Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Karin Andersen / Marc Giloux – Zombismo
Gli artisti espongono vari personaggi dalle forme ambigue e fantomatiche che vengono ad abitare lo spazio del giardino e della galleria. La loro presenza anti-emotiva e il loro stato di abbandono creano un’atmosfera di freddezza straniante.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Zombismo
Il visitatore della mostra “Zombismo” può scegliere se soffermarsi nella zona del giardino o se entrare direttamente nell’atelier della SMAG. Nella parte all’aperto incontra una creatura vagamente antropomorfa seduta ad un tavolo, dalla natura ambigua tra l’animale, il vegetale e l’umano intenta a mangiare rifiuti di varia natura. Il suo corpo (composto per lo più da carta pesta) pare viscido e informe. Si cercherà invano di determinarne l’appartenenza ad una qualche specie vertebrata senza riuscirci. L'inutile tentativo di rintracciare l'origine di questo incongruo alter-ego lascerà in sospeso un senso di vaga familiarità.
Nell’atelier, invece, lo spettatore viene messo di fronte a vari personaggi sommariamente disegnati su grandi teli di plastica traslucida, che danno loro une consistenza fantomatica. Di dimensione simile in scala monumentale o comunque sproporzionata rispetto al luogo, occupando tutto lo spazio nel senso della verticalità, queste figure paiono fluttuare a mezz’aria, dilatandosi e sciogliendosi a seconda degli spostamenti d’aria prodotti dal visitatore che penetra nel luogo. I volti inespressivi sono ridotti a occhi e naso, in un’attitudine vacua, inerte. Di fronte a questa molteplicità di zombi generici e anonimi giace un altro essere dal corpo esile e malleabile, coperto da una pelle composita e accidentata.
In un caso come nell’altro queste apparizioni assomigliano a dei superstiti disincarnati in uno spazio nel quale non hanno ormai più presa.
Il primo tratto formale che caratterizza i corpi che incontriamo è una certa propensione alla liquefazione. I corpi creati da Karin Andersen possiedono membra fluide e quasi disarticolate, mentre quelli creati da Marc Giloux presentano dei contorni corporei ondulati e tremolanti, che ricordano dei moti ondosi. Questo immaginario di un corpo liquido viene qui a tradurre un senso di incertezza e di perdita dei confini dell'io che tende a disperdersi, a disfarsi. Questo primo sintomo ci porta a capire quanto questi personaggi costituiscano una riflessione su un certo sconforto nell'atto del pensare la nostra persona in rapporto ad uno spazio di vita : il rapporto tra corpo e spazio non è mai univoco, solido, costruttivo, ma è piuttosto segnato da una perdita di punti di riferimento. Lo psichiatra Ludwig Binswanger, nella sua opera Delirio, analizza i meccanismi umani della psicosi, soffermandosi precisamente sul vissuto corporeo traumatico di una sua paziente, che afferma sentire "uno strato d'acqua che scorre" all'interno del proprio corpo.
Il secondo elemento plastico da mettere in rilievo nella mostra può essere identificato con il "vestito". Sempre nell'immaginario della psicosi, utile in questo caso per capire il valore scenico delle opere, sappiamo a che punto la questione dell'abito diventa fondamentale nel rapporto al "sé" ossia nel modo con il quale abitiamo il nostro corpo. Uno dei casi emblematici di psicosi documentati nella letteratura psico-filosofica moderna è quello di Lola Voss in cura con Binswanger. La donna evoca il suo rapporto traumatico con i vestiti intesi come una seconda pelle . Essi appaiono nel suo campo percettivo come oggetti autonomi e animati, sorta di alter-ego immateriali che paiono perseguitarla, e che costituiscono lo specchio della sua impressione di sentirsi "psichicamente svestita" .
