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Karen Kilimnik
artista multimediale, che domina tanto il linguaggio dell’installazione quanto quello della pittura
Comunicato stampa
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TESTO ANGELA VETTESE
A casa
C’è la storia e ci sono le storie. Queste ultime si servono della prima come materia grezza da usare per un bricolage personale, quello che tesse la trama del nostro io. La casa è il posto giusto per farlo. A casa troviamo lo specchio magico dove si incontrano i fatti e i sogni, per formare la nostra famiglia interna di pensiero. Come sostiene Collier Schorr, “come un’istituzione, una casa nel lavoro di Kiliminik è un’istituzione, è qualcosa da cui scappare o in cui irrompere” (in Parkett 52, 1998).
Quando si gioca a “facciamo che io ero” si pesca un ruolo tra i tanti che ci hanno affascinato e lo si manipola. Sarebbe arduo, per un osservatore, capire cosa venga proiettato di sé in quel certo personaggio fittizio e quanto invece quel personaggio stia diventando fondante per la costruzione della nostra persona. Non solo i divi trovati nei rotocalchi, i personaggi dei romanzi, principi e ballerine, ma anche i luoghi e i fatti storici collettivi possono diventare la fonte di una ricostruzione interiore , di una autoterapia contro l’ansia.
Questa premessa pare doverosa di fronte alle opere di Karen Kilimnik , che traspone il mondo fisico e tangibile della vita in un universo più dolce o forse ancora più minaccioso, composto di sogni a occhi aperti e fissazioni della memoria. Come indicazione di metodo, occorre ricordare che ogni sua opera ne rievoca un’altra del passato, oppure prende le mosse da una fotografia divulgativa, o riproduce in maniera bidimensionale o tridimensionale un momento che ha una radice precisa: nel catalogo della mostra Post Human (1992) compare un omaggio incrociato a un brano del Dottor Zivago (The Sleight Ride, 1992) e alla pantera rosa che accompagna nei film Peter Sellers (Switzerland, the Pink Panther & Peter Sellers & Boris & Natasha in Siberia); in quella mostra campeggiavano i disegni dedicati alle modelle e alle attrici come Goldie Hawn in un sorriso imperfetto, imperterrito e accattivante. Per quella occasione l’artista, ancora nella fase in cui prediligeva l’installazione ambientale e il disegno, era stata affiancata ad artisti che investigavano il problema dell’identità, da Matthew Barney a Sylivie Fleury, da Mike Kelley a Janine Antoni. Malgrado i cambiamenti anche radicali intervenuti da allora nel suo modo di fare arte, riflettere su queste vicinanze ci aiuta a sbarazzare il campo da alcuni fraintendimenti: Karen Kilimnik è stata e rimane tuttora un’artista che lavora sullo spazio e non si confina alla pittura. Ora mostra una dedizione crescente all’olio su tela, ma le tematiche che tocca non si risolvono in un gratuito pittoresco. Anzi scavano sia in una ricerca personale sia in una citazione consapevole della cultura artistica di secoli lontani. I temi elaborati non convergono verso un grazioso gratuito, ma parlano dell’arte come un momento di riparazione rispetto alla brutalità di qualsiasi esistenza umana. Da questo punto di vista, diventa più chiaro il modo in cui Kilimnik “usa” i visi della gente famosa. La loro fama non protegge. Le celebrità sono persone come qualsiasi altra, con le loro tragedie e amori e pene. L’artista riproduce le loro fotografie nei suoi disegni o nei suoi dipinti come se fossero fonti, caratteri di base da cui prendere spunto nel pensare cosa implichi essere una persona.
Qui a Venezia, a Palazzetto Tito, ha scelto immediatamente di associare i suoi quadri a una vasta serie di aspetti installativi tesi a trasfigurare l’ambiente: una tappezzeria in una stanza – e possiamo vedere la stessa carta da parati blu, stile vecchia Inghilterra, per esempio in Prince Desirée … (1998) dietro al volto di Leonardo di Caprio; nidi sparsi come rappresentazione di cuori; nidi più grandi pieni di oggetti preziosi rubati che chiedono protezione; mobili e tende che tendono a sottolineare il carattere di dimora sontuosa. Un sovrapporsi barocco di segni che vengono dal presente e dal grande passato di Venezia. Allo spirito di questo luogo, che potrebbe agevolmente ospitare un fantasma, Kilimnik sta aggiungendo una colonna sonora di uccellini, alcuni uccelli veri, delle conchiglie intere e rotte, uno specchio con una cornice di conchiglie, delle tende, delle uova di plastica colorate, anelli, spille e collane di falsi diamanti, orecchini, perle finte, il suono registrato delle campane, velluto nero, nastri, una bottiglia di shampooo, roselline e altri fiori.
