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Knulp Malevich – The magic eye
Nelle foto in mostra vengono ritratti alcuni maestri della fotografia italiana e internazionale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
A proposito dell’“occhio magico”
Un mago che si rispetti deve avere la sua bacchetta. Un oggetto che possa
comandare e da cui possa, conseguentemente, essere ubbidito.
Il primo incontro con qualcosa di magico, o, che, almeno, come tale definii, fu
appunto il cosiddetto “occhio magico” della radio di famiglia, una valvolare Magneti
Marelli, che misurava, con l’apertura di un luminoso diaframma verde, l’equilibrio della
sintonia della frequenza preferita: quando l’occhio magico raggiungeva la sua massima
apertura e il suo massimo chiarore, allora, come per incanto, le voci e i suoni sgorgavano
nitide e prive d’interferenze; e tutto questo, magicamente avveniva mentre le mie dita
accarezzavano una manopola ubbidiente e silenziosa come il pulsante di un otturatore
fotografico.
Più adulto, incontrai un altro “occhio magico” sulle porte d’ingresso di certe
abitazioni dietro le quali occhi sospettosi, prima ancora che curiosi, scrutavano, non visti,
le fattezze del visitatore per controllarne l’identità.
Davanti al riflesso di questi silenziosi “polifemidi” mi atteggiavo di conseguenza:
mi toglievo il berretto, abbassavo il bavero del soprabito, mi ravviavo i capelli, assumevo
un sorriso di circostanza. Cercavo, insomma, di adeguarmi, senza ricorrere ad alcuna
magia, alle aspettative dello spione di turno. E, naturalmente, mi mettevo in posa.
Ritorna, ancora, il binomio “occhio – magia” nella proposta fotografica dell’amico
Knulp e, nel frattempo, è divenuto qualcosa di differente, di sostanzialmente differente:
il suo “occhio magico”, infatti, non parla più di sintonia e non spia più in forma discreta
(ma, forse, mi sbaglio). Forse la sua ricerca di sintonia è una messa fuoco diretta verso
qualcosa che si rivela all’occhio più che allo strumento; ma è pur sempre la magia dello
strumento che conserva la sim-patia della sin-tonia; insomma l’equazione “occhio-magia”
regge ancora.
*
* *
Nell’Arsenale di Venezia, il grande Galileo Galilei ebbe notizia di una trovata di
alcuni meccanici (cinesi, olandesi) intorno all’uso di certe lenti. Verificando le ipotesi
di quei lavoratori, lo scienziato giunse a concepire inedite possibilità di sfruttamento
delle proprietà ottiche racchiuse nelle lenti qualora opportunamente lavorate e altrettanto
opportunamente montate.
C’è, ancora, qualcuno che insiste nel togliere al genio pisano la primogenitura
dell’invenzione del cannocchiale; tutti noi, invece, non dubitiamo della bontà scientifica
dell’uso cui destinò le sue lenti e dei risultati che con le medesime raggiunse.
Galilei, infatti, sta dietro ogni fotografia che, oggi, noi realizziamo; non tanto per le
sue scoperte intorno alle lenti quanto per averci insegnato a capire come si guarda il cielo
piuttosto che accanirci a capire come guarda il cielo.
Ogni fotografo, se è immerso nella realtà delle cose e da questa è osservato, chiede
un dialogo e attende una corrispondenza.
Sembra facile raccogliere la magica realtà che ci circonda perché lo strumento
si fa sempre più duttile e sofisticato, quasi intelligente e, pertanto, una lente, più lenti,
invero, mettono a dieta il reale per farlo passare per l’evangelica cruna dell’ago. Ma ogni
fotografo sa che non basta lo strumento; e non basta neanche essere poveri per fare spazio
a quella realtà che vuol lasciarsi addomesticare - come la volpe del “Petit Prince” -, dallo
sguardo fotografico.
Ogni fotografo sa che si addomestica il reale per comunicarlo al medesimo
o ad “altri” ancora, ovvero quelli che ancora non sanno, ma che vogliono sapere e
conoscere.
Ogni fotografo sa che la rappresentazione del “cosa” è facile da ottenere, grazie
allo strumento; ma l’espressione del sé (che si accompagna al "cosa") è più difficile da
partecipare.