In maniera simile, tutti questi esseri vagamente animati e blandi ci fanno riflettere sulla questione del vestito in quanto precario, disfunzionale. Nelle creature di Karin Andersen la pelle, o abito, pare scorticata, ricomposta, rattoppata, o più semplicemente grumosa, ruvida e poco elastica, certo in riferimento a questo stadio vivente indifferenziato tra l'umano, il vegetale e l'animale, ma soprattutto un abito diventato tale a causa del danno irreversibile inflittogli dall'ingurgitare materiali elettronici o plastica di scarto altamente tossici, in quello che potrebbe sembrare un'operazione di bulimia tanto compulsiva quanto autolesionistica. D’altra parte, questi esseri dalla natura composita e ambivalente possono far pensare ad un'ipotesi di mutamenti genetici avvenuti in un futuro distopico, frutto di catastrofi ambientali causate da una concentrazione di tossine insostenibile, che hanno provocato la comparsa di questi pseudo-umani esangui. In quest'ottica, la posizione dell’artista tedesca si pone in une relazione di continuità con il lavoro di Tetsumi Kudo, artista giapponese conosciuto in particolare per la sua serie "Scatole" degli anni 70, gabbie metalliche per uccelli in cui vivono in cattività piccoli animali ibridi e frammentari, vittime appunto d'inquinamento da radiazioni, in una scenografia antropo-zoomorfica.
Nei lavori di Marc Giloux, il problema del vestito come alter-ego del corpo appare qualunque sia la prospettiva adottata dallo spettatore. Dal punto di vista del medium, gli ampi teli di plastica trasparenti assumono il valore di cenci che fluttuano a mezz’aria come fantasmi passivi e insensibili alla forza di gravità e che paiono inoffensivi, con mimiche facciali parzialmente assenti e quasi catatoniche. Dal punto di vista del disegno i personaggi sono appena abbozzati, semplici linee di contorno che delimitano forme spoglie e senza contenuto. Il biancore onnipresente in questo tipo di messa in scena traduce un determinato stato mentale di anestesia emotiva, che è stato peraltro concettualizzato in psicanalisi come uno stato di "angoscia bianca" : una condizione di fragilità emotiva che, invece di manifestarsi in una forma d'iperattività della mente, porta il soggetto ad un black-out temporaneo in cui il cervello si svuota, diventa come inaccessibile (riferirsi al termine inglese di blank=vuoto). Al contempo, il carattere bidimensionale e diafano di questi zombi, o "mostri lievi" (Foucault ), fa sì che essi acquisiscano uno statuto di "immagini schermo" che soggiungono, come formulato da Lacan , in situazioni psicologicamente intollerabili per l'individuo, il cui inconscio produce quindi delle immagini volte a proteggerlo da una rappresentazione impensabile. Paradossalmente questo tipo di immagine è spesso caratterizzato da un impoverimento estetico notevole, e la banalità dell'immagine schermo aumenta all'aumentare della carica traumatica della situazione che gli corrisponde .
Così, queste manifestazioni "lievemente vive" pensate dagli artisti tentano di personificare un sentimento collettivo attuale di precarietà nel nostro rapporto con l'ambiente che finisce per avere ripercussioni sulla percezione del nostro corpo stesso. Nella messa in scena alla SMAG, i due artisti, invece di avere ricorso a forme di patetismo per evocare l’inquietudine di fronte ad un contesto attuale (ecologico e politico) drammatico, hanno scelto di concentrarsi su rappresentazioni residuali di un "sé" che perde via via consistenza in un ambiente in cui la catastrofe è già avvenuta e che quindi offre sempre meno appigli per la coscienza. La condizione di questi personaggi di essere appunto non solo "svestiti", ma "psichicamente svestiti", indica questo processo di affievolimento delle possibilità di vita e di sentirsi vivi su un pianeta ormai esausto.
Pim Enveert.
