ha curato Automatic Cities: The Architectural Imaginary in Contemporary Art (2009), nel cui ambito sono stati esposti nuovi lavori di quattordici artisti internazionali. In occasione della mostra è stato pubblicato un catalogo con saggi di Clark e Giuliana Bruno, Professor of Visual and Environmental Studies alla Harvard University. Clark ha inoltre curato le installazioni site-specific di Ann Lislegaard e Sebastian Hungerer & Rainer Kehres per la Pulitzer Foundation for the Arts di St. Louis (2008) ed ha pubblicato un saggio nel catalogo Danskjävlar realizzato per la mostra inaugurale del Kunsthal Charlottenborg di Copenhagen (2008). Prima di trasferirsi al MCASD, Clark è stata curatrice al Saint Louis Art Museum dove ha organizzato, tra le altre, le personali di Tara Donovan, Ellen Gallagher, Isaac Julien, Julie Mehretu, Roxy Paine, Neo Rauch, e Matthew Ritchie. Clark ha conseguito il Dottorato in Storia dell’Arte presso il CUNY Graduate Center, un Master of Arts presso la Boston University e un Bachelor of Arts presso lo Smith College.
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Materiali stampa e immagini sono scaricabili dalla cartella JOHN MCCRACKEN presente sul nostro server ftp http://www.selektaweb.com/cgi-bin/ftp/index.cgi
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REGIONE PIEMONTE FONDAZIONE CRT CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI TORINO CITTA’ DI TORINO GRUPPO UNICREDIT
Biografia
John McCracken nasce a Berkeley, California, il 9 dicembre 1934. Prima di iscriversi al California College of Arts and Crafts (CCAC) a Oakland, dove studia pittura dal 1957 al 1965, lavora come operatore sonar su una nave dragamine militare.
Nel 1962, l’artista realizza oggetti scultorei creati dall’assemblaggio di rifiuti e detriti e produce al tempo stesso dipinti a olio su tela, come Cathedral, 1962, Look, 1962, e Bandolier, 1962, che combinano l’elemento geometrico astratto con l’immaginario e la narrazione surrealista e che rivelano il suo interesse verso artisti di matrice modernista quali Stuart Davis e Gordon Onslow Ford, quest’ultimo insegnante al College of Arts and Crafts a Oakland.
Nel 1964, partecipa alla sua prima mostra collettiva al Richmond Art Center a Richmond, California, in occasione della quale espone una serie di dipinti e disegni geometrici come Painting 05 del 1963 e Untitled del 1964, che mostrano l’allontanamento dalla narrazione espressionista e anticipano la sintesi formale che affronterà con la riduzione minimalista e la scultura negli anni a venire. Gli elementi grafici dei quadri di questi anni sembrano ridursi e asciugarsi in una serie di segni, frecce, cerchi e croci, accentuati dal contrasto cromatico tra lo sfondo e la traccia in primo piano.
Nel 1964 con l’opera a parete in lacca e legno Slate, avviene il passaggio dalla produzione pittorica a quella scultorea e l’avviarsi, da parte dell’artista, a una vasta produzione di opere in lacca e legno e successivamente in fibra di vetro e compensato, dal forte accento cromatico. Nel giugno del 1965, McCracken tiene la sua prima mostra personale alla Nicholas Wilder Gallery a Los Angeles, dove espone le sculture bicrome in lacca, fibra di vetro e compensato come Le Marquis, 1965, Shogun, 1965 e Theta-One, 1965. Le opere sono blocchi composti da forme basilari e neutre, il colore delle quali diventa materia strutturale.
La mostra alla Wilder Gallery mette in evidenza il lavoro di McCracken e gli vale l’inclusione, l’anno successivo, nella collettiva Five Los Angeles Sculptors, curata da John Coplans presso la Art Gallery University of California, Irvine. In occasione della rassegna l’artista espone Yellow Pyramid e Blue Post and Lintel I, opere del 1965, che esprimono la relazione con il linguaggio e lo spazio architettonico. Il lavoro di McCracken viene letto – nell’ambito della scuola californiana - accanto a quello di artisti come Larry Bell, Kenneth Price, Tony DeLap e David Gray i quali, nonostante non condividano un approccio programmatico comune, si distinguono per una manualità ricercata e la scelta dell’uso di materiali moderni; aspetti che conferiranno loro l’appellativo di Finish Fetish.
La bicromia è territorio di passaggio e l’artista avvia, a partire dal 1966, la realizzazione di opere monocrome che riducono il loro impatto nella forza della loro specificità oggettuale. Il punto di partenza per tali “forme neutre” è l’oggetto minimalista o la struttura primaria come il cubo o il parallelepipedo. Eseguite in legno compensato e successivamente ricoperte di fibra di vetro e resina di poliestere declinati in colori vividi, le forme neutre si trasformano in un oggetto che coniuga le tendenze anti-illusioniste dell’arte minimale con i colori dell’industria automobilistica e con l’idea di uno spazio mentale e immateriale.
Il 1966 è l’anno della consacrazione minimalista di McCracken, con la partecipazione dell’artista a mostre di rilievo come Primary Structures, tenutasi al Jewish Museum di New York. In questa occasione il curatore, Kynaston McShine, pubblica un’analisi dettagliata del lavoro di McCracken nel contesto del Minimalismo e della Land Art. Nello stesso anno, si tiene alla Robert Elkon Gallery la prima mostra personale dell’artista a New York, in occasione della quale vengono esposti i Block (Blocchi) e le Slabs (Lastre), oggetti
geometrici monocromi come l’opera Violet Block in Two Parts e Brown Block in Three Parts, entrambe del 1966.
La riduzione spinge l’artista a sperimentare materiali e forme semplici e a individuare nella Plank (Asse), tavola di compensato o legno appoggiata alla parete, il territorio di coesistenza tra la presenza individuale e definita del corpo scultoreo e lo spazio reale circostante. Nel 1967, McCracken presenta una serie delle sue Planks alla Robert Elkon Gallery a New York e, successivamente, alla Nicholas Wilder Gallery di Los Angeles. In questi anni il lavoro dell’artista è proposto in grandi retrospettive di arte americana: American Sculpture of the Sixties al Los Angeles County Museum; A New Aesthetic alla Washington Gallery of Modern Art e The Art of The Real: USA 1948-1968 al MoMA di New York.
Se fino ad allora l’artista risiede a Venice, in California, a partire dal 1968 si trasferisce a New York dove rimarrà per lunghi periodi fino al 1972, grazie anche all’attività di insegnamento condotta sia presso la School of Visual Art (1968-69) sia presso l’Hunter College (1971-72), entrambe scuole newyorchesi.
Il 1969 si apre con la prima mostra personale dell’artista in un museo, presso la Art Gallery of Ontario, Canada. A questa segue la rassegna personale che gli viene dedicata dalla galleria parigina di Ileana Sonnabend.
In quel periodo McCracken si concentra sulla forma dell’asse e sulle sue variazioni: approfondisce la Plank come oggetto seriale, antropomorfizzato, sorta di autoritratto, finestra o sistema di comunicazione con l’alterità, fino a renderla forma simbolica e passaggio verso i Monoliths (Monoliti) degli anni Ottanta.
Negli anni Settanta l’artista vede affievolirsi il confronto critico internazionale; le mostre si riducono sensibilmente e si apre un periodo di isolamento creativo, di ricerca privata, scandita anche da un ritorno alla pittura. McCracken insegna presso la University of Nevada di Reno (1972-73) e successivamente presso quella di Las Vegas (1973-75) ed espone in quegli anni, pur mantenendo un costante rapporto con la galleria newyorchese di Robert Elkon, prevalentemente negli spazi espositivi dei campus universitari. Nel frattempo la sua ricerca sembra abbandonare la spinta riduzionista per abbracciare l’universo espressivo e meno neutro del linguaggio pittorico. Realizza prima una serie di Mandala, oli su tela raffiguranti cerchi concentrici, e quindi una serie di quadri con motivi astratti quali Abritaine, Ophirin entrambi del 1972. In questi, McCracken esprime la relazione con nuovi oggetti d’indagine come l’infinto e la psichedelia, i linguaggi dei Nativi d’America, l’energia, la spiritualità e la dimensione interiore. L’artista, pur risiedendo in Nevada, spinto da impegni professionali verso la fine degli anni Settanta si reca in California dove avvia, a partire dal 1978, la collaborazione con diverse gallerie anticipando di fatto il proprio rientro definitivo in California negli anni Ottanta.