E se il progetto fotografico, o per intelligenza del fotografo o per volontà e
sapienza del fotografo, risultasse capace di vestire l’eccellenza dell’arte, beh, sento il mio
amico ripetere come i vecchi commedianti “scusateci, non si è fatto apposta”.
Occorre, difatti, entrare in sintonia: stabilire un nesso, un contatto, un cordone
ombelicale che lega ciò che sta dietro l’obiettivo a ciò che gli sta davanti (l’ob-iectum).
Galileo, concretamente, ci direbbe: “Cosa, allora, meglio di un pezzo di vetro?!”
* * *
Ed è proprio di un pezzo di vetro che il nostro amico si è avvalso: quello di una
lente d’ingrandimento, montata o no, della quale i colleghi di Ulderico si sono accessoriati
per esibirsi davanti all’altra lente (quella del suo obiettivo fotografico) ed “insieme”
risolversi in un ritratto.
Questi, esemplificati, sono i due temi del presente lavoro: da un lato, l’atto
del vedere, dall’altro, e molto più concretamente, il ritratto, anzi, per dirla più
sinteticamente, “gli occhi negli occhi”.
Eccoli qua i collaboratori di Knulp: sono famosi artisti dell’otturatore e del
diaframma, disposti a reggere un pezzo di vetro, quasi fosse la lente cristallina del loro
occhio, e come in un film di Bunuel, ci giocano, quasi fosse una protesi distaccatasi dal
loro corpo.
Che cosa può significare il loro gioco? Beh, sono fotografi e conoscono le lenti, e,
quindi, insieme con loro convengono e convergono i raggi della luce come delle emozioni.
Sono fotografi e sanno che la lente dilata la realtà intravista, spiazzando e squilibrando la
verità dei nostri sensi. Sono fotografi e sanno che “qualcuno” sta fotografando questo loro
momento di riflessione.
Quel “qualcuno” è Knulp Malevich che vuol ritornare sul ritratto fotografico e si è
inventato quest’attrezzo per annullare la distanza fra fotografo e fotografato e lasciare, poi,
all’interno della fotografia la firma della sua presenza, una sua impronta.
Insomma un lavoro tra amici: un’acuta riflessione fatta di rimandi, di
corrispondenze e d’allusioni, e, come nelle lenti, di convergenze, di riflessioni e di messe a
fuoco.
Ma questo è il ritratto fotografico! Io ti rubo, forse, l’anima, sembra dire il
fotografo. Ed io, da tempo, aspetto che qualcuno ci provi, risponde il fotografato. E
quando qualcuno non ci proverà più, quel giorno avremo fotografato la morte.
Davanti ai vostri occhi, allora un notes dove, semplicemente e serenamente, sono
appuntati degli incontri tra persone che vogliono vivere e comunicare, che significa pur
sempre mettere in comune.
* * *
E quella lente? Proviamo a dar voce a questi incontri?
“Ti guardo, amico caro, attraverso il mio pezzo di vetro; e ti chiedo di frapporre, tra
l’immagine che hai di te e l’immagine che avrò di te, quest’altro pezzo di vetro affinché
ti possa servire come il bracciolo della sedia, il ventaglio o il libro, o la corona del rosario
o la sciabola, quel trovarobato, insomma, dei ritratti del bel tempo che fu. E ti chiedo,
pure, di utilizzarlo come complemento del tuo viso, come un ricciolo, una ruga, una
sigaretta, un improvviso tic, un vezzo. E di porlo, se hai pazienza, all’altezza che vorrai
senza dimenticare, però, che è il tuo ritratto che dobbiamo partorire, spingere fuori,
ancor quando vorrai nasconderti dietro il pezzo di vetro che ti ho dato e restituirmi una
maschera.
Pertanto, non barare ma gioca come se fossi in palcoscenico (e con il tuo stesso
strumento) e dimmi, se lo vuoi, che sei un fotografo, perché ho bisogno di capirlo, davvero
bisogno”.
Pippo Pappalardo
Ho sottoposto al “gioco” i grandi protagonisti della fatale invenzione ed ognuno di loro,
fotografo o no, mi ha donato una possibile risposta; a volte era umile, talvolta provocante, spesso
sorridente (persino ironica), talaltra contraddittoria, quasi a volermi dire: “cosa vai cercando”?
