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Josè Dávila – Duel: Not all those who wander are lost
La mostra di Firenze è un’occasione unica per conoscere il lavoro di Jose Dávila, uno degli artisti della sua generazione più attivi nel creare relazioni inedite tra il gesto scultoreo e la definizione dello spazio architettonico,
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Martedì 3 luglio 2018 apre al pubblico il
secondo appuntamento del ciclo Duel ideato dal direttore artistico del
Museo Novecento, Sergio Risaliti. Protagonista della mostra, Not all
those who wander are lost (fino all’11 ottobre), a cura di Lorenzo
Bruni, è l’artista messicano Jose Dávila, alla sua prima mostra
personale in una istituzione italiana. Come nella precedente edizione –
che aveva visto protagonista Ulla Von Brandenburg - l’artista invitato
ha scelto un’opera tra quelle conservate nelle collezioni del museo
fiorentino (Mario Radice, Composizione C.F. 124, 1939) e a partire da
questa ha elaborato un progetto site specific in dialettica sia con il
dipinto che con gli spazi del museo, in particolare con la cappella
sconsacrata al piano terreno dell’edificio.
La mostra di Firenze è un’occasione unica per conoscere il lavoro di
Jose Dávila, uno degli artisti della sua generazione più attivi nel creare
relazioni inedite tra il gesto scultoreo e la definizione dello spazio
architettonico, tra la riattivazione della memoria collettiva e la
contemplazione dell'istante, del kairos nell'esperienza diretta della
realtà e dell’arte.
Attraverso l’installazione di opere appartenenti a momenti diversi
della sua ricerca, Dávila invita a riflettere su come possano essere
interpretati i segni e le tracce che abitano il mondo globale attuale – in
molti casi appartenenti alla storia dell’arte - e sulla necessità di dare
importanza alla riscoperta o alla riappropriazione diretta di essi, con
l’intento di sfuggire alla mera riconoscibilità dei loro elementi
costituitivi ottenuta per mezzo dei dispositivi elettronici che fungono
da archivi digitali.
L'artista spiega così la scelta del titolo Not all those who wander are
lost (Non tutti quelli che vagano sono persi) che evoca naturalmente la
ricerca di una nuova identità collettiva: “Io faccio parte delle persone
perse in questo vagabondaggio fuori dalla storia. […] L'arte è un vasto
universo in cui puoi muoverti senza una destinazione finale, ed è per
questo che non sei smarrito del tutto in esso. Infatti lo scopo è quello
di chiedersi e di continuare ad interrogarsi sulle cose e non solo di
trovarle. Questa seconda mostra del ciclo DUEL conferma la volontà
degli artisti affermatisi dai primi anni Duemila di riflettere sulla
necessità di un nuovo confronto con l'eredità del modernismo e di
riattivare il serbatoio della memoria collettiva per individuare nuove
prospettive di senso e di appartenenza”.
Le opere in mostra agiscono tutte sulla ricerca dell'equilibrio tra
opposti come moderno e classico, caldo e freddo, morbido e duro,
materiale e immateriale, pesante e leggero. La convivenza dei
contrasti è pensata da Jose Dávila per dare maggiore importanza
all'istante della fruizione, a come vengono osservate e condivise le
forme in questo caso della scultura.
Le due opere Aporia I e Aporia II, entrambe del 2017, consistono in un
particolare tipo di assemblaggio grazie al quale una lastra di vetro
semitrasparente viene posta in verticale al centro dello spazio. Il
visitatore è coinvolto in una percezione anodina tra preoccupazione e
sicurezza, perché il vetro è tenuto saldamente in piedi da un sistema di
ancoraggio che si serve di pesanti elementi di marmo o di singoli
macigni che oppongono resistenza e impediscono alla lastra di cadere.
Si tratta di una tensione tra materiali differenti per provenienza ed uso
che trasforma la scultura in uno strumento di filtro della realtà –
tramite il vetro – ma anche in un dispositivo di amplificazione
percettiva della dialettica tra effimero e permanente, tra l’istantaneità
del gesto e l’eternità del monumento. L'urgenza di Dávila di suscitare
riflessioni si manifesta anche nella scelta dei titoli: ad esempio Aporia –
l'opposto della pratica tautologica proposta dagli artisti concettuali
nord americani degli anni Sessanta – e Daylight found me with no
answer del 2013. Una leggera ironia è alla base di questa invenzione di
cinque metri di lunghezza per un diametro approssimativo di tre metri.