Il visitatore della mostra “Zombismo” può scegliere se soffermarsi nella zona del giardino o se entrare direttamente nell’atelier della SMAG. Nella parte all’aperto incontra una creatura vagamente antropomorfa seduta ad un tavolo, dalla natura ambigua tra l’animale, il vegetale e l’umano intenta a mangiare rifiuti di varia natura. Il suo corpo (composto per lo più da carta pesta) pare viscido e informe. Si cercherà invano di determinarne l’appartenenza ad una qualche specie vertebrata senza riuscirci. L'inutile tentativo di rintracciare l'origine di questo incongruo alter-ego lascerà in sospeso un senso di vaga familiarità.
Nell’atelier, invece, lo spettatore viene messo di fronte a vari personaggi sommariamente disegnati su grandi teli di plastica traslucida, che danno loro une consistenza fantomatica. Di dimensione simile in scala monumentale o comunque sproporzionata rispetto al luogo, occupando tutto lo spazio nel senso della verticalità, queste figure paiono fluttuare a mezz’aria, dilatandosi e sciogliendosi a seconda degli spostamenti d’aria prodotti dal visitatore che penetra nel luogo. I volti inespressivi sono ridotti a occhi e naso, in un’attitudine vacua, inerte. Di fronte a questa molteplicità di zombi generici e anonimi giace un altro essere dal corpo esile e malleabile, coperto da una pelle composita e accidentata.
In un caso come nell’altro queste apparizioni assomigliano a dei superstiti disincarnati in uno spazio nel quale non hanno ormai più presa.
Il primo tratto formale che caratterizza i corpi che incontriamo è una certa propensione alla liquefazione. I corpi creati da Karin Andersen possiedono membra fluide e quasi disarticolate, mentre quelli creati da Marc Giloux presentano dei contorni corporei ondulati e tremolanti, che ricordano dei moti ondosi. Questo immaginario di un corpo liquido viene qui a tradurre un senso di incertezza e di perdita dei confini dell'io che tende a disperdersi, a disfarsi. Questo primo sintomo ci porta a capire quanto questi personaggi costituiscano una riflessione su un certo sconforto nell'atto del pensare la nostra persona in rapporto ad uno spazio di vita : il rapporto tra corpo e spazio non è mai univoco, solido, costruttivo, ma è piuttosto segnato da una perdita di punti di riferimento. Lo psichiatra Ludwig Binswanger, nella sua opera Delirio, analizza i meccanismi umani della psicosi, soffermandosi precisamente sul vissuto corporeo traumatico di una sua paziente, che afferma sentire "uno strato d'acqua che scorre" all'interno del proprio corpo.
Il secondo elemento plastico da mettere in rilievo nella mostra può essere identificato con il "vestito". Sempre nell'immaginario della psicosi, utile in questo caso per capire il valore scenico delle opere, sappiamo a che punto la questione dell'abito diventa fondamentale nel rapporto al "sé" ossia nel modo con il quale abitiamo il nostro corpo. Uno dei casi emblematici di psicosi documentati nella letteratura psico-filosofica moderna è quello di Lola Voss in cura con Binswanger. La donna evoca il suo rapporto traumatico con i vestiti intesi come una seconda pelle . Essi appaiono nel suo campo percettivo come oggetti autonomi e animati, sorta di alter-ego immateriali che paiono perseguitarla, e che costituiscono lo specchio della sua impressione di sentirsi "psichicamente svestita" .