Anche la produzione scultorea è il prodotto di un’osmosi con la pittura: sebbene l’artista produca una serie di sculture monocrome orizzontali a parete, le Planks si colorano di motivi decorativi che spostano l’attenzione dall’idea dell’opera alla sua superficie.
Il 1986 è l’anno del rilancio dell’artista presente in due importanti mostre: la Biennale di Venezia e la mostra personale Heroic Stance: The Sculpture of John McCracken 1965-1986, progetto itinerante organizzato dal P.S.1 e curato da Edward Leffingwell.
La fine degli anni Ottanta vede l’artista concentrarsi sulla produzione di una nuova serie di opere scultoree in fibra di vetro e compensato e in acciaio inossidabile: i Monoliths.
La nuova serie di opere e le due mostre del 1986 riportano attenzione sull’attività dell’artista a cui vengono dedicate alcune importanti rassegne: nel 1989, McCracken partecipa alla mostra Geometric Abstraction and Minimalism in America al Solomon R. Guggenheim Museum di New York e una selezione di nuove sculture sono installate alla
Galerie Konrad Fischer a Düsseldorf.
Nel 1991, le sue opere vengono incluse nella mostra Finish Fetish: L.A.’s Cool School alla University of Southern California, dove la curatrice Francis Colpitt evidenzia le attività del gruppo di Los Angeles. L’anno successivo, McCracken ha una mostra personale presso la Sonnabend Gallery a New York e, nel 1993, alla L.A. Louver Gallery di Los Angeles. Nel 1994, le nuove sculture dell’artista sono presentate in due mostre personali alla galleria L.A Louver a Venice in California e alla Galerie Art & Public a Ginevra, e l’anno successivo alla Hochschule für Angewandte Kunst a Vienna.
Nel 1995 una selezione di nuove sculture è presentata in Painting Outside Painting: 44th Biennial Exhibition of American Painting alla Corcoran Gallery of Art a Washington, D.C.
Nel 1997, la Lisson Gallery di Londra apre una grande mostra personale di lavori dal 1965 al 1990, e David Zwirner di New York inaugura John McCracken: Sculture, progetto analogo che raccoglie opere storiche dell’artista. Lo stesso anno le opere dell’artista sono esposte nell’ambito di Sunshine e Noir: Art in L.A. 1960-1997, mostra itinerante organizzata dal Louisiana Museum of Modern Art a Humlebaek, Danimarca e presentata anche al Castello di Rivoli nel 1998. McCracken partecipa inoltre a View from Abroad: European Perspectives on American Art; 3 American Realities, curata da Adam D. Weinberg e Nicholas Serota al Whitney Museum of American Art.
Nel 1998, la galleria Studio La Città di Verona presenta al pubblico italiano opere recenti di McCracken nell’ambito della sua prima ampia personale nel nostro Paese, seguita dalla rassegna presso la galleria A Arte Studio Invernizzi a Milano, dove l’artista espone opere degli anni Novanta.
Nel 1999, i primi lavori realizzati da McCracken sono inclusi in diverse mostre collettive come The Museum: Highlights from the Collection; an Archive of the Pasadena Art Museum; Radical Part: Contemporary Art & Music in Pasadena, 1960-1974, al Norton Simon Museum of Art, Pasadena, e in The American Century: Art and Culture Part II: 1950-2000 al Whitney Museum of American Art. Si tengono inoltre mostre personali alla James Kelly Contemporary, Santa Fe e alla galleria Hauser & Wirth di Zurigo.
Negli anni seguenti vengono realizzate mostre che includono sia la produzione storica dell’artista sia i nuovi lavori: Made in California: Art, Image, and Identity, 1900-2000, Los Angeles County Museum of Art nel 2000, Les anneées 70: l’art en cause, CAPC Musée d’art contemporain de Bordeaux nel 2002, Primary Matters: The Minimalist Sensibility, 1959 to Present, San Francisco Museum of Modern Art, nel 2003.
A partire dal 2004 il lavoro di McCracken è presentato in una serie di mostre internazionali come Singular Forms (Sometimes Repeated): Art From 1951 to the Present, Solomon R. Guggenheim Museum, New York e A Minimal Future? Art as Object 1958-1968, Museum of Contemporary Art, Los Angeles and in Beyond Geometry. Experiments in Form, 1940s-1970s, Los Angeles County Museum of Art Los Angeles; in una mostra personale allo S.M.A.K. di Gand e in Los Angeles, 1955-1985. Naissance d’une capitale artistique, presso il Centre Georges Pompidou a Parigi.
Nel 2007 una selezione di opere è inclusa in documenta 12, Kassel curata da Roger Buergel e Ruth Noack. L’anno seguente, il lavoro dell’artista viene esposto nella mostra John McCracken, alla Inverleith House, Royal Botanic Garden a Edimburgo.
Nel 2010 David Zwirner gli dedica una mostra personale incentrata sui lavori in bronzo e acciaio.
La mostra
La rassegna, appositamente concepita per i grandi spazi della Manica Lunga del Castello di Rivoli, copre l’intero arco della produzione artistica di John McCracken, leggendario esponente del minimalismo West Coast.
La mostra segue tendenzialmente un percorso cronologico attraverso un allestimento ideato personalmente dall’artista e dal curatore. Attraverso il percorso allestito nel singolare ambiente castellamontiano del museo, vengono scanditi i passaggi e le diverse fasi della ricerca dell’artista, sottolineandone in tal modo le differenze, come anche la straordinaria coerenza.
La mostra si apre con una prima sezione dedicata ai lavori pittorici, mentre una seconda parte è dedicata alle opere bidimensionali derivate dai lavori precedenti, ossia le prime sculture e i primi oggetti dell’artista, alcuni dei quali richiamano elementi architettonici arcaici o egizi. Seguono un’ importante serie delle celebri Planks e un’intera sezione dedicata ai Mandala. La rassegna si conclude quindi con le opere degli ultimi anni che includono, tra le altre, sculture a parete e alcuni monoliti.
Il percorso espositivo si apre e si chiude virtualmente con due imponenti ed emblematiche opere inedite in acciaio specchiante, Wonder e Fair entrambe del 2010, realizzate appositamente per la retrospettiva al Castello di Rivoli.