Ho capito, da questa esperienza, che neanche un cliché, una cornice, un espediente riesce ad
imprigionare la complessità di un volto, per chi vuol guardare, per chi vuol farsi guardare. Ed
io, dietro il mio pezzo di vetro - sempre più luminoso, sempre più artefatto - io resto ancora
nascosto, guardando come un bambino, dentro l’occhio magico del mio strumento, confidando di
aver indovinato la giusta sintonia, la registrazione di un’autentica presenza. (K.M.)
The Magic Eye
di Knulp Malevich
La diversità degli uguali
La serialità ricorsiva, cardine organizzativo dei processi industriali, ovvero la successione di
azioni che causano apparentemente lo stesso effetto, quando si presenta in progetti visivi come in “The
Magic Eye” molto spesso dà adito ad una lettura denotativa superficiale e frustrante che banalizza e
svuota purtroppo la conseguente lettura connotativa dei significati.
Infatti, se non approfondiamo la lettura attraverso l’osservazione dei particolari di ogni scatto
cadiamo in un trabocchetto semplificativo dove le immagini che Knulp Malevich ha realizzato
sembrano tutte uguali: una serie di fotografi famosi ritratti con una lente davanti ad un occhio.
La chiave di lettura che ci fa superare la prima apparente visione di banalità ce la dà
proprio Malevich che è recidivo nei lavori di serialità ricorsiva in quanto ha già avuto modo con il
lavoro “Corridoio Cinese” di farci vedere cosa può esprimere il suo occhio fotografico con il punto di
ripresa fisso.
L’Autore ci dice che ha fotografato d’istinto, con il cuore, e che nel momento dello scatto si è
fatto completamente trascinare dalla magia dell'incontro con il maestro ritratto, dalla sua disponibilità e
dalla percezione che aveva dell'uomo e poi dell'artista, dal luogo, dalla luce.
Ogni volta tutto con un ordine diverso.
Proviamo a riguardare le immagini in sintonia con il suo modo di sentire il momento dello scatto
alla ricerca di questa magia.
L’osservazione dei particolari ci spinge a vedere ciò che prima ci sfuggiva, ovvero l’anima di
ogni maestro magicamente rappresentata dall’ingrandimento dell’occhio prodotto dalla lente.
L’espansione dell’occhio, simbolo della visione dell’uomo sul mondo, mette in nuce in maniera
così forte le diverse e molteplici sensibilità umane dei fotografi tanto da rendere unico ogni singolo
ritratto.
In ognuno di quegli occhi ingranditi c’è un mondo di amore per gli altri e per la vita stessa.
Occhi che hanno pianto davanti al dolore del mondo e sorriso davanti alle gioie, partecipi e
non osservatori passivi nel momento stesso che rappresentavano la realtà attraverso la fotografia. E
l’apparente mancanza di legame logico fra le immagini con una lettura superficiale fa spazio all’ unicità
di ogni scatto che per ossimoro diviene il vero collante semantico del lavoro.
Ma non c’è solo la lente con la sua forza simbolica, ci sono altri indizi compositivi a rendere
unico e significativo ogni fotogramma.
Infatti, con una lettura più attenta viene a galla anche il legame per assonanza di forma e di
concetto che l’autore ha voluto creare tra il soggetto ripreso e la sua contestualizzazione.
Ferdinando Scianna con la fortezza della sua sensibilità culturale.
La scultura tersicorea dietro Bernard Plossu in linea con il suo stile operativo leggiadro e
saltellante a guisa di un H.C. Bresson post litteram.
Le mura di Robert Frank disordinate come le sue ciglia.
Lo sfavillante fuori fuoco dietro Nino Migliori a fare il verso alla sua ecletticità e creatività
fotografica.
Gianni Berengo Gardin nel più grande archivio italiano del reportage introspettivo: il suo.
Letizia Battaglia rossa come il sangue delle strade di Palermo.
Tano D’amico spettatore attento nel teatro della vita.
Tutti diversi nell’uguaglianza, tutti uguali nella diversità, nelle mille diversità.
Maurizio Lupi
Un mago che si rispetti deve avere la sua bacchetta. Un oggetto che possa
comandare e da cui possa, conseguentemente, essere ubbidito.