Davila si prende gioco della tradizione monumentale del secolo
precedente realizzando un assemblaggio di vari tubi colorati per
disegnare nell'aria il segno dell'infinito. The Origins of Drawing VII del
2017 sposta invece l’attenzione sulla necessità di interpretare le tracce
lasciate dall'umanità, sia che si tratti di un quadro monocromo
modernista, che di un disegno dell'età preistorica realizzato sulle rocce
di una caverna.
Per il suggestivo spazio della cappella, Dávila ha immaginato
un'installazione che consente di amplificare il contesto spirituale del
luogo, individuando prospettive che vanno al di là del rito cristiano,
ripensato al tempo delle post-ideologie. Il titolo Joint Effort – che
potrebbe essere tradotto con “sforzo congiunto” – mette in evidenza
la tensione tra elementi differenti come pietre, cinghie meccaniche da
ancoraggio e trasporto delle merci, una lastra di vetro. La scultura si fa
mezzo di connessione tra lo spazio mentale e quello fisico, tra
osservare ed esperire. La dialettica e l’equilibrio raggiunto tra elementi
e forze opposte ci ricorda la necessità di condivisione dei valori e delle
esperienze con l'altro da sé, al fine di rendere reale un cambiamento e
una trasformazione della realtà stessa.
La mostra Not all those who wander are lost è concepita dall'artista
non come una esposizione di opere singole, bensì come una
narrazione unica e organica, come spiega Dávila al curatore Lorenzo
Bruni: “In questa mostra di Firenze tutte le opere ruotano attorno alla
nuova consapevolezza che la mia generazione deve prendere in esame
quando deve confrontarsi con il sapere. Ho affrontato tutto ciò a
partire da un dialogo con l'opera di Mario Radice del 1939 scelta tra
quelle nella collezione del museo. Ci sono due motivi per cui mi ha
colpito quest'opera. Il primo è collegato al periodo storico in cui era
attivo Radice e che era il ventennio fascista. È un periodo che ho
studiato molto soprattutto per il contributo degli architetti razionalisti
come Terragni a cui il pittore originario di Como era molto legato.
Partendo da questo dialogo ho provato a creare un'apertura, una
finestra, differente con cui osservare il tempo presente, attraversato
da varie forme di populismo e di conservatorismo estremo. L'altro
motivo è legato alla riflessione sui codici astratti della mia intera
pratica. Ho voluto osservarla a partire da un nuovo punto di vista del
tutto inusuale per mezzo della presenza del gesto storicizzato, ma
anche a-storico di Mario Radice. Per me, però, non si tratta solo di un
processo concettuale, bensì di una riattivazione dei sensi. Ecco perché
è importante da sempre nella mia pratica lavorare sul modo di
percepire le forme astratte e non solo di crearle. Punto sempre a
rendere evidente il loro peso e la loro gravità e di conseguenza a
trasformare in esperienza attiva il dialogo con lo spazio”.
