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La città a fior di pelle 2
Una città cambia a seconda del punto da cui la si guarda: dal basso, o dall’alto. A seconda che si dia conto di come la si vive, o di come la si sogna. Bianca Visentin, prese a prestito ali d’uccello, vola sopra i tetti delle case per darci un punto di vista diverso da quello solito.
Comunicato stampa
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LA CITTÀ A FIOR DI PELLE 2
Una città cambia a seconda del punto da cui la si guarda: dal basso, o dall'alto. A seconda che si dia conto di come la si vive, o di come la si sogna. Bianca Visentin, prese a prestito ali d'uccello, vola sopra i tetti delle case per darci un punto di vista diverso da quello solito. Con i piedi sulle nuvole, a guardare in giù si vedono imbuti di vie e sequenze di finestre, bagliori lunari e tende nel vento: ogni città ha il suo angelo, la sua ombra di piume a coprire le notti, a custodire i sonni. Anche Chiara Ricardi osserva dall'alto, ma per dare topografie, rilevazioni, misurazioni di maglie fitte e sviluppi di reti e di vie. Chiara racconta la metamorfosi antropomorfa del territorio, la stratificazione della storia che fa sì che le strade somiglino a vasi sanguigni, che le città siano immagine del corpo umano. Riccardo Giulietti rimane a metà, tra terra e cielo, tra le luci della città e le luci del tramonto. Ma la notte diventa psichedelica, lisergica: nell'insolita esperienza di un tramonto a Milano l'aria inghiotte il cemento, e ammalia la fotografia, che insegue moduli pittorici per dare forma allo stupore. Gabriella Kuruvilla priva la città di ogni riferimento reale, di ogni requisito biografico. Le opere qui esposte rivelano parentele con la città in virtù di un processo di sintesi e di metafora: le differenze etniche, linguistiche e sociali di ogni vissuto urbano vengono riassunte nei materiali – garze, sabbie, cotoni - che si combinano con i colori per esperienze sempre nuove e diverse. Al contrario, Silvia Majocchi e Massimo Gurnari attingono a piene mani dalla propria memoria per interpretare la città: Massimo centrando il discorso sull'interazione tra un "io" e i luoghi che vive, significativamente usati come "sfondo" attorno al soggetto; Silvia creando teatrini di plexiglas, teche entro cui stanno chiusi i ricordi dei giochi e dell'infanzia, come a proteggere l'età dell'innocenza dai clangori del quotidiano. E all'infanzia e al suo rapporto con la città, intesa come spazio e come modo di vivere, guarda anche Angelo Di Dedda: il bambino è per lui aperto, curioso, ma anche già responsabile. Ha le braccia in alto, cariatide a reggere ingenuo e puro il mondo; ha lo sguardo puntato verso chi quel mondo lo fa ogni giorno più pesante. Chi invece sta con i piedi dentro le città, con gli occhi incollati sui suoi muri e appesi ai suoi cieli, spesso utilizza la fotografia per dare ragione di queste visioni. Così è per Mirko Galli, che indaga il confine tra centro e periferia, e lo scarto tra ciò che si muove - auto, tram, vagoni della metropolitana, passi - e ciò che sta fermo - muri, graffiti, cartelloni pubblicitari, attese; così è per Silvia Abbiezzi, che suggerisce con le sue foto documentaristiche un confronto tra Oriente e Occidente, tra l'orizzontalità dell'acqua e la verticalità dei palazzi. Così, infine, fa Giorgina Castiglioni, che sottrae con l'obiettivo il pudore agli edifici in restauro, come fossero carni malate rivestite da una pelle che occulta le forme originarie per crearne di nuove, e inedite. Carlo Oberti guarda invece i muri e i cartelli. Si impossessa del mezzo pubblicitario per trasformarlo in altro, per fagocitarlo in un collage asintattico. Il cartellone è cibo, e la città la tavola meglio imbandita: le sue opere sono metafora della cacofonia della comunicazione, spinta fino alla perdita di senso.E di muri sono fatti anche i palazzi, gli stessi cui si ispirano Maria Pia Caprio e Nicoletta Frigerio. L'antitesi tra interno ed esterno, tra preziosità del vivere domestico e anonimato del domicilio è evidente nelle sculture della Frigerio: piani implosi o esplosi, aperture e pertugi di luce come finestre accese da cui è possibile spiare le vite. I palazzi di Maria Pia Caprio sono invece pareti d'argilla contrapposte, piani concavi e convessi a significare il percorso tra dentro e fuori; ma sono anche ritratti - gli unici qui presenti – di architetture cittadine dipinte su ceramica, simbolo della possibilità di creare ovunque la casa. Un po' come fa Spelta, che astrae il concetto di abitazione fino a farlo coincidere, in maniera assai più ampia, con quello di nido. Dà così origine a nidi umani, culle di foglie e rami e terra entro cui insistere la richiesta di città a misura d'uomo. Qualunque sia il punto di vista da cui le si guarda.