Opere in mostra
Cathedral (Cattedrale), 1962, olio su tela, 61 x 91,4 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Look (Sguardo), 1962, olio su tela, 36,1 x 37,3 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Bandolier (Bandoliera), 1962, olio su tela, 62,2 x 67,8 cm, Collezione privata, courtesy l’artista
Painting 03 (Quadro 03), 1963, olio su tela, 44 x 46,4 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Painting 05 (Quadro 05), 1963, acrilico su tela, 55,9 x 55,9 cm, Collezione Margaret Eibert, New Jersey, courtesy l’artista
Theta-Two (Teta due), 1965, lacca, fibra di vetro, legno, 53,3 x 55,9 x 19 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Mykonos, 1965, lacca, fibra di vetro, compensato, 38,1 x 41,9 x 17,8 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione Betty Asher, courtesy l’artista
Blue Post and Lintel I (Pilastro e architrave blu I), 1965, lacca, fibra di vetro, compensato, 259 x 81,28 x 43,18 cm, Norton Simon Museum of Art, Pasadena, donazione Frederick R. Weisman e Signora Weisman, courtesy l’artista
Untitled (Blue Block) (Senza titolo-blocco blu), 1966, lacca, fibra di vetro, compensato, 27,9 x 31 x 18 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Red Block) (Senza titolo-blocco rosso), 1966, lacca, fibra di vetro, compensato, 20,3 x 27,9 x 25,4 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Green Block) (Senza titolo-blocco verde), 1966, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 31,1 x 18,4 x 27,9 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Brown Block in Three Parts (Blocco marrone in tre parti), 1966, lacca, legno, 3 elementi, dimensioni totali, 88,9 x 95,25 x 35,56 cm, Collezione Mireille Mosler, Long Island City, courtesy l’artista
Red Plank (Asse rossa), 1966, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 243,8 x 29,2 x 2,5 cm, Collezione Frank e Berta Gehry, courtesy l’artista
Think Pink (Pensiero positivo), 1967, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 266,7 x 46,4 x 8 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York e Hauser & Wirth, Londra e Zurigo
Yellow Plank (Asse gialla), 1968, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 238,8 x 36,2 x 3,2 cm, Berlant Family Collection, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Untitled (Senza titolo), 1970, resina di poliestere, compensato, 129,7 x 129,7 x 6,5 cm, courtesy Friedrich Christian Flick Collection im Hamburger Bahnhof
Kapai, 1970, acrilico su tela, 40,6 x 40,6 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Red) (Senza titolo-rosso), 1971, acrilico su tela, dimensioni, Collezione privata, courtesy Franklin Parrasch Gallery, New York
Untitled (Black) (Senza titolo-nero), 1971, acrilico su tela, dimensioni, Collezione privata, courtesy Franklin Parrasch Gallery, New York
Untitled (Blue) (Senza titolo-blu), 1971, acrilico su tela, dimensioni, Collezione privata, courtesy Franklin Parrasch Gallery, New York
Red Cube (Cubo rosso), 1971, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 40,6 x 40,6 x 40,6 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione Avco Financial Services, Newport Beach, California
Tantric (Tantrico), 1971, acrilico su tela, 40,6 x 40,6 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Untitled (Senza titolo), 1971, acrilico su tela, 61 x 61 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Ophirin, 1972, olio su tela, 76,1 x 76,1 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Abritaine, 1972, olio su tela, 76,1 x 76,1 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala I, 1972, [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala II, 1972, [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala VII, 1972 [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Mandala VIII, 1972 [marzo], pennarello su carta, 24,5 x 24,5 cm, courtesy Elkon Gallery, Inc., New York
Red Pyramid (Piramide rossa), 1974, resina di poliestere, legno, 25,4 x 40,6 x 40,6 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione Mr. e Mrs. M. A Gribin
Untitled (Senza titolo), 1974, lacca, legno, 243,8 x 48,3 x 5,7 cm, Collezione Museum of Contemporary Art San Diego, donazione promessa da Ruth Gribin Non-Exempt Q Tip Marital Trust
Black Resin Painting 1 (Quadro resina nera I), 1974, resina di poliestere, legno, 81,9 x 122,6 x 5,4 cm, Collezione Orange County Museum of Art, donazione di Mr. e Mrs. M.A. Gribin, California
Untitled (Senza titolo), 1974, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 237,5 x 45,2 x 5,1 cm, Collezione Privata, Germania, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Untitled #3 (Senza titolo n. 3), 1974, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 82,5 x 122,5 cm, Collezione Privata, Germania, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Pyramid (Piramide), 1976, acrilico, legno, 30,5 x 40,6 x 40,6 cm, Collezione Museum of Contemporary Art San Diego, donazione John Norton
Untitled (Senza titolo), 1983, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 274,3 x 6,4 x 5,8 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Untitled #V (Senza titolo n. V), 1985, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 294,7 x 63,5 cm, Collezione Vanmoerkerke, Belgio
Irydi, 1987, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 79 x 305 x 10 cm, Heinz Peter Hager, Bolzano, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Alpha I (Alfa I), 1988, acciaio inossidabile, 38 x 24 x 35 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Mandrake, 1989, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 244 x 58,5 x 50,5 cm, Collezione Dr. Klaus Lafrenz, Wesenburg Museum für Moderne Kunst, Bremen
Minnesota, 1989, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 244 x 69 x 43 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Thor, 1990, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 228 x 81 x 50 cm, Vanmoerkerke Collection, Belgio
Rama, 1990, pittura, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 12 x 244 x 13 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Ra, 1991, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 53,98 x 584,2 x 35,56 cm, L.A. Louver
Spaceway, 1991, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 19,1 x 269,2 x 34,3 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
Alaska, 1991, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 40 x 128,5 x 23 cm, Collezione Musée de Grenoble, Grenoble
Guardian (Guardiano), 1995, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 114,8 x 121,9 x 40,16 cm, Collezione Ursula Hauser, Svizzera
On Stream (Energia), 1998, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 129 x 33,5 x 18,5 cm, courtesy Studio la Città, Verona
On High (Euforia), 1998, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 49,5 x 150,5 x 30 cm, courtesy Studio la Città, Verona
On the Go (In moto), 1998, resina poliestere, fibra di vetro, compensato, 93 x 127,5 x 28 cm, courtesy Studio la Città, Verona
On the Beam (Sul raggio di luce), 1998, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 45 x 77, 5 x 22,5 cm, courtesy Studio la Città, Verona
Burst (Scoppio), 2000, lacca, resina di poliestere, fibra di vetro, legno, 11,5 x 122 x 14 cm, Collezione Privata, Germania, courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano
Aqua (Acqua), 2002, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 234 x 36 x 109,5 cm, Collezione Vanmoerkerke, Belgio
Cosmos (Cosmo), 2008, resina di poliestere, fibra di vetro, compensato, 8 elementi, dimensioni totali 243,8 x 315 x 34,3 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Opere inedite appositamente realizzate per la mostra
Wonder, 2010, acciaio, 294,6 x 45,7 x 35,6 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Fair, 2010, acciaio, 294,6 x 43,2 x 36,8 cm, courtesy l’artista e David Zwirner, New York
Dai testi in catalogo
UN MASSIMALISTA DEL MINIMALISMO
Andrea Bellini
Il termine “minimalismo”, mai definito con precisione, fa genericamente riferimento a un movimento artistico apparso a New York e Los Angeles durante gli anni Sessanta. I suoi maggiori rappresentanti, come Carl Andre, Dan Flavin, Donald Judd, Sol LeWitt, Robert Morris, John McCracken e Larry Bell, praticano principalmente la scultura, realizzando forme geometriche singole, oppure in serie, secondo una logica modulare. Prodotte spesso in ambito industriale, grazie all’ausilio di nuove tecnologie e di una manodopera specializzata, le opere minimaliste non recano traccia alcuna di emozione e intuizione, aspetto invece centrale nel contesto della scultura e della pittura espressionista astratta degli anni Quaranta e Cinquanta. L’opera minimalista, realizzata di preferenza con materiali industriali, rinvia alla sua presenza letterale, è un oggetto geometricamente definito, caratterizzato dal rigore esecutivo, dall’assenza di decorazione e di qualsiasi riferimento allegorico. Nonostante questi generici presupposti, sottolineati già nel 1965 dal filosofo americano Richard Wollheim, che coniò il termine “minimalismo”, gli artisti minimalisti non hanno mai redatto un vero e proprio “manifesto” sul modello delle avanguardie storiche. Al contrario essi hanno sempre rifiutato l’idea di un movimento coerente, considerando le proprie pratiche non solo molto diverse, ma spesso tra loro contraddittorie.
Il caso di McCracken in questo senso è emblematico: il suo lavoro esprime un carattere fondamentalmente scismatico ed eterodosso, rispetto a quelli che sono genericamente considerati gli assunti di base di questa corrente artistica. Quando l’artista, a partire dal 1964, ha cominciato a esporre i suoi lavori, la critica ha incoraggiato una certa lettura della sua opera, senza indagare in profondità le ragioni interne e il significato originale della sua ricerca. Si trattava insomma, per promuovere il nuovo movimento, di mettere in evidenza gli elementi comuni piuttosto che le differenze tra i diversi artisti. Questo atteggiamento ha contribuito da un lato al rapido successo mediatico del gruppo, dall’altro all’uscita di scena, altrettanto rapida, di quelle personalità percepite subito come irregolari e, in qualche modo, bizzarre. Dopo aver partecipato, tra il 1965 e il 1971, alle mostre più importanti dedicate al movimento, McCracken entra gradualmente in un limbo di dimenticanza per circa un quindicennio.