Jose Dávila (Guadalajara, Messico, 1974; vive e lavora in Guadalajara)
crea delle opere che sono sempre il frutto di un dialogo intimo e
strutturale tra materiali differenti assemblati in un nuova condizione
temporanea quanto perenne. Sono sculture, pitture, installazioni o
interventi ambientali che evidenziano l'intervento umano che
trasforma lo spazio e risignifica gli oggetti della quotidianità. Questa
azione nasce dalla volontà di creare un equilibrio tra il modo in cui gli
oggetti sono pensati e interpretati a livello concettuale e il modo in cui
essi appaiono nella loro immanenza di forma e materia. Questa sua
pratica lo ha portato a confrontarsi con il serbatoio della memoria
collettiva dell'arte concettuale e dell'arte povera, ma anche con
l'architettura modernista del secolo passato e a creare opere che sono
degli “attivatori” di senso. Il lavoro multidisciplinare di Dávila parte
dalla creazione di un vocabolario visivo che è volto a riflettere sul tema
di traccia e di ripetizione. Tutte le varianti di una forma, nel suo lavoro,
nascono dalle condizioni e dalle caratteristiche dei materiali e dei mezzi
utilizzati. La sua opera è un'aporia materiale e visiva, un paradosso
logico indissolubile in cui coesistono fragilità e resistenza, calma e
tensione, geometria e caos, equilibrio e instabilità. Jose Dávila ha
studiato architettura presso l'Institute of Technology e Higher Studies
of the West dal 1993 al 1998, tuttavia si considera un autodidatta
creativo. Le sue opere sono state esposte all'Hamburger Kunsthalle,
Amburgo, DE; Marfa Contemporary, Marfa, USA; Savannah College of
Art and Design, Gemeentemuseum, L'Aia; Museum Voorlinden, AG
Wassenaar, Olanda, Museo d'arte contemporanea dell'Università,
MUAC Mexico City; Forum Caixa, Madrid; MoMA PS1, New York;
Kunstwerke Berlin; Museo d'arte di San Diego; Museo d'arte Reina
Sofía, Madrid; MAK Vienna, Austria; Fondazione / Collezione Jumex,
Città del Messico; Bass Museum of Art, Miami; Museu do Arte
Moderna, San Paolo; The Moore Space, Miami; NICC Anversa, Belgio.
Tra le molte pubblicazioni internazionali in cui è citato il suo lavoro
sono da menzionare: Cream 3, ed. Phaidon; 100 artisti latino
americani, ed. Exit e The Feather e The Elephant, ed. Hatje Cantz.
Dávila ha ricevuto il sostegno della Fondazione Andy Warhol, una
residenza del Kunstwerke di Berlino e il Sistema Nazionale dei Creatori
del Fondo Nazionale per la Cultura e le Arti, in Messico. Jose Dávila è
uno dei membri fondatori dell'Ufficio per i progetti artistici (OPA), a
Guadalajara, in Messico ed è stato insignito nel 2017 del Baltic Artists
'Award insieme agli artisti Eric N. Mack, Toni Schmale e Shen Xin; oltre
a preparare un progetto per lo spazio pubblico a Los Angeles come
parte del PST: LA / LA della Getty Foundation.
secondo appuntamento del ciclo Duel ideato dal direttore artistico del
Museo Novecento, Sergio Risaliti. Protagonista della mostra, Not all
those who wander are lost (fino all’11 ottobre), a cura di Lorenzo
Bruni, è l’artista messicano Jose Dávila, alla sua prima mostra
personale in una istituzione italiana. Come nella precedente edizione –
che aveva visto protagonista Ulla Von Brandenburg - l’artista invitato
ha scelto un’opera tra quelle conservate nelle collezioni del museo
fiorentino (Mario Radice, Composizione C.F. 124, 1939) e a partire da
questa ha elaborato un progetto site specific in dialettica sia con il
dipinto che con gli spazi del museo, in particolare con la cappella
sconsacrata al piano terreno dell’edificio.
La mostra di Firenze è un’occasione unica per conoscere il lavoro di
Jose Dávila, uno degli artisti della sua generazione più attivi nel creare
relazioni inedite tra il gesto scultoreo e la definizione dello spazio
architettonico, tra la riattivazione della memoria collettiva e la
contemplazione dell'istante, del kairos nell'esperienza diretta della
realtà e dell’arte.
Attraverso l’installazione di opere appartenenti a momenti diversi
della sua ricerca, Dávila invita a riflettere su come possano essere
interpretati i segni e le tracce che abitano il mondo globale attuale – in
molti casi appartenenti alla storia dell’arte - e sulla necessità di dare
importanza alla riscoperta o alla riappropriazione diretta di essi, con
l’intento di sfuggire alla mera riconoscibilità dei loro elementi
costituitivi ottenuta per mezzo dei dispositivi elettronici che fungono
da archivi digitali.
L'artista spiega così la scelta del titolo Not all those who wander are
lost (Non tutti quelli che vagano sono persi) che evoca naturalmente la
ricerca di una nuova identità collettiva: “Io faccio parte delle persone
perse in questo vagabondaggio fuori dalla storia. […] L'arte è un vasto
universo in cui puoi muoverti senza una destinazione finale, ed è per
questo che non sei smarrito del tutto in esso. Infatti lo scopo è quello
di chiedersi e di continuare ad interrogarsi sulle cose e non solo di
trovarle. Questa seconda mostra del ciclo DUEL conferma la volontà
degli artisti affermatisi dai primi anni Duemila di riflettere sulla
necessità di un nuovo confronto con l'eredità del modernismo e di
riattivare il serbatoio della memoria collettiva per individuare nuove
prospettive di senso e di appartenenza”.