In maniera simile, tutti questi esseri vagamente animati e blandi ci fanno riflettere sulla questione del vestito in quanto precario, disfunzionale. Nelle creature di Karin Andersen la pelle, o abito, pare scorticata, ricomposta, rattoppata, o più semplicemente grumosa, ruvida e poco elastica, certo in riferimento a questo stadio vivente indifferenziato tra l'umano, il vegetale e l'animale, ma soprattutto un abito diventato tale a causa del danno irreversibile inflittogli dall'ingurgitare materiali elettronici o plastica di scarto altamente tossici, in quello che potrebbe sembrare un'operazione di bulimia tanto compulsiva quanto autolesionistica. D’altra parte, questi esseri dalla natura composita e ambivalente possono far pensare ad un'ipotesi di mutamenti genetici avvenuti in un futuro distopico, frutto di catastrofi ambientali causate da una concentrazione di tossine insostenibile, che hanno provocato la comparsa di questi pseudo-umani esangui. In quest'ottica, la posizione dell’artista tedesca si pone in une relazione di continuità con il lavoro di Tetsumi Kudo, artista giapponese conosciuto in particolare per la sua serie "Scatole" degli anni 70, gabbie metalliche per uccelli in cui vivono in cattività piccoli animali ibridi e frammentari, vittime appunto d'inquinamento da radiazioni, in una scenografia antropo-zoomorfica.
Nei lavori di Marc Giloux, il problema del vestito come alter-ego del corpo appare qualunque sia la prospettiva adottata dallo spettatore. Dal punto di vista del medium, gli ampi teli di plastica trasparenti assumono il valore di cenci che fluttuano a mezz’aria come fantasmi passivi e insensibili alla forza di gravità e che paiono inoffensivi, con mimiche facciali parzialmente assenti e quasi catatoniche. Dal punto di vista del disegno i personaggi sono appena abbozzati, semplici linee di contorno che delimitano forme spoglie e senza contenuto. Il biancore onnipresente in questo tipo di messa in scena traduce un determinato stato mentale di anestesia emotiva, che è stato peraltro concettualizzato in psicanalisi come uno stato di "angoscia bianca" : una condizione di fragilità emotiva che, invece di manifestarsi in una forma d'iperattività della mente, porta il soggetto ad un black-out temporaneo in cui il cervello si svuota, diventa come inaccessibile (riferirsi al termine inglese di blank=vuoto). Al contempo, il carattere bidimensionale e diafano di questi zombi, o "mostri lievi" (Foucault ), fa sì che essi acquisiscano uno statuto di "immagini schermo" che soggiungono, come formulato da Lacan , in situazioni psicologicamente intollerabili per l'individuo, il cui inconscio produce quindi delle immagini volte a proteggerlo da una rappresentazione impensabile. Paradossalmente questo tipo di immagine è spesso caratterizzato da un impoverimento estetico notevole, e la banalità dell'immagine schermo aumenta all'aumentare della carica traumatica della situazione che gli corrisponde .
Così, queste manifestazioni "lievemente vive" pensate dagli artisti tentano di personificare un sentimento collettivo attuale di precarietà nel nostro rapporto con l'ambiente che finisce per avere ripercussioni sulla percezione del nostro corpo stesso. Nella messa in scena alla SMAG, i due artisti, invece di avere ricorso a forme di patetismo per evocare l’inquietudine di fronte ad un contesto attuale (ecologico e politico) drammatico, hanno scelto di concentrarsi su rappresentazioni residuali di un "sé" che perde via via consistenza in un ambiente in cui la catastrofe è già avvenuta e che quindi offre sempre meno appigli per la coscienza. La condizione di questi personaggi di essere appunto non solo "svestiti", ma "psichicamente svestiti", indica questo processo di affievolimento delle possibilità di vita e di sentirsi vivi su un pianeta ormai esausto.
Pim Enveert.
30
aprile 2022
Karin Andersen / Marc Giloux – Zombismo
Dal 30 aprile al 28 maggio 2022
arte contemporanea
Location
SAN MARCUOLA ATELIER GALERIE VENEZIA
Venezia, Calle Larga Vendramin, (VE)
Venezia, Calle Larga Vendramin, (VE)
Orario di apertura
da mercoledì a venerdì ore 17 - 19
Vernissage
30 Aprile 2022, Dalle 16.00 alle 20.00 in Calle Larga Vendramin Sottoportego del Strologo 2047 Cannaregio Venezia
Autore
Curatore