La lontana collettiva Post Human ci spiega anche, inserendo l’artista in quel contesto, che Karen Kilimnik proviene dal mondo vero della sua generazione, quello in si cui poteva incontrare Feliz Gonzales Torres prima che l’AIDS lo mangiasse, quello in cui esistevano i club più libertini della storia e un modo non ancora colpevolizzato di interpretare l’assunzione di droga o la sessualità omosessuale. Quando Karen divenne una giovane donna, attraversando quel guado così profondamente desiderato e faticoso per qualsiasi bambina, il mondo in cui si è venuta a trovare non è stata una sala di esercitazioni per ballerine classiche. Fare l’artista nei primi anni ottanta, tra l’altro, significava gettarsi in un’arena pericolosa da molti punti di vista.
Il suo lavoro successivo sembra essere stato connotato dalla paura di crescere, dalla paura di New York, dalla paura di un buio esistenziale e d’altro canto dal coraggio, che l’ha resa capace di affrontare anche gli ostacoli più difficili con incertezza solamente apparente. Dalle sue opere sembra emergere una strategia di difesa che è composta dal rifugiarsi nell’incanto, nell’identificarsi con il mito più o meno contemporaneo, dall’evitare il pericolo ma anche dal giocare con esso, come nella famosa partita di scacchi messa in scena da Ingmar Bergman ne L’Ultimo Sigillo.
Una prova di questo atteggiamento può essere vista nella letteratura dalla quale l’artista ammette di essere influenzata: Edgar Aallan Poe, Mary Shelley (a cui l’artista ha dedicato un ritratto nel 2001, Mary Shelley writing Frankenstein), Ernst Theodor William Hoffmann, Oscar Wilde, Agata Christie. Tutti condividono il combinarsi di un senso sottile per il grottesco e per l’assurdo nella società borghese con un lato intuitivo che prevede la parte inconscia della natura umana.
Anche le labbra succulente che trattengono una fragola nella bocca della bionda di turno sono, seguendo il titolo dell’opera (The black Plaghe, 1995) e gli occhi cerchiati di malattia della ragazza, un riferimento a un evento storico: la peste che ha ispirato il Decamerone di Boccaccio alla metà del XIV secolo. La fragola può essere letta come un richiamo sessuale, alla stregua del canto degli uccelli e dei loro colori, ma potrebbe anche essere interpretata come una trappola, come sangue e come segno di una morte incombente. Non c’è bisogno di dire che Dracula è per l’artista un ulteriore importante riferimento. Il titolo dei quadri emerge, dunque, come qualcosa che non ci dovremmo perdere, come un ipertesto che conferisce senso al testo dipinto. Una casa bianca di campagna con finestre scure diventa The Devil House (1998) e il ritratto di una giovane donna nobile diventa Circe at the Volcano (2002).
La qualità della pittura si azzarda a chiaroscuro incipriati, a toni pallidi che appaiono efebici. Possiamo percepire – come se fossimo rabdomanti in cerca di suggestioni – segni dei tempi e fantasmi dal passato. L’importanza dei riferimenti ai fatti storici realmente accaduti trova però una sua prova in installazioni come l’indimenticabile Battels of the Art oft War (1991) , dove fumo reale invadeva fisicamente la galleria, con un vero cannone che sembrava avere appena sparato, con i muri che apparivano scioccati dalla paura, con segni pittorici, bandiere, uccelli che cadevano, frammenti di stoffa e memorie di un arredamento da discoteca.