Negli ultimi anni l’attenzione per il suo lavoro nasce da una nuova percezione del significato della sua ricerca, e in generale dell’arte californiana. Le ragioni per le quali il Finish Fetish1 è tornato oggi al centro dell’interesse della critica sono diverse. Già a partire dalla metà degli anni Ottanta2 si è cominciato a vederlo come una pratica minimalista meno ideologizzata e quindi più aperta e visionaria rispetto a quello della East Coast. Una nuova generazione di critici e di curatori, sia americani sia europei, ha iniziato a guardare con curiosità al suo stretto legame con la cultura e con la luce della California del sud, con gli anni Sessanta, la street culture, la fantascienza e le nuove tecnologie. I lavori di McCracken in particolare, appaiono sempre più spesso in mostre che esulano dal contesto dell’arte minimalista. L’artista americano ha recentemente partecipato con diverse sculture, dipinti e disegni a documenta 12 a Kassel (2007), e a molte altre esposizioni dedicate ai temi più diversi, come la psichedelia, gli Ufo o il design. […]
Il suo lavoro, come si vuole dimostrare con questa retrospettiva e con il presente catalogo, esprime una complessità debordante rispetto alla nostra comune nozione di “oggetto minimale”; per questa ragione si presta a essere inserito in contesti espositivi molto
diversi. Lo scopo, tuttavia, non è quello di offrire una lettura “alternativa”, non minimalista, della sua arte: McCracken rimane indubbiamente uno dei maggiori esponenti storici del movimento americano, insieme a Judd, Andre, Flavin, Anne Truitt, Morris, Bell e altri. Semmai è necessario, al fine di una sua corretta comprensione, allargare il nostro orizzonte teorico del Minimalismo, cogliendone – accanto al suo preteso empirismo radicale – quello che potremmo definire il suo lato più misterioso ed enigmatico.
Quando, intorno ai primi anni Sessanta, McCracken vede per la prima volta sulle riviste d’arte le opere di Judd e Andre ne rimane subito impressionato. Il lavoro degli artisti newyorchesi incontra la sua sensibilità e i suoi interessi: in quel momento, infatti, l’artista californiano pratica una pittura astratta caratterizzata da una forte tendenza alla sintesi formale. Se la direzione di ricerca in qualche modo coincide, i motivi che la muovono sono, in realtà, molto diversi. Flavin, LeWitt, Andre, Morris e soprattutto Judd che esordisce come critico d’arte, hanno ricevuto una formazione accademica, studiano filosofia ed estetica: vogliono prendere posizione rispetto alla storia dell’arte e hanno gli strumenti per farlo. Tra il 1959 e il 1968 pubblicano una serie di articoli su riviste come “Arts Magazine” e “Artforum”, attraverso i quali teorizzano attorno al proprio lavoro con un senso di impegno civile e intellettuale: conducono una battaglia di idee nei confronti della generazione precedente, nei confronti dell’arte gestuale degli espressionisti astratti, promuovendo un’arte impersonale e neutrale.
Lo stesso McCracken scrive molto3, ma solo sui suoi taccuini di disegni: si tratta di una sorta di scrittura privata, di diario intimo sotto forma di piccoli aforismi e di brevi testi relativi alla propria ricerca. L’artista non è un teorico e non pensa alla propria opera in contrapposizione a quella della generazione precedente: al contrario il suo lavoro è imbevuto di una sensibilità Pop e di una cultura pittorica astratta, che non tarderà a rivelare anche una componente gestuale4. Il Minimalismo per McCracken non è una patria da difendere ma un territorio da percorrere e contaminare senza inibizioni: egli guarda, ad esempio, alla cultura di strada californiana; tratta le superfici delle proprie sculture con resine colorate come molti giovani allora trattavano, personalizzandole, le carrozzerie delle proprie automobili; cerca nella forma e nel colore un’idea di bellezza e di sensualità, e quindi di trascendenza e di assoluto. Egli non considera le proprie sculture come oggetti inespressivi, freddi e oggettivi, ma come entità vive e autonome, come veri e propri “esseri”. L’artista ha lavorato tutta la vita alla produzione di sculture geometriche astratte, come gli altri minimalisti, rivendicandone il carattere fondamentalmente antropomorfo e quindi anche una dimensione soggettiva, intesa come forma di alterità assoluta. In fondo l’eresia di McCracken è proprio questa: egli condivide l’idea degli espressionisti astratti secondo la quale l’astrazione trascende il mondo materiale. I suoi lavori hanno quindi sempre un contenuto allusivo e metafisico, e rimandano ad altro, a una idea di bellezza, di energia, di perfezione e di rivelazione. Tutto il lavoro dell’artista è legato a questo problema della percezione e dell’incontro di due mondi paralleli, quello fisico e quello mentale, quello visibile e quello invisibile. McCracken è convinto che la nostra realtà sia più ricca di quello che crediamo e che possiamo vedere a occhio nudo, e l’arte – a suo avviso – può dare forma a questa parte nascosta della materia e dell’universo; può quindi cambiare il mondo, risvegliare le coscienze e arricchire la nostra vita. Per McCracken, l’arte è innanzitutto una questione di emancipazione, estetica e spirituale: in questo senso egli vede i suoi lavori come dei prototipi per un mondo che verrà, un mondo che sarà dominato dal puro pensiero e da una forma di bellezza assoluta. Insomma se Morris, Andre e Judd il Minimalismo lo pensano e lo teorizzano, McCracken al contrario lo visualizza, lo sogna. I primi affermavano che non esiste altra
verità che dentro il rapporto con i fenomeni empirici, mentre per il secondo la verità è nell’invisibile e nel trascendente. Rispetto al senso dell’ironia e al distacco intellettuale di Andre o Judd, in McCracken persiste fondamentalmente un progetto di modernità: l’artista immagina una sorta di riconciliazione dell’uomo con la tecnologia, nella prospettiva della costruzione di un mondo migliore. McCracken è uno degli ultimi grandi idealisti del mondo dell’arte5, un artista che vede nell’opera il mezzo per una esperienza contemplativa alta e misteriosa, in grado di creare una connessione diretta con i misteri della vita e le leggi insondabili dell’Universo.
La dimensione onirica, visionaria, legata alla convinzione dell’esistenza di una vita extraterrestre, rappresentano una parte importante, autenticamente sentita e vissuta, della vita dell’artista e della sua produzione artistica. Molte foto, che pubblichiamo anche in questo catalogo, ritraggono McCracken davanti a ipotetici luoghi di avvistamenti o di atterraggio di Ufo. In diverse occasioni l’artista ha dichiarato di aver viaggiato nel tempo e nello spazio, di essere capace di volare sopra il proprio corpo e di aver avuto incontri ravvicinati con gli alieni. Si tratta di una personalità riservata e cordiale, metodica e profondamente coerente, un artista che si pone nel mondo con singolarità, con una attitudine calma e con una tendenza a viaggiare costantemente tra conscio e inconscio, tra sonno e veglia, tra questo luogo che vediamo tutti e un’altra dimensione che vede solo lui. Nel mezzo, tra i due mondi, rimangono le sue opere, realizzate tutte a mano con grande meticolosità fino a ottenere delle superfici sensuali e vive, seriali e uniche al tempo stesso. Gli infiniti passaggi di lucidatura delle vernici sintetiche sparse sulle forme realizzate in legno, producono oggetti caldi e sensuali, pronti a riflettere la luce e a cambiare grazie a essa, un aspetto fondamentale questo di molta arte della California del sud. Inoltre se nel caso di molti altri artisti minimalisti il metodo di costruzione è dichiarato e ai materiali si chiede di rappresentare semplicemente se stessi, nel caso di McCracken le vernici sintetiche dissimulano il materiale costruttivo e il procedimento di realizzazione dell’opera: ci troviamo di fronte a oggetti di cui ignoriamo la natura, la costituzione, la composizione. Così ai colori, ai bianchi e ai neri utilizzati da molti minimalisti East Coast, con l’intento di eliminare dall’opera qualsiasi aspetto vagamente sentimentale e allusivo, McCracken oppone un ampio ventaglio cromatico: dal rosa al viola, dal marrone al rosso, dal lavanda al blu, dall’azzurro al giallo. Il colore diventa il materiale stesso, è una materia cangiante che vibra e si trasforma in relazione alla luce. L’opera cambia quindi di stato, non è più scultura o pittura ma tutte e due le cose insieme: è un coacervo di energia che entra in relazione con quella propria dell’osservatore. Pur all’interno di una grande variabilità di forme, l’artista cerca di individuare sempre per le sue opere delle dimensioni che possano avere un rapporto preciso con il corpo umano. Il pubblico è tenuto a instaurare con le opere una relazione fisica, costruita su un equilibrio di forze tra corpi, tra enti, tra soggetti. Se serve, a differenza di tutti gli altri minimalisti, McCracken torna a utilizzare perfino il classico piedistallo, del quale calcola con precisione l’altezza, per far in modo che chi osserva i lavori di piccole dimensioni sia obbligato a inclinarsi, a sporgersi verso di loro, e quindi a entrare in contatto con l’energia, con l’aura come dice egli stesso, che queste forme emanano nello spazio.