Il primo incontro con qualcosa di magico, o, che, almeno, come tale definii, fu
appunto il cosiddetto “occhio magico” della radio di famiglia, una valvolare Magneti
Marelli, che misurava, con l’apertura di un luminoso diaframma verde, l’equilibrio della
sintonia della frequenza preferita: quando l’occhio magico raggiungeva la sua massima
apertura e il suo massimo chiarore, allora, come per incanto, le voci e i suoni sgorgavano
nitide e prive d’interferenze; e tutto questo, magicamente avveniva mentre le mie dita
accarezzavano una manopola ubbidiente e silenziosa come il pulsante di un otturatore
fotografico.
Più adulto, incontrai un altro “occhio magico” sulle porte d’ingresso di certe
abitazioni dietro le quali occhi sospettosi, prima ancora che curiosi, scrutavano, non visti,
le fattezze del visitatore per controllarne l’identità.
Davanti al riflesso di questi silenziosi “polifemidi” mi atteggiavo di conseguenza:
mi toglievo il berretto, abbassavo il bavero del soprabito, mi ravviavo i capelli, assumevo
un sorriso di circostanza. Cercavo, insomma, di adeguarmi, senza ricorrere ad alcuna
magia, alle aspettative dello spione di turno. E, naturalmente, mi mettevo in posa.
Ritorna, ancora, il binomio “occhio – magia” nella proposta fotografica dell’amico
Knulp e, nel frattempo, è divenuto qualcosa di differente, di sostanzialmente differente:
il suo “occhio magico”, infatti, non parla più di sintonia e non spia più in forma discreta
(ma, forse, mi sbaglio). Forse la sua ricerca di sintonia è una messa fuoco diretta verso
qualcosa che si rivela all’occhio più che allo strumento; ma è pur sempre la magia dello
strumento che conserva la sim-patia della sin-tonia; insomma l’equazione “occhio-magia”
regge ancora.
*
* *
Nell’Arsenale di Venezia, il grande Galileo Galilei ebbe notizia di una trovata di
alcuni meccanici (cinesi, olandesi) intorno all’uso di certe lenti. Verificando le ipotesi
di quei lavoratori, lo scienziato giunse a concepire inedite possibilità di sfruttamento
delle proprietà ottiche racchiuse nelle lenti qualora opportunamente lavorate e altrettanto
opportunamente montate.
C’è, ancora, qualcuno che insiste nel togliere al genio pisano la primogenitura
dell’invenzione del cannocchiale; tutti noi, invece, non dubitiamo della bontà scientifica
dell’uso cui destinò le sue lenti e dei risultati che con le medesime raggiunse.
Galilei, infatti, sta dietro ogni fotografia che, oggi, noi realizziamo; non tanto per le
sue scoperte intorno alle lenti quanto per averci insegnato a capire come si guarda il cielo
piuttosto che accanirci a capire come guarda il cielo.
Ogni fotografo, se è immerso nella realtà delle cose e da questa è osservato, chiede
un dialogo e attende una corrispondenza.
Sembra facile raccogliere la magica realtà che ci circonda perché lo strumento
si fa sempre più duttile e sofisticato, quasi intelligente e, pertanto, una lente, più lenti,
invero, mettono a dieta il reale per farlo passare per l’evangelica cruna dell’ago. Ma ogni
fotografo sa che non basta lo strumento; e non basta neanche essere poveri per fare spazio
a quella realtà che vuol lasciarsi addomesticare - come la volpe del “Petit Prince” -, dallo
sguardo fotografico.
Ogni fotografo sa che si addomestica il reale per comunicarlo al medesimo
o ad “altri” ancora, ovvero quelli che ancora non sanno, ma che vogliono sapere e
conoscere.
Ogni fotografo sa che la rappresentazione del “cosa” è facile da ottenere, grazie
allo strumento; ma l’espressione del sé (che si accompagna al "cosa") è più difficile da
partecipare.
E se il progetto fotografico, o per intelligenza del fotografo o per volontà e
sapienza del fotografo, risultasse capace di vestire l’eccellenza dell’arte, beh, sento il mio
amico ripetere come i vecchi commedianti “scusateci, non si è fatto apposta”.