Dopo il trauma che ha attraversato New York ben prima delle due torri, Kilimnik è scappata lontano e si rifugia in un mondo di fantasia. Per questo, in questa mostra, arredi e tappezzeria possono essere inglesi benché l’ambiente sia chiaramente veneziano. Quando si immagina o si pensa, tutto si ibrida in associazioni indebite ma forse proprio per questo interessanti. La fantasia è un ventre fertile e mai pedante. Ruba dovunque, come attestano i gioielli luccicanti che si accatastano nei nidi, quasi reperti di una gazza ladra e quasi che, appunto, la gazza ladra sia metafora dell’artista.
Il fantastico è quel senso di libertà nel raccontare che giustifica il particolare amore di Kilimnik per le parti vecchie di New York, per gli anni sessanta del Novecento, i novanta dell’Ottocento, gli ottanta del settecento, per il seicento. L’artista ne fa uso a piene mani e combina coroncine di fiori con ritratti di voga settecentesca, scene di caccia e modelle da swingign London.
Quello che non dovremmo dimenticare, e che in effetti ci aiuta a leggere questa mostra così come l’intero procedere dell’artista, è che la finta bambina ha assorbito con maturità penetrante i temi duri del suo essere americana, da un lato, attaccata dai miti di celluloide e dalle nuove patologie sociali. Dall’altro lato, il suo apparente passatismo tecnico non potrebbe essere nato senza i muri luccicanti di carta argento della Factory di Andy Warhol, senza la sua scioltezza nel rubare immagini al mondo vero per setacciarle e riproporle. Non potremmo capire Karen Kilimnik senza guardare la televisione e le bambole come Twiggy e i vecchi film di cappa e spada e di storie sentimentali; tuttavia, non coglieremmo nulla di ciò che ci sta dicendo se non riallacciassimo il suo lavoro - anche e soprattutto - al lessico e ai temi artistici più estremi degli ultimi quarant’anni. Questo mondo di favola non ha ironia e non ostenta ideologia. Ma racconta magistralmente che siamo dilaniati dai nostri stessi modelli, dai nostri miti e da ciò che consideriamo la nostra casa mentale.
Angela Vettese
A casa
C’è la storia e ci sono le storie. Queste ultime si servono della prima come materia grezza da usare per un bricolage personale, quello che tesse la trama del nostro io. La casa è il posto giusto per farlo. A casa troviamo lo specchio magico dove si incontrano i fatti e i sogni, per formare la nostra famiglia interna di pensiero. Come sostiene Collier Schorr, “come un’istituzione, una casa nel lavoro di Kiliminik è un’istituzione, è qualcosa da cui scappare o in cui irrompere” (in Parkett 52, 1998).
Quando si gioca a “facciamo che io ero” si pesca un ruolo tra i tanti che ci hanno affascinato e lo si manipola. Sarebbe arduo, per un osservatore, capire cosa venga proiettato di sé in quel certo personaggio fittizio e quanto invece quel personaggio stia diventando fondante per la costruzione della nostra persona. Non solo i divi trovati nei rotocalchi, i personaggi dei romanzi, principi e ballerine, ma anche i luoghi e i fatti storici collettivi possono diventare la fonte di una ricostruzione interiore , di una autoterapia contro l’ansia.
Questa premessa pare doverosa di fronte alle opere di Karen Kilimnik , che traspone il mondo fisico e tangibile della vita in un universo più dolce o forse ancora più minaccioso, composto di sogni a occhi aperti e fissazioni della memoria. Come indicazione di metodo, occorre ricordare che ogni sua opera ne rievoca un’altra del passato, oppure prende le mosse da una fotografia divulgativa, o riproduce in maniera bidimensionale o tridimensionale un momento che ha una radice precisa: nel catalogo della mostra Post Human (1992) compare un omaggio incrociato a un brano del Dottor Zivago (The Sleight Ride, 1992) e alla pantera rosa che accompagna nei film Peter Sellers (Switzerland, the Pink Panther & Peter Sellers & Boris & Natasha in Siberia); in quella mostra campeggiavano i disegni dedicati alle modelle e alle attrici come Goldie Hawn in un sorriso imperfetto, imperterrito e accattivante. Per quella occasione l’artista, ancora nella fase in cui prediligeva l’installazione ambientale e il disegno, era stata affiancata ad artisti che investigavano il problema dell’identità, da Matthew Barney a Sylivie Fleury, da Mike Kelley a Janine Antoni. Malgrado i cambiamenti anche radicali intervenuti da allora nel suo modo di fare arte, riflettere su queste vicinanze ci aiuta a sbarazzare il campo da alcuni fraintendimenti: Karen Kilimnik è stata e rimane tuttora un’artista che lavora sullo spazio e non si confina alla pittura. Ora mostra una dedizione crescente all’olio su tela, ma le tematiche che tocca non si risolvono in un gratuito pittoresco. Anzi scavano sia in una ricerca personale sia in una citazione consapevole della cultura artistica di secoli lontani. I temi elaborati non convergono verso un grazioso gratuito, ma parlano dell’arte come un momento di riparazione rispetto alla brutalità di qualsiasi esistenza umana. Da questo punto di vista, diventa più chiaro il modo in cui Kilimnik “usa” i visi della gente famosa. La loro fama non protegge. Le celebrità sono persone come qualsiasi altra, con le loro tragedie e amori e pene. L’artista riproduce le loro fotografie nei suoi disegni o nei suoi dipinti come se fossero fonti, caratteri di base da cui prendere spunto nel pensare cosa implichi essere una persona.