La retrospettiva
Questa di McCracken rappresenta la terza ampia mostra monografica dedicata dal Castello di Rivoli ai maggiori esponenti del Minimalismo, dopo quelle di Andre e Judd curate da Rudi Fuchs nella seconda metà degli anni Ottanta. La presente retrospettiva include un’ampia selezione di opere che ripercorrono l’intero percorso creativo di McCracken, dai primissimi quadri del 1962 e 1963, mai esposti prima di questa occasione,
alle sculture, come Mykonos (1965), per le quali utilizza per la prima volta un rivestimento in fibra di vetro su strutture in legno, fino ad alcuni celebri Mandala pittorici dei primi anni Settanta.
Come già sottolineato da Dan Cameron, uno degli aspetti più interessanti del lavoro di McCracken è proprio l’ibridazione perfetta di pittura e scultura: superficie, colore, forma e luce convergono in un singolo oggetto che è al tempo stesso pittorico e scultoreo. Emblematiche al riguardo sono le sue celebri Plank (Asse), delle semplici assi, alte e allungate, che l’artista poggia a terra e contro il muro, di cui presentiamo in questa occasione un’interessante serie. Realizzati per la prima volta nel 1966 e presentati l’anno successivo presso la Robert Elkon Gallery di New York, questi lavori testimoniano la volontà dell’artista di giungere a una forma estrema di semplificazione formale: l’opera, pur essendo priva di un senso della profondità, occupa uno spazio tridimensionale, ponendosi al tempo stesso come oggetto e come luogo di esplorazione pittorica. Le assi possono, infatti, essere monocrome, come le prime Red Plank (Asse rossa), 1966 e Think Pink (Pensiero positivo), 1967, ma anche essere trattate come delle vere e proprie tele, con composizioni astratte e policrome.
Presentiamo inoltre in questa occasione una serie di lavori esposti raramente, soprattutto in Europa, come le Piramidi (Pyramids) e Blue Post and Lintel I (Pilastro e architrave blu I), 1965, sculture ispirate all’architettura antica, in particolare quella egizia, un’architettura capace di raggiungere, secondo McCracken, un alto livello di alterità e trascendenza6. L’interesse per queste forme elementari deriva direttamente dalla confidenza dell’artista nel loro carattere immutabile e universale, e quindi nella loro efficacia formale e spirituale. McCracken insegue attraverso queste forme esemplari il fantasma delle origini, e quindi il sogno di un passato remoto capace di sopravvivere nel futuro più lontano. Seguendo questa direzione di ricerca l’artista arriva già nel 1967 al primo monolite, forma di alterità ed enigmaticità assoluta desunta direttamente dall’immaginario preistorico, di cui presentiamo alcuni straordinari esempi come Minnesota (1989). La mostra comprende poi un’ampia serie di sculture realizzate negli ultimi trent’anni, alcune delle quali molto recenti come Cosmos (Cosmo), 2008, attraverso le quali si mette in evidenza il livello di ossessione, di grande coerenza e straordinaria circolarità del lavoro di McCracken. […]
Note:
1) Il Minimalismo californiano è stato definito storicamente “finish fetish art” o anche “light and space art”.
2) D. Cameron, High-Tech Redux, in “Flash Art International”, New York, estate 1988, pp. 102-108.
3) Si tratta di testi che pubblica già alla fine degli anni Sessanta ma solo sui propri cataloghi.
4) A partire dal 1973 McCracken comincia a dipingere con la tecnica dell’olio su tela, e tende a comporre mosaici astratti e multicolore realizzati grazie a piccoli colpi di pennello.
5) John McCracken, Sculptures, Art & Public, Ginevra, 1994, p. 6.
6) T. Kellein, Interview with John McCracken, in McCracken, Kunsthalle Basel, Basilea, 1995, pp. 22-38.
PERFETTAMENTE ESEGUITI
Alex Farquharson
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John McCracken è ora più visibile che mai, persino più che ai tempi del massimo fulgore del Minimalismo negli anni Sessanta. […] Perché mai McCracken, artista nato a Berkeley nel 1934 e residente attualmente a Santa Fe nel New Mexico, il quale parla dell’alto scopo dell’arte in termini elegiaci se non addirittura cosmici, occupa questa posizione simbolica ai giorni nostri? Cosa stimolano la sua opera e le sue parole per avere ancora tanta parte nell’accoglienza riservata oggi al Minimalismo, un movimento le cui posizioni critiche
prevalenti erano risolutamente materialiste e irriducibilmente terrene? […] Di primo acchito McCracken è un buon minimalista. Di tutte le opere connesse con il cosiddetto “L.A. Look” – che abbraccia il Minimalismo Pop di Ed Ruscha, Billy Al Bengston e Joe Goode, la scultura minimalista Finish Fetish di Craig Kauffman, Peter Alexander e DeWain Valentine e gli ‘interventi sullo Spazio e sulla Luce’ di Robert Irwin, Doug Wheeler e James Turrell – le sculture di McCracken, probabilmente insieme a quelle di Larry Bell, sembrano conformarsi maggiormente agli “oggetti specifici” (Donald Judd, 1965) e alle “strutture primarie” (Kynaston McShine, 1966) dei più noti esponenti newyorchesi della “Minimal Art” (Richard Wollheim, 1965) o, come è ora universalmente conosciuto, del Minimalismo. […] Le opere di McCracken si conformano ai principi minimalisti nella misura in cui sono unici e semplici poliedri che instaurano un rapporto diretto con gli spazi e gli spettatori. Soprattutto le Plank, che collegano lo spazio della scultura (il pavimento) con quello della pittura (la parete), essendo tridimensionali e al contempo costituite da vernice su un supporto nascosto, “non sono né pittura né scultura”, come diceva Judd degli “oggetti specifici” o altrimenti sono pittura e scultura insieme. Probabilmente McCracken le definisce sculture per comodità e perché occasionalmente realizzava anche serie di quadri. L’origine delle sue sculture, attraverso una serie di rilievi, era riconducibile ai semplici, unitari “dipinti simbolici: X, croci, cerchi e frecce” che realizzava nei primi anni Sessanta. […] Nella scultura di McCracken, il colore effettivamente è complementare: ci sono sempre, nascosti sotto molteplici strati di vernice da automobili, resina e colore, un blocco geometrico o un’asse di legno. Ma l’effetto che fa non è questo. Si ha piuttosto l’impressione di vedere un colore tridimensionale: colore che si è in qualche modo materializzato. Le superfici sono così perfette e lisce che fugano qualsiasi sospetto che ci sia una struttura sottostante. Sebbene si sia a conoscenza del fatto che gli oggetti sono solidi, la lucentezza delle superfici dona loro una qualità liquescente come se potessero dissolversi in una pozza di pittura qualora la temperatura salisse. McCracken tratta il colore come se fosse materiale, dal momento che è tutto quello che riusciamo a vedere. La ragione è che il colore è di per sé più astratto di qualunque altro materiale ravvisabile. La perfezione delle superfici lucidate nega al colore la sua materialità in quanto pittura: non presenta grana né patina e non rivela tracce di come sia stato applicato. “Il colore è il ‘materiale’ più importante che uso. Trattandosi in realtà di una qualità e non di un materiale – a parte il fatto che è emotivamente evocativo – il colore è fin dal principio una caratteristica astratta”12. Le sue sculture sembrano fatte di colore invece di essere dei materiali verniciati con il colore. Si sono materializzate in quanto occupano uno spazio reale e tuttavia appaiono prive di identità materiale. Pertanto mentre le forme semplici delle “cose uniche” di McCracken rivendicano la loro fisicità in un senso – ossia in rapporto con gli spazi in cui vengono viste e con gli spettatori che girano loro intorno – i valori dei loro colori e superfici in realtà “sovvertono la fisicità”, come Morris sosteneva che il colore fa con la scultura. Ma nel sovvertire la fisicità, le opere di McCracken asseriscono molto altro ancora. Sebbene la loro geometria sia austera, il colore e le superfici delle sculture suscitano la sensazione di una pienezza esperienziale che è assente dalle opere di molti suoi omologhi di New York, anche di coloro che usavano il colore […]. Mentre Judd e gli altri intitolavano abitualmente le proprie opere Untitled (Senza titolo), McCracken per i titoli delle opere si ispirava alle fonti più disparate, come l’astronomia, l’astrologia, i personaggi di Shakespeare, le divinità dell’Antico Egitto e induiste, minerali preziosi, forze della natura e espressioni onomatopeiche che indicano movimento (ad esempio “whoosh” ecc.). Questa comprensività poteva includere anche cose effimere e quotidiane: diverse sculture a partire dal 1967 prendono il titolo dagli articoli delle riviste di moda, Think Pink