Le opere in mostra agiscono tutte sulla ricerca dell'equilibrio tra
opposti come moderno e classico, caldo e freddo, morbido e duro,
materiale e immateriale, pesante e leggero. La convivenza dei
contrasti è pensata da Jose Dávila per dare maggiore importanza
all'istante della fruizione, a come vengono osservate e condivise le
forme in questo caso della scultura.
Le due opere Aporia I e Aporia II, entrambe del 2017, consistono in un
particolare tipo di assemblaggio grazie al quale una lastra di vetro
semitrasparente viene posta in verticale al centro dello spazio. Il
visitatore è coinvolto in una percezione anodina tra preoccupazione e
sicurezza, perché il vetro è tenuto saldamente in piedi da un sistema di
ancoraggio che si serve di pesanti elementi di marmo o di singoli
macigni che oppongono resistenza e impediscono alla lastra di cadere.
Si tratta di una tensione tra materiali differenti per provenienza ed uso
che trasforma la scultura in uno strumento di filtro della realtà –
tramite il vetro – ma anche in un dispositivo di amplificazione
percettiva della dialettica tra effimero e permanente, tra l’istantaneità
del gesto e l’eternità del monumento. L'urgenza di Dávila di suscitare
riflessioni si manifesta anche nella scelta dei titoli: ad esempio Aporia –
l'opposto della pratica tautologica proposta dagli artisti concettuali
nord americani degli anni Sessanta – e Daylight found me with no
answer del 2013. Una leggera ironia è alla base di questa invenzione di
cinque metri di lunghezza per un diametro approssimativo di tre metri.
Davila si prende gioco della tradizione monumentale del secolo
precedente realizzando un assemblaggio di vari tubi colorati per
disegnare nell'aria il segno dell'infinito. The Origins of Drawing VII del
2017 sposta invece l’attenzione sulla necessità di interpretare le tracce
lasciate dall'umanità, sia che si tratti di un quadro monocromo
modernista, che di un disegno dell'età preistorica realizzato sulle rocce
di una caverna.
Per il suggestivo spazio della cappella, Dávila ha immaginato
un'installazione che consente di amplificare il contesto spirituale del
luogo, individuando prospettive che vanno al di là del rito cristiano,
ripensato al tempo delle post-ideologie. Il titolo Joint Effort – che
potrebbe essere tradotto con “sforzo congiunto” – mette in evidenza
la tensione tra elementi differenti come pietre, cinghie meccaniche da
ancoraggio e trasporto delle merci, una lastra di vetro. La scultura si fa
mezzo di connessione tra lo spazio mentale e quello fisico, tra
osservare ed esperire. La dialettica e l’equilibrio raggiunto tra elementi
e forze opposte ci ricorda la necessità di condivisione dei valori e delle
esperienze con l'altro da sé, al fine di rendere reale un cambiamento e
una trasformazione della realtà stessa.
La mostra Not all those who wander are lost è concepita dall'artista
non come una esposizione di opere singole, bensì come una
narrazione unica e organica, come spiega Dávila al curatore Lorenzo
Bruni: “In questa mostra di Firenze tutte le opere ruotano attorno alla
nuova consapevolezza che la mia generazione deve prendere in esame
quando deve confrontarsi con il sapere. Ho affrontato tutto ciò a
partire da un dialogo con l'opera di Mario Radice del 1939 scelta tra
quelle nella collezione del museo. Ci sono due motivi per cui mi ha
colpito quest'opera. Il primo è collegato al periodo storico in cui era
attivo Radice e che era il ventennio fascista. È un periodo che ho
studiato molto soprattutto per il contributo degli architetti razionalisti
come Terragni a cui il pittore originario di Como era molto legato.