Qui a Venezia, a Palazzetto Tito, ha scelto immediatamente di associare i suoi quadri a una vasta serie di aspetti installativi tesi a trasfigurare l’ambiente: una tappezzeria in una stanza – e possiamo vedere la stessa carta da parati blu, stile vecchia Inghilterra, per esempio in Prince Desirée … (1998) dietro al volto di Leonardo di Caprio; nidi sparsi come rappresentazione di cuori; nidi più grandi pieni di oggetti preziosi rubati che chiedono protezione; mobili e tende che tendono a sottolineare il carattere di dimora sontuosa. Un sovrapporsi barocco di segni che vengono dal presente e dal grande passato di Venezia. Allo spirito di questo luogo, che potrebbe agevolmente ospitare un fantasma, Kilimnik sta aggiungendo una colonna sonora di uccellini, alcuni uccelli veri, delle conchiglie intere e rotte, uno specchio con una cornice di conchiglie, delle tende, delle uova di plastica colorate, anelli, spille e collane di falsi diamanti, orecchini, perle finte, il suono registrato delle campane, velluto nero, nastri, una bottiglia di shampooo, roselline e altri fiori.
La lontana collettiva Post Human ci spiega anche, inserendo l’artista in quel contesto, che Karen Kilimnik proviene dal mondo vero della sua generazione, quello in si cui poteva incontrare Feliz Gonzales Torres prima che l’AIDS lo mangiasse, quello in cui esistevano i club più libertini della storia e un modo non ancora colpevolizzato di interpretare l’assunzione di droga o la sessualità omosessuale. Quando Karen divenne una giovane donna, attraversando quel guado così profondamente desiderato e faticoso per qualsiasi bambina, il mondo in cui si è venuta a trovare non è stata una sala di esercitazioni per ballerine classiche. Fare l’artista nei primi anni ottanta, tra l’altro, significava gettarsi in un’arena pericolosa da molti punti di vista.
Il suo lavoro successivo sembra essere stato connotato dalla paura di crescere, dalla paura di New York, dalla paura di un buio esistenziale e d’altro canto dal coraggio, che l’ha resa capace di affrontare anche gli ostacoli più difficili con incertezza solamente apparente. Dalle sue opere sembra emergere una strategia di difesa che è composta dal rifugiarsi nell’incanto, nell’identificarsi con il mito più o meno contemporaneo, dall’evitare il pericolo ma anche dal giocare con esso, come nella famosa partita di scacchi messa in scena da Ingmar Bergman ne L’Ultimo Sigillo.
Una prova di questo atteggiamento può essere vista nella letteratura dalla quale l’artista ammette di essere influenzata: Edgar Aallan Poe, Mary Shelley (a cui l’artista ha dedicato un ritratto nel 2001, Mary Shelley writing Frankenstein), Ernst Theodor William Hoffmann, Oscar Wilde, Agata Christie. Tutti condividono il combinarsi di un senso sottile per il grottesco e per l’assurdo nella società borghese con un lato intuitivo che prevede la parte inconscia della natura umana.