Occorre, difatti, entrare in sintonia: stabilire un nesso, un contatto, un cordone
ombelicale che lega ciò che sta dietro l’obiettivo a ciò che gli sta davanti (l’ob-iectum).
Galileo, concretamente, ci direbbe: “Cosa, allora, meglio di un pezzo di vetro?!”
* * *
Ed è proprio di un pezzo di vetro che il nostro amico si è avvalso: quello di una
lente d’ingrandimento, montata o no, della quale i colleghi di Ulderico si sono accessoriati
per esibirsi davanti all’altra lente (quella del suo obiettivo fotografico) ed “insieme”
risolversi in un ritratto.
Questi, esemplificati, sono i due temi del presente lavoro: da un lato, l’atto
del vedere, dall’altro, e molto più concretamente, il ritratto, anzi, per dirla più
sinteticamente, “gli occhi negli occhi”.
Eccoli qua i collaboratori di Knulp: sono famosi artisti dell’otturatore e del
diaframma, disposti a reggere un pezzo di vetro, quasi fosse la lente cristallina del loro
occhio, e come in un film di Bunuel, ci giocano, quasi fosse una protesi distaccatasi dal
loro corpo.
Che cosa può significare il loro gioco? Beh, sono fotografi e conoscono le lenti, e,
quindi, insieme con loro convengono e convergono i raggi della luce come delle emozioni.
Sono fotografi e sanno che la lente dilata la realtà intravista, spiazzando e squilibrando la
verità dei nostri sensi. Sono fotografi e sanno che “qualcuno” sta fotografando questo loro
momento di riflessione.
Quel “qualcuno” è Knulp Malevich che vuol ritornare sul ritratto fotografico e si è
inventato quest’attrezzo per annullare la distanza fra fotografo e fotografato e lasciare, poi,
all’interno della fotografia la firma della sua presenza, una sua impronta.
Insomma un lavoro tra amici: un’acuta riflessione fatta di rimandi, di
corrispondenze e d’allusioni, e, come nelle lenti, di convergenze, di riflessioni e di messe a
fuoco.
Ma questo è il ritratto fotografico! Io ti rubo, forse, l’anima, sembra dire il
fotografo. Ed io, da tempo, aspetto che qualcuno ci provi, risponde il fotografato. E
quando qualcuno non ci proverà più, quel giorno avremo fotografato la morte.
Davanti ai vostri occhi, allora un notes dove, semplicemente e serenamente, sono
appuntati degli incontri tra persone che vogliono vivere e comunicare, che significa pur
sempre mettere in comune.
* * *
E quella lente? Proviamo a dar voce a questi incontri?
“Ti guardo, amico caro, attraverso il mio pezzo di vetro; e ti chiedo di frapporre, tra
l’immagine che hai di te e l’immagine che avrò di te, quest’altro pezzo di vetro affinché
ti possa servire come il bracciolo della sedia, il ventaglio o il libro, o la corona del rosario
o la sciabola, quel trovarobato, insomma, dei ritratti del bel tempo che fu. E ti chiedo,
pure, di utilizzarlo come complemento del tuo viso, come un ricciolo, una ruga, una
sigaretta, un improvviso tic, un vezzo. E di porlo, se hai pazienza, all’altezza che vorrai
senza dimenticare, però, che è il tuo ritratto che dobbiamo partorire, spingere fuori,
ancor quando vorrai nasconderti dietro il pezzo di vetro che ti ho dato e restituirmi una
maschera.
Pertanto, non barare ma gioca come se fossi in palcoscenico (e con il tuo stesso
strumento) e dimmi, se lo vuoi, che sei un fotografo, perché ho bisogno di capirlo, davvero
bisogno”.
Pippo Pappalardo
Ho sottoposto al “gioco” i grandi protagonisti della fatale invenzione ed ognuno di loro,
fotografo o no, mi ha donato una possibile risposta; a volte era umile, talvolta provocante, spesso
sorridente (persino ironica), talaltra contraddittoria, quasi a volermi dire: “cosa vai cercando”?