Partendo da questo dialogo ho provato a creare un'apertura, una
finestra, differente con cui osservare il tempo presente, attraversato
da varie forme di populismo e di conservatorismo estremo. L'altro
motivo è legato alla riflessione sui codici astratti della mia intera
pratica. Ho voluto osservarla a partire da un nuovo punto di vista del
tutto inusuale per mezzo della presenza del gesto storicizzato, ma
anche a-storico di Mario Radice. Per me, però, non si tratta solo di un
processo concettuale, bensì di una riattivazione dei sensi. Ecco perché
è importante da sempre nella mia pratica lavorare sul modo di
percepire le forme astratte e non solo di crearle. Punto sempre a
rendere evidente il loro peso e la loro gravità e di conseguenza a
trasformare in esperienza attiva il dialogo con lo spazio”.
Jose Dávila (Guadalajara, Messico, 1974; vive e lavora in Guadalajara)
crea delle opere che sono sempre il frutto di un dialogo intimo e
strutturale tra materiali differenti assemblati in un nuova condizione
temporanea quanto perenne. Sono sculture, pitture, installazioni o
interventi ambientali che evidenziano l'intervento umano che
trasforma lo spazio e risignifica gli oggetti della quotidianità. Questa
azione nasce dalla volontà di creare un equilibrio tra il modo in cui gli
oggetti sono pensati e interpretati a livello concettuale e il modo in cui
essi appaiono nella loro immanenza di forma e materia. Questa sua
pratica lo ha portato a confrontarsi con il serbatoio della memoria
collettiva dell'arte concettuale e dell'arte povera, ma anche con
l'architettura modernista del secolo passato e a creare opere che sono
degli “attivatori” di senso. Il lavoro multidisciplinare di Dávila parte
dalla creazione di un vocabolario visivo che è volto a riflettere sul tema
di traccia e di ripetizione. Tutte le varianti di una forma, nel suo lavoro,
nascono dalle condizioni e dalle caratteristiche dei materiali e dei mezzi
utilizzati. La sua opera è un'aporia materiale e visiva, un paradosso
logico indissolubile in cui coesistono fragilità e resistenza, calma e
tensione, geometria e caos, equilibrio e instabilità. Jose Dávila ha
studiato architettura presso l'Institute of Technology e Higher Studies
of the West dal 1993 al 1998, tuttavia si considera un autodidatta
creativo. Le sue opere sono state esposte all'Hamburger Kunsthalle,
Amburgo, DE; Marfa Contemporary, Marfa, USA; Savannah College of
Art and Design, Gemeentemuseum, L'Aia; Museum Voorlinden, AG
Wassenaar, Olanda, Museo d'arte contemporanea dell'Università,
MUAC Mexico City; Forum Caixa, Madrid; MoMA PS1, New York;
Kunstwerke Berlin; Museo d'arte di San Diego; Museo d'arte Reina
Sofía, Madrid; MAK Vienna, Austria; Fondazione / Collezione Jumex,
Città del Messico; Bass Museum of Art, Miami; Museu do Arte
Moderna, San Paolo; The Moore Space, Miami; NICC Anversa, Belgio.
Tra le molte pubblicazioni internazionali in cui è citato il suo lavoro
sono da menzionare: Cream 3, ed. Phaidon; 100 artisti latino
americani, ed. Exit e The Feather e The Elephant, ed. Hatje Cantz.
Dávila ha ricevuto il sostegno della Fondazione Andy Warhol, una
residenza del Kunstwerke di Berlino e il Sistema Nazionale dei Creatori
del Fondo Nazionale per la Cultura e le Arti, in Messico. Jose Dávila è
uno dei membri fondatori dell'Ufficio per i progetti artistici (OPA), a
Guadalajara, in Messico ed è stato insignito nel 2017 del Baltic Artists
'Award insieme agli artisti Eric N. Mack, Toni Schmale e Shen Xin; oltre
a preparare un progetto per lo spazio pubblico a Los Angeles come
parte del PST: LA / LA della Getty Foundation.
02
luglio 2018
Josè Dávila – Duel: Not all those who wander are lost
Dal 02 luglio all'undici ottobre 2018
arte contemporanea
Location
MUSEO NOVECENTO
Firenze, Piazza Di Santa Maria Novella, 10, (Firenze)
Firenze, Piazza Di Santa Maria Novella, 10, (Firenze)
Vernissage
2 Luglio 2018, ore 18.00 su invito
Autore
Curatore