Anche le labbra succulente che trattengono una fragola nella bocca della bionda di turno sono, seguendo il titolo dell’opera (The black Plaghe, 1995) e gli occhi cerchiati di malattia della ragazza, un riferimento a un evento storico: la peste che ha ispirato il Decamerone di Boccaccio alla metà del XIV secolo. La fragola può essere letta come un richiamo sessuale, alla stregua del canto degli uccelli e dei loro colori, ma potrebbe anche essere interpretata come una trappola, come sangue e come segno di una morte incombente. Non c’è bisogno di dire che Dracula è per l’artista un ulteriore importante riferimento. Il titolo dei quadri emerge, dunque, come qualcosa che non ci dovremmo perdere, come un ipertesto che conferisce senso al testo dipinto. Una casa bianca di campagna con finestre scure diventa The Devil House (1998) e il ritratto di una giovane donna nobile diventa Circe at the Volcano (2002).
La qualità della pittura si azzarda a chiaroscuro incipriati, a toni pallidi che appaiono efebici. Possiamo percepire – come se fossimo rabdomanti in cerca di suggestioni – segni dei tempi e fantasmi dal passato. L’importanza dei riferimenti ai fatti storici realmente accaduti trova però una sua prova in installazioni come l’indimenticabile Battels of the Art oft War (1991) , dove fumo reale invadeva fisicamente la galleria, con un vero cannone che sembrava avere appena sparato, con i muri che apparivano scioccati dalla paura, con segni pittorici, bandiere, uccelli che cadevano, frammenti di stoffa e memorie di un arredamento da discoteca.
Dopo il trauma che ha attraversato New York ben prima delle due torri, Kilimnik è scappata lontano e si rifugia in un mondo di fantasia. Per questo, in questa mostra, arredi e tappezzeria possono essere inglesi benché l’ambiente sia chiaramente veneziano. Quando si immagina o si pensa, tutto si ibrida in associazioni indebite ma forse proprio per questo interessanti. La fantasia è un ventre fertile e mai pedante. Ruba dovunque, come attestano i gioielli luccicanti che si accatastano nei nidi, quasi reperti di una gazza ladra e quasi che, appunto, la gazza ladra sia metafora dell’artista.
Il fantastico è quel senso di libertà nel raccontare che giustifica il particolare amore di Kilimnik per le parti vecchie di New York, per gli anni sessanta del Novecento, i novanta dell’Ottocento, gli ottanta del settecento, per il seicento. L’artista ne fa uso a piene mani e combina coroncine di fiori con ritratti di voga settecentesca, scene di caccia e modelle da swingign London.
Quello che non dovremmo dimenticare, e che in effetti ci aiuta a leggere questa mostra così come l’intero procedere dell’artista, è che la finta bambina ha assorbito con maturità penetrante i temi duri del suo essere americana, da un lato, attaccata dai miti di celluloide e dalle nuove patologie sociali. Dall’altro lato, il suo apparente passatismo tecnico non potrebbe essere nato senza i muri luccicanti di carta argento della Factory di Andy Warhol, senza la sua scioltezza nel rubare immagini al mondo vero per setacciarle e riproporle. Non potremmo capire Karen Kilimnik senza guardare la televisione e le bambole come Twiggy e i vecchi film di cappa e spada e di storie sentimentali; tuttavia, non coglieremmo nulla di ciò che ci sta dicendo se non riallacciassimo il suo lavoro - anche e soprattutto - al lessico e ai temi artistici più estremi degli ultimi quarant’anni. Questo mondo di favola non ha ironia e non ostenta ideologia. Ma racconta magistralmente che siamo dilaniati dai nostri stessi modelli, dai nostri miti e da ciò che consideriamo la nostra casa mentale.
Angela Vettese
08
giugno 2005
Karen Kilimnik
Dall'otto giugno al 03 ottobre 2005
arte contemporanea
Location
FONDAZIONE BEVILACQUA LA MASA – PALAZZETTO TITO
Venezia, Dorsoduro, 2826, (Venezia)
Venezia, Dorsoduro, 2826, (Venezia)
Biglietti
intero, 3 euro; ridotto 2 euro
Orario di apertura
tutti i giorni, chiuso il martedì
Vernissage
8 Giugno 2005, ore 18
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