(Pensiero positivo), Live it up in Lilac (Emozionare in lilla), Case for Fakery in Beauty (A favore della manipolazione della bellezza) e persino The Absolutely Naked Fragrance (La fragranza assolutamente nuda) tutte del 1967, riferimenti a un insieme di associazioni estetiche femminili, commerciali e cosmetiche, in contrasto con il mondo sobrio e maschile di molta arte minimalista, i cui corrispondenti industriali erano i depositi di legname all’aperto, le autofficine e le catene di montaggio. “Semplicemente magnifico” è la frase che McCracken usava talvolta.14
Allora McCracken, come gran parte dell’entourage artistico di Los Angeles, viveva a Venice, piccola comunità bohémienne sulle spiagge a sud di Santa Monica. A stretto contatto con artisti, scrittori e musicisti, vivevano giovani surfisti e appassionati di custom car che condividevano con gli artisti Finish Fetish il culto per i nuovi materiali, i colori sensuosi, le forme aerodinamiche e le superfici perfette. Le tecniche e le finiture di McCracken hanno delle analogie sia con la produzione delle tavole da surf sia con la personalizzazione delle auto: numerosi strati di lacca, impiego della resina e laboriosi interventi di sabbiatura e lucidatura. E per alcuni versi, come accadeva spesso allora nell’arte di Los Angeles in quegli anni, ottenevano il medesimo risultato sensuale: superfici così brillanti e levigate da creare complessi e coreografi ci giochi di luce man mano che l’angolo di visuale cambiava rispetto all’oggetto, moltiplicando gli effetti fenomenologici del Minimalismo unicamente attraverso le qualità della superficie; effetti non dissimili dalle immagini create dal gioco dell’intensa e tersa luce californiana sulla superficie delle onde dell’oceano o sulla lucente carrozzeria delle automobili in movimento. […] Tuttavia malgrado la stesura manuale del colore e le concessioni dell’opera di McCracken, le sue sculture appaiono ancora più lontane da una quotidianità contestualizzata nel tempo e nello spazio rispetto alle opere astratte della maggioranza degli artisti appartenenti al movimento Finish Fetish. […] Le recenti opere di acciaio e bronzo lucidati che fungono da specchi tridimensionali, portano gli effetti smaterializzanti e della dislocazione della scultura alla sua logica estrema. Delle sculture verniciate McCracken faceva osservare che “Le immagini riflesse sulla superficie diventano parte integrante delle sculture e tendono a smaterializzarle… Talvolta alcune sculture sembrano quasi sparire e diventare allusioni, pertanto più che descrivere queste cose come oggetti, sarebbe meglio descriverle come complessi di energie”. […] Nonostante la nostra esperienza delle opere d’arte avvenga nel presente, McCracken si propone di fare delle opere che giungano nel presente dal futuro. Il suo scopo è di fare oggetti che abbiano il loro “essere primario”, un’amplificazione piuttosto che una confutazione del senso della presenza che la scultura minimalista molto spesso riesce tangibilmente a ottenere. Le sculture di McCracken appaiono perfettamente eseguite. La perfezione delle loro superfici cancella ogni traccia del fatto che siano state realizzate dalla mano di un artista. Sembra che le sculture si siano auto-materializzate, che siano prive di autore. In quanto puro colore tridimensionale appaiono immateriali o costituite da qualcosa che non si può trovare nel mondo. Questi oggetti enigmatici che si trovano in mezzo a noi eppure sono totalmente autonomi, acquistano una quasi-soggettività. “In un certo senso sono come degli alieni”, esseri a sé stanti 25.
L’arte di McCracken aiuta a capire il mistero e l’alterità impliciti nel Minimalismo in generale, non come qualcosa che nega o contraddice il suo materialismo radicale, ma come qualcosa che estende le coordinate spazio-temporali che quest’arte occupa più e più volte, forse all’infinito.
Note:
12) J. McCracken, Artist’s statement [1999], in Minimalism, cit., p. 291.
14) “In quel periodo sfogliavo le riviste di moda femminili perché effettivamente vi trovavo anche degli articoli di arte come quello di John Coplans intitolato Art Bloom, pubblicato su ‘Vogue’. (Citava tra le atre alcune mie opere)… Avevo l’impressione che fossero anch’esse quasi delle riviste d’arte. Ho preso da loro qualche idea per i colori e i titoli”.
25) Interview / John McCracken and Matthew Higgs, in Early Sculpture. John McCracken, cit., p. 10.
IL LINGUAGGIO DEGLI EXTRATERRESTRI AL SERVIZIO DELLA MINIMAL ART
(O COME AVERE PERFETTA PADRONANZA DI UNA LINGUA PARLANDONE UN’ALTRA)
Marc-Olivier Wahler
Quando si descrive l’opera di John McCracken, il ricorso al termine Minimalismo è sistematico. Non c’è articolo o saggio che non affronti immediatamente il lavoro dell’artista californiano dal punta di vista del Minimalismo. In genere gli artisti non amano essere catalogati, tanto più che il Minimalismo è una corrente che raggruppa tendenze così diverse da rendere quasi impossibile una qualsiasi definizione oggettiva. Ma diversamente dai suoi colleghi qui è l’artista stesso ad accettare l’“etichetta”: “(…) Essa […] definisce sommariamente un certo tipo d’arte e fornisce un orientamento alle persone che si avvicinano all’opera. (…) Il termine minimalismo non mi dispiace perché la maggior parte del lavoro consisteva nel minimizzare, ridurre, condensare”1. In effetti, è allettante affrontare un lavoro di questo tipo con lo sguardo dello storico dell’arte e rilevare con quale facilità le opere di McCracken incoraggino a un’analisi basata sugli elementi linguistici specifici del Minimalismo (“forme elementari”, “assenza d’espressione”, “superfici neutre”, “materiali industriali”, “ripetizione”, e ricorrendo addirittura alle teorie della Gestalt).
MODELLI
Le opere di McCracken potrebbero perfino essere considerate modelli esemplari dell’arte minimalista. Prendiamo ad esempio la famosa serie Planks (Assi), tavole di legno rettangolari, alte e sottili, rivestite in resina di poliestere, sabbiate e accuratamente levigate così da ottenere una superficie perfettamente piana, priva di qualsiasi asperità che possa catturare lo sguardo. L’installazione di queste forme elementari è la più semplice immaginabile: appoggiate alla parete. Molti scritti sono stati dedicati all’analisi di questa serie, in particolare al modo in cui le Planks prendevano possesso del suolo e diventavano, al tempo stesso, parte integrante del muro, mettendo così in evidenza la permeabilità di categorie quali pittura e scultura. “Troppo sottili per rimanere saldamente verticali, questi raffinati e lucidissimi oggetti richiedono come supporto il muro. In un certo senso è un espediente ricollegabile ai tentativi di altri artisti alla fine degli anni Sessanta, quali Donald Judd e Frank Stella, di rendere il muro e lo spazio circostante il lavoro parte integrante dell’opera”2. […] Di fronte a una Plank, non c’è più modo di ricorrere alla tradizionale logica selettiva (pittura O scultura, opera d’arte O oggetto ordinario ecc.), bisogna adottare una logica addizionale (è una pittura E una scultura, un’opera d’arte E un oggetto ordinario ecc.).