Cinzia Bollino Bossi
Una città cambia a seconda del punto da cui la si guarda: dal basso, o dall'alto. A seconda che si dia conto di come la si vive, o di come la si sogna. Bianca Visentin, prese a prestito ali d'uccello, vola sopra i tetti delle case per darci un punto di vista diverso da quello solito. Con i piedi sulle nuvole, a guardare in giù si vedono imbuti di vie e sequenze di finestre, bagliori lunari e tende nel vento: ogni città ha il suo angelo, la sua ombra di piume a coprire le notti, a custodire i sonni. Anche Chiara Ricardi osserva dall'alto, ma per dare topografie, rilevazioni, misurazioni di maglie fitte e sviluppi di reti e di vie. Chiara racconta la metamorfosi antropomorfa del territorio, la stratificazione della storia che fa sì che le strade somiglino a vasi sanguigni, che le città siano immagine del corpo umano. Riccardo Giulietti rimane a metà, tra terra e cielo, tra le luci della città e le luci del tramonto. Ma la notte diventa psichedelica, lisergica: nell'insolita esperienza di un tramonto a Milano l'aria inghiotte il cemento, e ammalia la fotografia, che insegue moduli pittorici per dare forma allo stupore. Gabriella Kuruvilla priva la città di ogni riferimento reale, di ogni requisito biografico. Le opere qui esposte rivelano parentele con la città in virtù di un processo di sintesi e di metafora: le differenze etniche, linguistiche e sociali di ogni vissuto urbano vengono riassunte nei materiali – garze, sabbie, cotoni - che si combinano con i colori per esperienze sempre nuove e diverse. Al contrario, Silvia Majocchi e Massimo Gurnari attingono a piene mani dalla propria memoria per interpretare la città: Massimo centrando il discorso sull'interazione tra un "io" e i luoghi che vive, significativamente usati come "sfondo" attorno al soggetto; Silvia creando teatrini di plexiglas, teche entro cui stanno chiusi i ricordi dei giochi e dell'infanzia, come a proteggere l'età dell'innocenza dai clangori del quotidiano. E all'infanzia e al suo rapporto con la città, intesa come spazio e come modo di vivere, guarda anche Angelo Di Dedda: il bambino è per lui aperto, curioso, ma anche già responsabile. Ha le braccia in alto, cariatide a reggere ingenuo e puro il mondo; ha lo sguardo puntato verso chi quel mondo lo fa ogni giorno più pesante. Chi invece sta con i piedi dentro le città, con gli occhi incollati sui suoi muri e appesi ai suoi cieli, spesso utilizza la fotografia per dare ragione di queste visioni. Così è per Mirko Galli, che indaga il confine tra centro e periferia, e lo scarto tra ciò che si muove - auto, tram, vagoni della metropolitana, passi - e ciò che sta fermo - muri, graffiti, cartelloni pubblicitari, attese; così è per Silvia Abbiezzi, che suggerisce con le sue foto documentaristiche un confronto tra Oriente e Occidente, tra l'orizzontalità dell'acqua e la verticalità dei palazzi. Così, infine, fa Giorgina Castiglioni, che sottrae con l'obiettivo il pudore agli edifici in restauro, come fossero carni malate rivestite da una pelle che occulta le forme originarie per crearne di nuove, e inedite. Carlo Oberti guarda invece i muri e i cartelli. Si impossessa del mezzo pubblicitario per trasformarlo in altro, per fagocitarlo in un collage asintattico. Il cartellone è cibo, e la città la tavola meglio imbandita: le sue opere sono metafora della cacofonia della comunicazione, spinta fino alla perdita di senso.E di muri sono fatti anche i palazzi, gli stessi cui si ispirano Maria Pia Caprio e Nicoletta Frigerio. L'antitesi tra interno ed esterno, tra preziosità del vivere domestico e anonimato del domicilio è evidente nelle sculture della Frigerio: piani implosi o esplosi, aperture e pertugi di luce come finestre accese da cui è possibile spiare le vite. I palazzi di Maria Pia Caprio sono invece pareti d'argilla contrapposte, piani concavi e convessi a significare il percorso tra dentro e fuori; ma sono anche ritratti - gli unici qui presenti – di architetture cittadine dipinte su ceramica, simbolo della possibilità di creare ovunque la casa. Un po' come fa Spelta, che astrae il concetto di abitazione fino a farlo coincidere, in maniera assai più ampia, con quello di nido. Dà così origine a nidi umani, culle di foglie e rami e terra entro cui insistere la richiesta di città a misura d'uomo. Qualunque sia il punto di vista da cui le si guarda.
Cinzia Bollino Bossi
09
dicembre 2003
La città a fior di pelle 2
Dal 09 al 19 dicembre 2003
arte contemporanea
Location
BERTOLT BRECHT – SPAZIO 1
Milano, Piazza San Giuseppe, 10, (Milano)
Milano, Piazza San Giuseppe, 10, (Milano)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì dalle ore 17.00 alle ore 20.00
Vernissage
9 Dicembre 2003, ore 18.30