Ho capito, da questa esperienza, che neanche un cliché, una cornice, un espediente riesce ad
imprigionare la complessità di un volto, per chi vuol guardare, per chi vuol farsi guardare. Ed
io, dietro il mio pezzo di vetro - sempre più luminoso, sempre più artefatto - io resto ancora
nascosto, guardando come un bambino, dentro l’occhio magico del mio strumento, confidando di
aver indovinato la giusta sintonia, la registrazione di un’autentica presenza. (K.M.)
The Magic Eye
di Knulp Malevich
La diversità degli uguali
La serialità ricorsiva, cardine organizzativo dei processi industriali, ovvero la successione di
azioni che causano apparentemente lo stesso effetto, quando si presenta in progetti visivi come in “The
Magic Eye” molto spesso dà adito ad una lettura denotativa superficiale e frustrante che banalizza e
svuota purtroppo la conseguente lettura connotativa dei significati.
Infatti, se non approfondiamo la lettura attraverso l’osservazione dei particolari di ogni scatto
cadiamo in un trabocchetto semplificativo dove le immagini che Knulp Malevich ha realizzato
sembrano tutte uguali: una serie di fotografi famosi ritratti con una lente davanti ad un occhio.
La chiave di lettura che ci fa superare la prima apparente visione di banalità ce la dà
proprio Malevich che è recidivo nei lavori di serialità ricorsiva in quanto ha già avuto modo con il
lavoro “Corridoio Cinese” di farci vedere cosa può esprimere il suo occhio fotografico con il punto di
ripresa fisso.
L’Autore ci dice che ha fotografato d’istinto, con il cuore, e che nel momento dello scatto si è
fatto completamente trascinare dalla magia dell'incontro con il maestro ritratto, dalla sua disponibilità e
dalla percezione che aveva dell'uomo e poi dell'artista, dal luogo, dalla luce.
Ogni volta tutto con un ordine diverso.
Proviamo a riguardare le immagini in sintonia con il suo modo di sentire il momento dello scatto
alla ricerca di questa magia.
L’osservazione dei particolari ci spinge a vedere ciò che prima ci sfuggiva, ovvero l’anima di
ogni maestro magicamente rappresentata dall’ingrandimento dell’occhio prodotto dalla lente.
L’espansione dell’occhio, simbolo della visione dell’uomo sul mondo, mette in nuce in maniera
così forte le diverse e molteplici sensibilità umane dei fotografi tanto da rendere unico ogni singolo
ritratto.
In ognuno di quegli occhi ingranditi c’è un mondo di amore per gli altri e per la vita stessa.
Occhi che hanno pianto davanti al dolore del mondo e sorriso davanti alle gioie, partecipi e
non osservatori passivi nel momento stesso che rappresentavano la realtà attraverso la fotografia. E
l’apparente mancanza di legame logico fra le immagini con una lettura superficiale fa spazio all’ unicità
di ogni scatto che per ossimoro diviene il vero collante semantico del lavoro.
Ma non c’è solo la lente con la sua forza simbolica, ci sono altri indizi compositivi a rendere
unico e significativo ogni fotogramma.
Infatti, con una lettura più attenta viene a galla anche il legame per assonanza di forma e di
concetto che l’autore ha voluto creare tra il soggetto ripreso e la sua contestualizzazione.
Ferdinando Scianna con la fortezza della sua sensibilità culturale.
La scultura tersicorea dietro Bernard Plossu in linea con il suo stile operativo leggiadro e
saltellante a guisa di un H.C. Bresson post litteram.
Le mura di Robert Frank disordinate come le sue ciglia.
Lo sfavillante fuori fuoco dietro Nino Migliori a fare il verso alla sua ecletticità e creatività
fotografica.
Gianni Berengo Gardin nel più grande archivio italiano del reportage introspettivo: il suo.
Letizia Battaglia rossa come il sangue delle strade di Palermo.
Tano D’amico spettatore attento nel teatro della vita.
Tutti diversi nell’uguaglianza, tutti uguali nella diversità, nelle mille diversità.
Maurizio Lupi
15
aprile 2012
Knulp Malevich – The magic eye
Dal 15 al 29 aprile 2012
fotografia
Location
OFFICINE CANTELMO
Lecce, Viale Michele De Pietro, 34, (Lecce)
Lecce, Viale Michele De Pietro, 34, (Lecce)
Vernissage
15 Aprile 2012, ore 18.30
Sito web
www.knulpmalevich.com
Autore
Curatore