PARLARE DI UN’OPERA CON UN LINGUAGGIO PRECOSTITUITO
Potremmo continuare così a snocciolare gli argomenti che dimostrano l’importanza del lavoro di McCracken all’interno dell’arte minimalista e la pertinenza dei suoi propositi formali. […] Come parlare allora d’arte con il linguaggio sviluppato da chi è autorizzato a parlarne, e come parlare di conseguenza di un’opera con il linguaggio sviluppato da chi è
autorizzato a parlare di opere? […] Nel nostro caso, piuttosto che interrogarci sugli elementi che possono costituire un’analisi appropriata di un’opera, suggerisco di cominciare da un altro quesito, a mio avviso più pertinente: “come parlare dell’opera?”, evitando il ricorso al linguaggio prestabilito dagli utenti del mondo dell’arte. Allo scopo, suggerisco di seguire il consiglio dato da Umberto Eco a un suo assistente preoccupato di dover insegnare a studenti del primo anno una disciplina difficile come la semiologia. “Parli loro di tutto tranne che di semiologia – suggerì il maestro – e loro comprenderanno la semiologia”. È immaginabile un simile approccio per parlare di un artista e del suo lavoro, o addirittura dell’arte contemporanea nella sua globalità? Parlare di tutto tranne che d’arte contemporanea induce davvero a parlare diversamente dell’arte contemporanea? Per provare questa ipotesi, bisogna uscire dal mondo dell’arte e puntare a sistemi di pensiero, racconti, modi di vedere che impongano una qualche interpretazione del mondo, e spostino a un momento successivo lo schema di lettura indotto da queste interpretazioni nel mondo dell’arte, così da vedere in che modo è possibile stabilire nuove soluzioni linguistiche.
IL CONTRIBUTO DEGLI EXTRATERRESTRI
Il modo in cui McCracken si esprime sul suo lavoro è a questo proposito illuminante: se si guarda ai suoi lavori con l’occhio dello storico dell’arte, abbiamo visto che è facile considerarli modelli perfettamente integrati in quello che il mondo dell’arte ha definito “minimalismo”.
Ma i propositi dell’artista sono sconcertanti. Da un lato, descrive i suoi lavori secondo i parametri dell’arte minimalista e i suoi criteri d’analisi, dall’altro assume una posizione che lo allontana anni luce dal mondo dell’arte e dal suo linguaggio precostituito: “Voglio che le mie sculture sembrino essere state portate da un’altra dimensione”7. In un’altra intervista, riprende quest’idea: “Cerco davvero di fare le cose in modo che sembrino giungere da qualche altro luogo, da un Ufo o un ambiente avveniristico o un’altra dimensione. Che le cose esistano contemporaneamente in più di una dimensione per me non è una semplice suggestione, attiene al mondo umano. Penso che gli umani esistano contemporaneamente in più dimensioni”8. […] “Mi sono convinto che intorno a noi ci siano davvero Ufo e alieni. Gli alieni sono sfuggenti e difficili da definire a causa della loro diversa dimensionalità; il loro mezzo di spostamento è il tempo, per quanto possa sembrare assurdo. Penso che ci siano effettivamente migliaia di extraterrestri – e altre entità che non chiamereste extraterrestri – che volano e s’aggirano tra noi, guardandoci, studiandoci. Se per certi versi potrebbero pensare che siamo fantastici, perfino eccezionali, credo si chiedano anche come possiamo essere così ottusi, perché non li vediamo più di tanto. È davvero sorprendente che non ci accorgiamo di quello che sta succedendo. Penso però che siamo stati “programmati” così volutamente. Credo ci sia una ragione se abbiamo dimenticato da dove proveniamo: ci permette di concentrarci sulle cose qui. Ma ora, credo, ci sono buoni motivi per ricordare le nostre origini, così da poter aggiungere questo ricordo a quello che abbiamo imparato stando qui e raggiungere la prospettiva di cui abbiamo assolutamente bisogno. A quel punto, sarà davvero possibile affrontare il miglioramento della nostra condizione. Tutto ciò costituisce un’idea molto stimolante che ritengo possa influire in maniera significativa sullo sviluppo dell’umanità”.9
ONTOLOGIA E FANTASCIENZA
È interessante constatare come la convinzione dell’artista che gli extraterrestri esistano, che siano “tra noi” e che possano aiutarci nel nostro sviluppo personale e collettivo, lo
inducano a riflettere, per esempio, su una problematica ricorrente nell’arte del Ventesimo secolo: come rendere conto della quarta dimensione quale è il tempo, così come di altre dimensioni che la fisica, ad esempio, ha messo da tempo in evidenza? Parlare, come fa McCracken, di un oggetto che può esistere e configurarsi simultaneamente in più dimensioni trova eco nella domanda che ha obnubilato il mondo dell’arte per oltre un secolo: perché a un certo punto un oggetto ordinario si trasforma in oggetto estetico? Come può una sedia, oggetto funzionale e comune, essere a un tratto ritenuto qualcos’altro (un’opera d’arte)? Come si può parlare di un oggetto che trascende la sua definizione consueta e si realizza in una nuova dimensione? […] Eppure, appena si esce dal campo dell’arte e si adotta un altro linguaggio, chiunque è in grado di capire. E il modo in cui McCracken si esprime sugli extraterrestri – per quanto in prima istanza possa apparire bizzarro – concorre a una migliore comprensione delle scommesse poste dall’arte contemporanea e, dunque, dal proprio lavoro. […]
MULTIVERSO
[…] La fisica quantistica, per esempio, ha dimostrato che a livello quantico esiste un numero infinito di universi paralleli. Non serve più sapere se un universo è più reale di un altro, dal momento che tutti concorrono alla definizione di un’unica e identica realtà. Allo stesso modo, non serve più sapere quale linguaggio (quello del mondo dell’arte o quello degli extraterrestri) è più appropriato per affrontare le opere di McCracken, poiché entrambi – simultaneamente – concorrono a una migliore comprensione delle scommesse poste dall’artista. […] Ma è sconcertante osservare come gli strumenti d’analisi messi a disposizione dal mondo dell’arte non sempre permettano di decodificare le scommesse che alcuni artisti continuano a formulare, rimettendole costantemente in discussione.
Il modo in cui McCracken si esprime sul suo lavoro è salutare. Autorizza a uno sguardo che si basa su un certo tipo d’interpretazione, ancorato alla storia dell’arte e indotto da un linguaggio precostituito, ma al tempo stesso rimette in questione questo linguaggio con una domanda che può sorprendere: gli extraterrestri possono aiutarci a comprendere l’arte contemporanea? Il fatto è ben noto: per padroneggiare una lingua e apprezzarne le sottigliezze, niente di meglio che parlarne altre; per padroneggiare un argomento, niente di meglio che cercare in altri domini della conoscenza schemi interpretativi che permettano di sviluppare un vocabolario personale epurato dalle scorie di un linguaggio precostituito. […]
Note:
1) F. Colpitt, Between Two Worlds, in “Art in America”, vol. 85, n. 10, New York, aprile 1998, pp. 86-93.
2) M. Wortz, Spiritual Dimensions in the Art of John McCraken, in McCracken Heroic Stance. The Sculpture of John McCracken 1965-1986, catalogo della mostra, Newport Harbor Art Museum, Newport Beach; P.S.1 Contemporary Art Center, New York, 1987, p. 22.
7) M. Wortz, Spiritual Dimensions in the Art of John McCracken, cit., p. 26.
8) D. Blair, Otherworldly, in “Purple Prose”, n. 13, inverno 1998.
9) Ibid.
“COME SI FA AD ARRIVARE FINO IN FONDO? SI TIENE DURO”
UNA CONVERSAZIONE CON JOHN MCCRACKEN SULLA VICINANZA, L’ORIZZONTE E LA SEDUZIONE
A cura di Marianna Vecellio
MARIANNA VECELLIO: Da dove vogliamo cominciare? So che non le piace parlare del
passato.
JOHN MCCRACKEN: Di solito no, ma a volte ne parlo. Più che altro perché il passato incide sul presente e anche sul futuro. Dal momento che in un certo senso il tempo è un continuum e non esiste un vero passato e nemmeno un vero futuro, non mi dispiace parlare del passato.
MV: Come ha scoperto di voler diventare un artista?
JMC: È una domanda piuttosto complessa. Prima di capire che avrei voluto fare l’artista, ho passato un certo periodo in Marina, ero imbarcato su una nave della Marina Militare.
MV: Faceva l’operatore sonar.
JMC: Ero in fondo alla nave in una postazione sonar e mi sono chiesto cosa intendessi veramente fare, tutto qui. Fino ad allora avevo fatto un po’ di tutto e decisi che sarei diventato un artista e che avrei cominciato a studiare arte. Ho deciso di farlo e basta. Non sapevo cos’altro fare. Non sapevo cosa mi aspettasse e cosa fosse un artista fintanto che non mi sono iscritto al California College of Arts and Crafts (CCAC) e allora ho iniziato a capire cosa volesse dire fare l’artista; l’idea che mi ero fatto delle arti applicate era un po’ commerciale.
[…]
MV: John Coplans fu uno dei fondatori di “Artforum” nel 1962 a San Francisco e poi si trasferì a New York. Lei al contrario, nonostante avesse detto spesso di sentirsi più vicino al Minimalismo che al Finish Fetish, è rimasto in California invece di trasferirsi a New York.
JMC: Almeno per un po’. Per me non esiste alcuna netta distinzione tra Minimalismo e Finish Fetish – quest’ultima è una definizione curiosa, una frase curiosa. Non erano le terminologie artistiche a interessarmi. Ciò che volevo era ridurre quello che stavo facendo, ridurlo al minimo, all’essenziale e fu così che finii per pensare alle Planks (Assi). Prima di allora facevo lastre, blocchi geometrici e così via e d’un tratto mi sono ritrovato a pensare e realizzare dei pezzi di compensato appoggiati al muro. E mi sono detto: “Oddio, credo che ci siamo!” Ero finito nella trappola riduttiva minimalista: quella di rendere le opere il più semplice possibile e farle come si deve, far sì che si reggessero o che stessero al mondo, che conversassero con quelle di altri artisti e fossero capaci di vivere. Le volevo più semplici possibile ma anche splendide e in un certo senso seducenti…
MV: Vorrei per un attimo approfondire il concetto di “seducente” e di bellezza. Ritiene che possa essere questo che distingue le sue opere da quelle del Minimalismo ortodosso? Il Minimalismo sembra esprimere la riduzione della forma attraverso un linguaggio e un approccio più impersonali. Questo genere di sensibilità, l’approccio più percettivo, il processo intuitivo e la finitura, erano forse ciò che rifiutavano Donald Judd e gli altri minimalisti con quegli “oggetti specifici” termine con cui i minimalisti o più precisamente Judd aveva definito le sue opere?
JMC: Direi che per le loro opere fosse appropriato il termine “noioso”, non che fossero di fatto noiose, ma magari meno emozionanti delle mie. Le loro erano forse più intellettuali, basate su idee più intellettuali, ma non è detto…
[…]
MV: L’elemento sempre presente nel suo processo creativo è il taccuino nel quale ogni giorno ha annotato appunti, disegni e pensieri sul suo lavoro. Neville Wakefield, in una recente intervista, diceva che i suoi disegni sono dei codici alla stregua della Stele di Rosetta. Vorrei proporle un’altra analogia con i pittogrammi preistorici, come quelli scoperti sulle rocce nei pressi del suo studio a Santa Fe nel New Mexico.
JMC: L’analogia è giusta. Mi chiedo se non ho preso così tanti appunti per mantenere un
ricordo visivo concreto di quello che mi passava per la mente. Un po’ per non dimenticare ma anche per poter ritornare indietro e riguardare e decidere come realizzare un’opera, per capire se volevo fare una certa cosa o qualcos’altro, chissà. Ma quando disegni le cose le rendi reali, attribuisci loro delle realtà che altrimenti non potrebbero avere, che potresti dimenticare e non ritrovare mai più. L’ho fatto per questo e anche perché adoro farlo; è piuttosto divertente. Materializzare le cose sulla carta e mostrare come saranno.
MV: Nei suoi appunti cita tra altri Josef Albers che negli anni Trenta e Quaranta insegnava al Black Mountain College e che con il suo uso e le sue teorie sul colore ha influenzato le riflessioni sulla dimensione cromatica all’interno del processo artistico negli anni a venire. Cosa significa per lei il colore?
JMC: Avevo capito che tra le cose che mi interessavano vi erano la luminosità e l’energia del colore. Ho sempre cercato di fare attenzione a che il colore non distraesse dalla forma ma che anzi la mettesse in evidenza o ne facesse parte integrante. In scultura può accadere che il colore dia l’impressione di essere un’aggiunta e non era questo che volevo, volevo che colore e scultura fossero un tutt’uno e ci sono riuscito.
[…]
MV: Vorrei riprendere l’idea di cui lei ha parlato in varie occasioni ossia del fatto che le Planks mettono insieme due mondi distinti: lei ha affermato che le Planks condividono lo stesso spazio fisico che occupa lo spettatore – il mondo reale, psicologico e vivente – e, per il fatto che toccano il muro, convivono anche con lo spazio visivo, su cui proiettiamo l’immaginazione, lo spazio pensato.
JMC: La Plank unisce il pavimento e la parete; ha degli angoli. Il rapporto tra l’angolo e il resto della stanza diventa un po’ strano, leggermente disturbante. È per questo che in genere le cose sono per lo più un tutt’uno con l’architettura. L’angolo può aiutare a distinguere l’opera dall’ambiente circostante e dal resto della stanza.
MV: Il concetto di “diagonalità” espresso nella forma della Plank che si appoggia “con un’angolazione”, riporta la sua opera nel dibattito modernista che negli anni Sessanta portava gli artisti a confrontarsi con espressioni radicali come, per esempio, la “morbidezza”, nel caso di Robert Morris ed Eva Hesse.
JMC: La diagonalità mi disorientava: mi ci sono voluti anni per capire l’angolo. Forse sarei riuscito a capire le Planks o forse no. Era tanto disorientante che non riuscivo nemmeno a capirlo bene. L’ho fatto e basta.
[…]
MV: Il rapporto tra i titoli e le forme delle opere esprime un ulteriore processo riduttivo.
JMC: Sì, il titolo è la semplice descrizione dell’opera stessa. Questo è un arco e questa al centro è la chiave di volta e questi sono il pilastro e l’architrave.
[…]
MV: Alcune delle Planks multicolori presentano sulla superficie degli interventi di gocciolamento; altre presentano motivi più geometrici. La serie Mandala esprime anche un rapporto con l’arte popolare l’arte dei nativi americani. Gli indiani Navaho creavano i Mandala per le loro proprietà terapeutiche e gli interventi con la sabbia nei dipinti di Pollock pare si riferissero proprio a questo. Qual è il suo rapporto con l’arte dei nativi americani?
JMC: I Mandala hanno a che fare con i “centri magnetici” e quel genere di cose. L’arte dei nativi americani, i motivi, la riduzione, per me non sono distinte una dall’altra, sebbene le sculture abbiano finito per risultare comunque più pure. Direi che la pittura venne messa da parte e che si sviluppò anche come opera d’arte a sé stante.
[…]
MV: Negli anni Novanta lei ha prodotto una serie di opere che richiamano alcune forme
organiche, come i cristalli, ad esempio.
JMC: Credo che i cristalli possiedano determinate proprietà attive, tra le quali potremmo forse annoverare l’intelligenza e come conseguenza di ciò ho creato alcune opere. I cristalli si sono rivelati magici nel senso che mostrano certe proprietà.
MV: Il cristallo mi ricorda il poliedro rappresentato nella famosa opera Melancholia di Albrecht Dürer. L’artista si riferisce simbolicamente all’enigma che l’uomo, con la sua conoscenza e la sua intelligenza “desidera” risolvere. La parola poliedro significa “molte facce”; anche la conoscenza ha molte facce. È la rappresentazione dell’enigma supremo la cui conoscenza non è mai compiuta.
JMC: Giusto. Credo che il mistero sia sempre presente.
21
febbraio 2011
John McCracken – Retrospettiva
Dal 21 febbraio al 19 giugno 2011
arte contemporanea
Location
CASTELLO DI RIVOLI – MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA
Rivoli, Piazza Mafalda Di Savoia, (Torino)
Rivoli, Piazza Mafalda Di Savoia, (Torino)
Biglietti
€ 6.50 intero, € 4.50 ridotto
Orario di apertura
da martedì a venerdì 10-17, il sabato e domenica 10-19. Lunedì chiuso
Vernissage
21 Febbraio 2011, ore 19
Editore
SKIRA
Ufficio stampa
LUCIA CRESPI
Autore
Curatore